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L’ampiezza dell’oceano
15 feb 2017
15 feb 2017
Dario Saric, il suo futuro nei Sixers e l’eterna questione su quando fare il grande salto verso l’NBA.
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Trecentocinque lunghi, lunghissimi giorni. Dal momento più buio, una ferita al cuore di Sebenico e di tutta la Croazia, fino alla gioia per una nuova vita. Quando Dario Saric nasce l’8 aprile 1994 sono trascorsi dieci mesi dalla tragedia consumatasi sull’Autobahn 9, all’altezza di Denkendorf. Predrag Saric, padre di Dario, era stato compagno di Drazen Petrovic in una versione a dir poco leggendaria del KK Sibenik mentre Veselinka, la signora Saric, ha un passato da giocatrice professionista. Il corredo genetico viene trasmesso al figlio insieme alla passione per la palla a spicchi e Dario, fin da bambino, mostra le stigmate del predestinato. Con la maglia del Cibona vince, da protagonista, tutto quello che c’è da vincere in patria, ma è con quella della nazionale che Saric si toglie soddisfazioni, anche personali, con pochi precedenti. Come termine di paragone per il giovane lungo viene scomodata un’altra leggenda del basket croato: Toni Kukoc.

Vittoria del torneo e premio di MVP: un'accoppiata a cui Saric farà l'abitudine indossando la maglia della nazionale

Quando, dopo un anno di tentennamenti, nella primavera del 2014 Saric decide finalmente di rendersi eleggibile per l’NBA, sono parecchi gli addetti ai lavori a entrare in fibrillazione. Due giorni prima del Draft, tuttavia, accetta la sostanziosa offerta dell’Anadoulu Efes e firma col club turco un contratto biennale con opzione per il terzo e clausola d’uscita verso l’NBA al termine di ogni stagione. Nonostante questo, e a fronte della palese intenzione di giocare in Europa per almeno un altro anno, i Sixers decidono di spendere per lui la 12° chiamata, ricevuta da Orlando insieme a un’altra scelta (in quella che è da considerarsi come una vera e propria estorsione ai danni dei Magic che desideravano ardentemente Elfrid Payton). È una delle decisioni migliori e allo stesso tempo più discusse dell’era Hinkie, già piuttosto controversa di suo dopo aver preso un altro giocatore infortunato con la terza scelta assoluta, tale Joel Embiid. Tuttavia, essendo in pieno svolgimento quello che è stato ribattezzato The Process, il dollaro puntato su Saric assume le sembianze di un investimento dai ritorni futuribili. La decisione di giocare l’Eurolega e confrontarsi con il massimo livello di competizione continentale, invece, alimenta l’eterna discussione: per un prospetto FIBA è meglio andare subito in NBA o farsi prima le ossa in Europa?’. Le due stagioni trascorse nella capitale turca, solide ma non trascendentali, forniscono risposte interpretabili in entrambi i sensi.

L'ampiezza dell’oceano

Il dibattito su quando staccare il biglietto per il volo intercontinentale rimane dunque aperto. Stabilire un criterio applicabile in astratto è impresa futile, dato che le variabili che concorrono allo sviluppo di un giocatore sono troppo numerose e difficili da classificare. È possibile però osservare quanto accade, ovvero come per ogni Giannis Antetokounmpo — passato nel giro di quattro anni dalla seconda serie greca all’All-Star Game — ci siano molteplici talenti scelti molto in alto al Draft per i quali l’attraversamento dell’oceano in giovane età e in assenza di una solida esperienza di pallacanestro nel vecchio continente non ha sortito lo stesso effetto. Prospetti approdati in the league con un bagaglio traboccante di aspettative come Donatas Motiejunas e Kevin Seraphin hanno faticato a trovare spazio, per non citare talenti come Rudy Fernandez, Rodrigue Beaubois e Jan Vesely che, dopo aver stregato parecchi GM e aver convinto a momenti alterni in NBA, hanno deciso di tornare in Europa e costruirsi prospere carriere in Eurolega. D’altro canto, infine, giocatori che hanno compiuto il balzo verso la NBA con alle spalle esperienze tangibili di pallacanestro europea ad alto livello come Mario Hezonja e Tomas Satoransky non sono riusciti, per ora, ad avere l’impatto che ci si attendeva.

Com’è ovvio, il contesto tecnico ha un peso notevole nello sviluppo di un giocatore, così come le peculiarità tecniche e caratteriali del singolo finiscono spesso per dettare tempi e modi della possibile ascesa a protagonisti in una lega iper-competitiva come l’NBA. L’impressione è che per giocatori con mezzi atletici nella norma (quindi escludendo gli Antetokounmpo o i Rudy Gobert del caso), un’esperienza europea possa rappresentare un buon viatico per arrivare più preparati allo sbarco sul continente americano. Oltre a rappresentare un eccellente livello di pallacanestro, infatti, la nuova formula adottata dall’Eurolega accorcia sensibilmente la discrepanza relativa al numero di partite giocate in una stagione. Assommando gli impegni connessi ai rispettivi campionati nazionali, un top team in grado di arrivare in fondo ad ogni competizione finisce infatti per disputare un numero di partite complessivo non molto distante dalle 82 della regular season NBA. Ciò nonostante, come ampiamente dimostrato, il divario fisico e legato alla velocità d’esecuzione del gioco, nonché la complessità logistica delle trasferte sparse su tre fusi orari differenti e i terrificanti back-to-back, rimane piuttosto ampio.

Al di là delle motivazioni di carattere tecnico, è probabile che a orientare le scelte dei Luka Doncic di oggi e domani sarà un altro divario: quello economico. Da questo punto di vista, il nuovo CBA potrebbe ampliare a dismisura il gap che, per determinate fasce di giocatori, la brillante gestione a marchio Eurolega e la conseguente solidità finanziaria avevano contribuito a ridurre. Perché entrare il prima possibile al Draft significa mettere immediatamente le mani su un contratto che, nei casi migliori, supera già i 6 milioni di dollari al primo, e soprattutto significa immettersi immediatamente in un percorso che nel giro di tre (con l’estensione) o quattro (con la free agency) permetter di garantirsi un centinaio malcontato di milioni di presidenti spirati prima ancora dei 25 anni, con tutto il tempo di garantirsi un altro contratto nel prime della carriera attorno ai 28/29. Dal punto di vista prettamente economico, prima si comincia e meglio è.

Il futuro è medio

Quello di Saric potrebbe quindi rappresentare un caso scuola interessante per provare a comprendere, ove possibile, quale sia il percorso meno accidentato per diventare un giocatore NBA.

Reduce da un’estate in cui si è caricato sulle spalle la Croazia, le cifre racimolate fin qui delineano invece un apporto apparentemente modesto alla causa di Philadelphia: 10.6 punti, 5.8 rimbalzi, 1.8 assist e 1.9 palle perse in poco più di 24 minuti d’impiego medio. Il net rating con lui sul parquet è di -7.1, peggiore rispetto al già non brillantissimo -4.8 quando non è in campo. I limiti nel gioco di Saric, che rimane pur sempre un rookie in una squadra decisamente perdente, sono emersi su entrambi il lati del campo, soprattutto in difesa: il defensive rating con lui in campo è di 106.8, dato che nei back to back precipita a 119, complice anche l’assenza di Joel Embiid in questo tipo di partite. Come per ogni Sixer, anche per Saric la presenza in campo del camerunense cambia ogni cosa: dal -11.5 senza Embiid si passa al +4.3 di net rating quando i due condividono il campo — un dato decisamente incoraggiante per il futuro. Lo è di meno il fatto che il differenziale su 100 possessi della squadra precipiti quando il croato divide il campo con Nerlens Noel, Jahlil Okafor (-18.5!) o Richaun Holmes, mentre si mantiene sulla neutralità quando gioca insieme a Ersan Ilyasova (-0.7).

Sull’altro versante, il numero 9 dei Sixers ha chiuso questa prima parte di stagione tirando sotto il 40% dal campo e, soprattutto, il 34% da tre. Che l’efficacia da dietro l’arco dei tre punti rappresenti il lasciapassare verso il futuro di legittimazione in NBA per Saric non ci sono dubbi, e quel 33.5% può essere considerato giusto come base di partenza visto che solo leggermente inferiore alla media della NBA, ma in un contesto offensivo di livello scarso quando Embiid non è in campo. Un dato interessante per il possibile sviluppo del giocatore è rappresentato dalla percentuale di triple assistite: il 96% di quelle messe a segno è frutto di scarico da parte dei compagni, fungendo effettivamente da floor spacer.

Situazione di pick and roll standard: l’uomo di Saric è costretto a collassare in area per onorare il taglio del bloccante, lui lo punisce sullo scarico.

Stavolta in transizione, si fa trovare sul lato debole con tempi perfetti

Considerate le peculiarità di Saric e la presenza di compagni come Embiid e (prima o poi) Ben Simmons, l’affidabilità sugli scarichi sarà con ogni probabilità la qualità che ne determinerà il successo o meno da quella parte dell’oceano — non solamente per le percentuali al tiro, ma anche per la capacità di mettere la palla per terra contro una difesa già mossa (perché un pick and roll tra Simmons ed Embiid inevitabilmente creerà scompiglio) o, nel caso, dare palla dentro in post con un entry pass dai tempi giusti per sfruttare l’eventuale cambio difensivo. I momenti in cui le potenzialità offensive sono emerse prepotenti anche con la palla in mano — ovverosia ciò che faceva salivare la maggior parte degli scout ai tempi dei suoi esordi — non sono mancati, mostrando lampi da passatore di livello eccellente.

L’intero arsenale in mostra.

Oltre alle statistiche, per focalizzare correttamente la prima parte della stagione d’esordio di Saric occorre tener conto di alcune condizioni oggettive non imputabili al giocatore ma che ne hanno influenzato i giudizi sin dai primi passi in NBA. La lunga camminata dei Sixers attraverso il deserto del tanking ha generato diversi effetti collaterali, tra questi la quasi inevitabile inflazione dell’hype legata ai nuovi arrivi. A Phila, infatuarsi dei futuri beniamini e coltivare la speranza che il destino della squadra fosse nelle mani di giocatori dal potenziale esplosivo ha rappresentato l’unico appiglio per non affogare nella disperazione più cupa (47 vittorie in 3 anni: mai dimenticare). Amplificate dall’aurea esotica che ancora circonda i prospetti FIBA e l’attesa durata per due anni, le aspettative riposte in Saric hanno finito per trascenderne l’effettivo valore. Non bastasse, lo standard fissato dalla strabiliante prima parte di stagione di Joel Embiid ha reso quasi impossibile guadagnarsi un po’ di luce ai margini della lunga ombra gettata dal camerunense. Il rapporto tra i due, peraltro, matura piuttosto bene, dentro e fuori dal campo, e il centro dei Sixers ha sempre un occhio di riguardo per il compagno croato già soprannominato “The Homie”.

Allo stesso tempo, l’assenza di Ben Simmons, portentoso talento multi-tasking attorno a cui coach Brown intendeva modellare l’identità dei nuovi Sixers, ha fatto sì che ai margini della polarizzante presenza di Embiid si formasse un contesto tattico approssimativo e povero di punti di riferimento stabili. L’idea iniziale di un terzetto Simmons-Saric-Embiid, in cui l’abilità nel giocare con e senza palla e il range di tiro del lungo croato sarebbero risultati pressoché perfetti, non è mai stata realizzabile in concreto. Saric si è quindi spesso ritrovato a brancolare in quella terra di mezzo a metà tra il 3 e il 4, forse il ruolo più complesso nella moderna NBA. Le difficoltà difensive evidenziate sono state messe a dura prova dal dover affrontare notte dopo notte i vari Leonard, Durant e James, ma anche i Millsap, Aldridge e Griffin. Troppo lento di piedi per marcare gli esterni e troppo leggero per reggere l’impatto dei giocatori più fisici, l’ex Efes ha dovuto adattare il suo gioco alzando di parecchio l’asticella rispetto all’esperienza europea.

Anche in questo caso, le evidenti limitazioni a livello di taglia fisica, apertura di braccia e reattività andranno rivalutate una volta affiancate a quelle di Simmons, sulla carta eccellente in ognuna delle tre specialità e quindi potenzialmente in grado di coprire, almeno in parte, le deficienze del compagno. Capire come e se i tre potranno funzionare insieme in difesa è uno degli snodi fondamentali per questa ultima parte di stagione dei Sixers, anche per poter affrontare il Draft e la free agency con le idee un po’ più chiare.

Nel frattempo, non un brutto modo per suggellare il massimo in carriera da 26 punti.

La buona abitudine allo spacing offensivo, vanificata dalla relativa organizzazione di squadra nella metà campo avversaria, ha paradossalmente fatto più male che bene a Saric, costringendolo spesso a prendersi tiri in situazioni precarie. Da questo punto di vista, il rapporto con Ilyasova, apparso proficuo sin dall’approdo del turco in Pennsylvania, potrebbe rivelarsi una preziosa risorsa per Brown e lo staff tecnico. Alla base della scelta di mercato operata da Bryan Colangelo a regular season appena iniziata c’è senza dubbio la necessità di procurare a Saric una sorta di mentore, e l’ex Thunder rappresenta un modello a cui il giovane croato può senz’altro ispirarsi. I due, infatti, condividono buona parte delle rispettive prerogative tecniche e la parabola di Ilyasova, scelto al secondo giro del Draft 2005 e abile nel costruirsi una solida carriera NBA, potrebbe rappresentare una traccia per la carriera in divenire di Saric, sperando che possa rivelarsi anche qualcosa in più (specialmente nella creazione di gioco con la palla in mano e in difesa).

L’oroscopo del ragazzo di Sebenico tratteggia per lui un futuro fuori dalla stratosfera della lega: molto più probabile che, limando i difetti e cercando di migliorare gli aspetti del gioco in cui potrebbe eccellere, Saric possa infine trovare la propria nicchia in NBA per una solidissima carriera. L’etica professionale (le sessioni di tiro per lavorare su meccanica e tempistica di rilascio sono ormai un abitudine) e un’IQ cestistico non comune rappresentano due capisaldi da cui partire per scrivere un romanzo in cui Saric non avrà forse un ruolo da protagonista assoluto, ma di cui potrebbe certamente scrivere pagine importanti come supporto a compagni più in vista. Stando attento ai colpi di scena, anche a quelli più inaspettati.

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