Potete leggere le prime quattro partite qui.
1.
Avevamo lasciato la vecchia casa qualche mese prima. Ci eravamo spostati di un paio di chilometri verso nord, dalla Nomentana a Montesacro, ma per me cambiava tutto. Se prima non avevo amici tranne quelli di mia sorella, di sette anni più grande, costretta a farmi da babysitter il pomeriggio mentre i nostri genitori lavoravano, di colpo ero abbastanza grande per passare il pomeriggio da solo e avevo dei ragazzi a me più o meno coetanei con cui socializzare, nei giardini vicini a casa.
Teoricamente erano parte del Parco delle Valli, ma in realtà si trattava di una fettuccia polverosa schiacciata tra la strada e l’Aniene, con un campo di cemento con dei canestri all’estremità, sul retro della chiesa del quartiere, in cui nessuno giocava a basket. Si usavano sempre e solo i piedi, in partite tre contro tre, o anche quattro contro quattro, la porta era la grande X disegnata dalla struttura di metallo che sosteneva i canestri. Quelli con la bici correvano sulla stradina sterrata, prendendosi a calci l’un l’altro, rischiando di finire nella scarpata che portava all’Aniene. Ogni tanto ci finiva la palla, in quella specie di bosco diagonale che scendeva verso l’acqua quasi stagnante del fiume, e bisognava cercarla in mezzo alle lavatrici buttate. Tra i rifiuti c’erano delle coperte, in cui dormivano degli operai dell’est-Europa che la mattina presto, quando portavo il cane a pisciare, vedevo uscire da quegli stessi buchi nella rete metallica da cui passavamo noi per andare a riprenderci il pallone.
Nei giorni di piena il fiume si gonfiava, con lo stesso orgoglio estemporaneo che mostrano i romani quando gli gira. Una volta, mentre cercavo la palla, sulla sponda opposta dell’Aniene ho visto un cavallo che mangiava l’erba, era partito da un piccolo maneggio non lontano ma a me pareva un’apparizione mistica, il fantasma di un cavallo che era vissuto lì secoli prima, magari ai tempi delle rivolte plebee del 494 a.c. Io sto parlando della metà degli anni ‘90, un decennio prima che dall’altra parte del fiume venisse torturato e ucciso Paolo Seganti, in mezzo a urla che arrivavano fino alle case più vicine, ma non alla mia. Le modalità della sua morte lasciano pensare che sia stato ucciso perché omosessuale, ma gli assassini non sono mai stati trovati.
Praticamente da un giorno all’altro sono passato dalla solitudine di un bambino che gioca con le formiche, che raramente andava a casa di un compagno di classe o di squadra, alla promiscuità con ragazzi che mi prendevano a calci in culo senza ragione mentre giocavamo a calcio. Era una novità in perfetta sintonia con il mio sviluppo emotivo: litigare mentre giocavo era diventata la mia principale modalità espressiva, senza mai abbozzare, senza mai lasciare l’ultima parola. Francamente, non ci vedevo niente di male.
Nel quartiere comunque c’erano pochi ragazzi della mia età. Si trattava di palazzi in cui originariamente abitavano immigrati del sud e che faticavano a ripopolarsi o ad animarsi. C’era un solo bar che cambiava spesso di gestione e diventava prima sala giochi, poi birreria, poi di nuovo bar con bisca. Lì davanti, la sera, si riunivano i ragazzi più grandi, che quasi mai giocavano con noi il pomeriggio. Avevo dodici anni e giocavo tutti i giorni fuori scuola all’ora di pranzo, e tutti i pomeriggi in quel parco, dopo le quattro, mi allenavo due volte a settimana, nel fine settimana c’era il campionato. Nessuno era fissato come me con il calcio: d’estate specialmente, non c’era quasi nessuno al parco. Io scendevo sempre in anticipo sugli altri, non eravamo mai più di una decina e l’attesa per capire chi ci sarebbe stato e se saremmo riusciti a giocare era una delle emozioni che dava concretezza alle mie giornate.
D’altra parte, casa era vuota finché mia madre non tornava da lavoro e senza motorino mi spostavo raramente dal quartiere. Era il periodo precedente all’impazzimento degli ormoni, ero ancora troppo piccolo per le ragazze o per il fumo, anche se la presenza di entrambe le cose intorno a me non mi era indifferente. Le nostre non erano quasi mai partite memorabili, la gente entrava e usciva e un livello così amatoriale l’avevo vissuto solo alle elementari, prima che a cinque anni mia madre mi iscrivesse a scuola calcio, anche in quel caso in anticipo (mia madre aveva dovuto chiedere un’eccezione alla squadra più vicina a casa).
Però erano partite senza esclusione di colpi, in cui ogni debolezza veniva sfruttata, i grandi facevano volare i più piccoli nei contrasti, se eri veloce ti prendevano a calci sulle gambe per rallentarti. Oggi provo nostalgia per la rabbia che provavo in quei pomeriggi quando perdevo, per quei rapporti apertamente conflittuali che solo raramente finivano in vere e proprie risse. Eppure sapere che c’era quella possibilità aiutava ulteriormente a chiarire chi era cosa: io ero un pesce piccolo, per l’età e per le dimensioni, potevo incazzarmi quanto volevo che quelli più grossi si mettevano a ridere e se mi volevano rimettere al mio posto lo facevano senza esagerare.
Ci conoscevamo tutti e, penso, ci conoscevamo meglio allora di quanto ci saremmo conosciuti in seguito. C’erano faide lunghe sempre al limite del litigio irreparabile, antipatie che duravano mesi e poi svanivano nel nulla.
Per qualche ragione, certi giorni le partite diventano più grandi e dovevamo spostarci sullo spiazzo terroso del parchetto. L’unica che ricordo con maggiore chiarezza, è la partita in cui hanno giocato tre fratelli senegalesi. Forse erano lì perché d’estate raggiungevano il padre che viveva a Roma, in ogni caso non era la prima volta che venivano al parco, ci avevo già giocato un paio di volte quando però eravamo pochissimi. Erano tre fratelli con un paio d’anni di distanza l’uno dall’altro, il più piccolo aveva più o meno la mia età, il più grande era maggiorenne o quasi. Il talento calcistico era finito quasi tutto nell’ultimo arrivato, aveva una leggerezza e un piede sensibile al punto che avrebbe potuto giocare anche nella mia squadra vera. Gli altri due invece avevano delle gambe lunghe e secche da fenicotteri, erano lenti e avevano zero sensibilità nel controllare la palla.
Quella partita era iniziata come tre contro tre ma si era ingrandita fino a spingerci fuori dal campetto di cemento. Ricordo la polvere in mezzo a cui quasi soffocavamo alla fine e il piccolo pubblico di ragazzi più grandi che si era creato. Avevo segnato su punizione, calciando forte e basso, e qualcuno aveva detto «Koeman», dopo che la palla era entrata. Qualcun altro invece a un certo punto ha iniziato a dire che era “Italia contro Senegal”, che anche se in squadra con i fratelli, che erano distanziati di un paio d’anni l’uno dall’altro, c’eravamo sia io che un altro paio di locali.
Le botte erano quelle che ci davamo sempre e non ho percepito nessuna tensione particolare fino a quando un avversario, uno di cui non ricordo il nome ma il fatto che giocava a torso nudo con i jeans, che doveva avere sedici o diciassette anni, ha fatto un’entrataccia al fratello più piccolo. Quello non ha battuto ciglio, ma il più grande, appena ha potuto, gliel’ha restituito. Con sorprendente forza e velocità ha infilato la gamba in un contrasto con il tempo giusto per prendere lo stinco del tizio che aveva fatto male al fratello e ritrovarsi con la palla ai piedi. Ho pensato che allora il resto del tempo aveva giocato tenendosi, non al massimo delle proprie possibilità. Non giocava con quella rabbia che era la nostra benzina, ma che adesso gli aveva fatto perdere quella posa educata che aveva prima. Adesso era davvero uno dei nostri.
Per me era giusto così, ero soddisfatto che la mia squadra si facesse rispettare, anche se si era creato il solito casino di spinte e minacce. Non appena quello coi jeans si fosse rialzato, pensavo, avremmo potuto riprendere a giocare come sempre. E invece quello si è alzato, si è allontanato dal campo senza dire niente – pensavo si fosse offeso – ed è tornato con in mano un bastone. Poi è corso verso il fratello più grande, che è indietreggiato senza correre. Forse si aspettava che qualcuno intervenisse, invece un altro più vicino a lui lo ha colpito con un destro.
A quel punto il più grande dei ragazzi senegalesi ha vacillato, giusto un momento, mentre i due più piccoli gli si sono messi davanti per proteggerlo. Anche io, che ero ancora nella modalità compagno di squadra, ma non ero abituato a quel livello di violenza, mi ero messo in mezzo a cercare di trattenere quella che era diventata una piccola folla di gente incazzata che adesso avanzava scalciando e insultando.
Poi i tre fratelli sono scappati, inseguiti da una decina di persone, mentre io sono rimasto lì senza sapere cosa fare. Non so se poi li hanno presi o se sono riusciti ad arrivare a casa. Non ho più rivisto quei tre fratelli e non ho capito perché ce l’avessero tanto con loro, in fondo era stato quello con i jeans a cominciare.
Quella partita non l’abbiamo mai finita.