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La prima volta non si scorda mai
20 giu 2016
20 giu 2016
Contro tutto e tutti, i Cleveland Cavaliers sono campioni NBA.
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Come consacrarsi all’immortalità

Di Dario Vismara

Spesso, quando uno sportivo compie un’impresa storica sotto gli occhi del mondo, compare sul suo viso un’espressione incredula — come se non si rendesse conto di quello che ha appena fatto, come se il suo cervello non riuscisse a processare quello che è realmente accaduto. Al contrario, non appena LeBron James si è reso conto di aver vinto il suo terzo anello NBA e di aver portato un titolo a Cleveland dopo 52 anni di attesa, è scoppiato in lacrime tra le braccia dei suoi compagni e poi è crollato sulle ginocchia, abbandonandosi a un pianto liberatorio sul parquet della Oracle Arena di Oakland, rendendosi immediatamente conto della portata di ciò che era appena accaduto.

Neanche uno sceneggiatore avrebbe potuto immaginarsela così

Per capire le emozioni che lo hanno sopraffatto non basta riavvolgere il nastro fino a una settimana fa, quando dopo Gara-4 i Cavs sembravano ormai destinati a perdere questa serie e questo titolo. Non basta nemmeno citare le prestazioni consecutive — 41 punti in Gara-5, altri 41 in Gara-6 e tripla doppia da 27-11-11 ieri notte — con cui ha ribaltato un 1-3 che sembrava insormontabile contro una delle migliori squadre di sempre. Bisogna andare più indietro, scavare più a fondo nella sua storia, tornare al giorno in cui ha promesso di “illuminare Cleveland come Las Vegas”, quando è stato scelto dai Cavs con la prima scelta assoluta più scontata di sempre nel Draft del 2003, e poi alla pluri-citata lettera del 2014 con cui ha annunciato il suo ritorno da figliol prodigo. O magari quando era solo un ragazzino magrolino figlio di una madre 16enne che non aveva mai conosciuto suo padre, costretto a girovagare di divano in divano per avere un tetto sopra alla testa.

In un certo senso, l’intera carriera di LeBron James è stata pensata per arrivare a questo momento, quello in cui ha finalmente portato un titolo alla “sua” Cleveland. Già solo il semplice fatto che ci sia riuscito, rendendo vincente una franchigia che è stata più o meno sempre irrilevante senza di lui e una città che nel corso della sua storia ha vissuto molte più delusioni che momenti di gioia, ha dell’incredibile. Se poi consideriamo il modo in cui ci è riuscito — vincendo in trasferta una gara-7 di Finale come non capitava dal 1978, contro i campioni in carica che avevano vinto SETTANTATRE partite in regular season con il primo MVP unanime di sempre, dominando tutte le categorie statistiche principali della serie finale come mai nessuno prima di lui — capiamo che siamo di fronte a una delle più grandi imprese individuali della storia dello sport. Un traguardo che gli permette di lasciare la storia e di consacrarsi definitivamente all’immortalità.

Dopo The Shot, The Drive, The Fumble e la stessa The Decision, ora finalmente Cleveland ha THE BLOCK.

Sembra quasi un segno del destino che le tre giocate decisive della sua Gara-7, al di là della “solita” tripla doppia, siano tre delle signature moves della sua carriera: prima la stoppata in recupero su Iguodala, la miglior versione possibile delle Chasedown Blocks che lo avevano reso celebre come difensore nei suoi primi anni a Cleveland; la schiacciata portando indietro il pallone che avrebbe chiuso definitivamente la serie con il punto esclamativo più grosso di sempre, se Draymond Green non lo avesse fermato con un fallo; e il tiro libero per andare a +4 dopo aver sbagliato quello precedente, esorcizzando anche quello che da sempre è l’unico aspetto in cui è un giocatore nella media (“solo” il 74% dalla lunetta in carriera).

Personalmente non avevo bisogno di questa vittoria per considerare LeBron tra i più grandi della storia del basket (primo, secondo, terzo, decimo, quindicesimo, non mi interessa: fa parte della schiera dei più grandi, e questo era indiscutibile già prima di ieri notte), ma è ovvio che aggiungere un terzo titolo NBA e un terzo titolo di MVP delle Finals aiuta in un certo tipo di ragionamenti semplicistici (“RINGZ”) e la sua “legacy” in generale, qualsiasi cosa essa voglia dire. Ciò che tutti dovremmo essere in grado di riconoscere è che ci troviamo davanti a qualcosa di irripetibile, e che la campagna pubblicitaria montata su di lui anni fa — We Are All Witnesses — aveva tremendamente colto nel segno. Dobbiamo ritenerci fortunati di essere testimoni dell’era di LeBron James, perché chissà quando ci ricapiterà di poter assistere a quello che abbiamo assistito in queste ultime due settimane — o, a pensarci bene, a quello che ha fatto nei 13 anni della sua incredibile carriera.

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Riempire gli spazi alla corte del Re

Di Daniele V. Morrone

LeBron James ha dominato la serie imponendosi con una delle migliori prestazioni di sempre, e su questo siamo tutti d’accordo. Nella decisiva Gara-7, però, anche Kyrie Irving e Kevin Love, gli altri due componenti del Big Three 2.0 voluto da James, hanno dato il loro contributo per la vittoria. A modo loro.

Prima di Gara-7, Love era diventato il capro espiatorio della tensione dei neutrali, e certamente anche i tifosi di Cleveland non avrebbero mai fatto affidamento su di lui. Quasi con cattiveria, l’immaginario comune di Kevin Love era quello della terza stella che non riesce a fare meglio di un role player a caso. Love deve aver letto attentamente la sua timeline, perché ha abbracciato a piene mani le critiche, le ha fatte sue ed ha risposto in maniera impeccabile. Non si è intestardito nel voler stare al gioco di chi guarda solo i punti a fine partita, e ha invece preso in mano la situazione in modo intelligente: a Cleveland non serviva un Love da 20 punti fermo fuori la linea dei tre punti, serviva un giocatore che andasse a lavorare sotto canestro sfruttando una delle sue armi migliori, i rimbalzi offensivi, specialmente quando non c’era Tristan Thompson a occuparsene. In una squadra in cui era il terzo violino designato si è comportato da tale ma nel modo migliore possibile, andando a lavorare per riempire il gioco di James e di Irving, senza richiedere troppi palloni in post basso. Serviva la miglior versione possibile del Love glue-guy. Proprio quella che è arrivata. Lui ha sì toccato 49 palloni tirando quando doveva tirare, ma la prestazione non è nei 9 punti, è nei 9 tiri contestati. Il più importante di tutti sicuramente quello contro Steph Curry nel finale.

Il momento in cui Kevin Love giustifica le sue NBA Finals

La sua gara non è nelle 3 triple tentate, ma nei 3 assist e soprattutto nei 4 rimbalzi offensivi strappati sotto canestro a inizio partita, che hanno fatto capire che il fattore campo non lo avrebbe spaventato. Ha preso il 17% dei rimbalzi offensivi disponibili quando in campo, più di tutti, e soprattutto andando a coprire un Thompson meno incisivo del solito. È rimasto aggressivo tutta la partita, sfidando il luogo comune che lo vede spettatore passivo delle partite, catturando il 26% dei rimbalzi difensivi disponibili - il dato migliore della sua squadra. Anche il plus/minus, per quanto statistica poco utile, segna un +19 in 30 minuti, il migliore della partita con ampio margine. Nonostante le prese in giro ed i dubbi pre Gara-7, questo titolo è assolutamente anche suo.

E se Love ha giocato la gara più importante della sua vita accettando finalmente il suo ruolo di terza stella della squadra, Gara-7 non è stato invece nulla di diverso per Kyrie Irving rispetto alle precedenti di questa rimonta storica. Il numero 2, che ha dovuto guardare da fuori la sua squadra perdere lo scorso anno le Finali, ha concluso una serie che lo pone definitivamente tra i migliori interpreti del ruolo. Una crescita costante nelle sette gare fino al culmine di una prestazione decisiva sul palcoscenico più importante che un giocatore possa desiderare, una partita sola per decidere il titolo NBA.

Irving non ha apportato alcuna modifica al suo gioco o al suo approccio alla gara: ha attaccato in modo aggressivo il canestro, spingendo e chiudendo ogni contropiede a disposizione, soprattutto azzannando la partita nel terzo quarto. Un frangente di partita dominato da Irving con 12 punti usciti dal suo repertorio che palla in mano si estende dall’utilizzare il tabellone in entrata al segnare una tripla dopo il crossover. Irving è stato l’ancora di sicurezza di Cleveland per poter trovare canestri contro chiunque anche nei giochi iniziati dopo tanti, troppi secondi di preparazione. Ha arginato praticamente da solo l’ondata classica degli Warriors nel terzo quarto rispondendo colpo su colpo e facendo pagare a Golden State ogni singolo cambio su di lui.

Dovendo affrontare una difesa che fa della capacità di poter cambiare su chiunque la propria forza, Irving è diventato l’antidoto per un motivo molto semplice: può attaccare e segnare sia il primo marcatore (che sia Thompson o Curry), che di fronte all’aiuto di Green. Quando Ezeli gli è capitato tra le grinfie, è sembrato fin troppo facile il risultato, ma anche un ottimo difensore come Thompson non è riuscito a stargli dietro quando ha deciso di rimanere sull’uomo: pur contestandogli quasi ogni tiro, non ha comunque potuto fare nulla per evitare il risultato finale. Un grande attaccante che batte un ottimo difensore, o in questo caso un ottimo sistema difensivo.

Irving esce da questa serie come il Primo Cavaliere perfetto per il Re James. In una gara dove la tensione della posta in palio ha esacerbato le caratteristiche di un attacco che entra nei giochi tardi Irving ha dimostrato di poter dare il meglio proprio in un contesto del genere, quando la palla scotta e lui è la prima opzione offensiva della squadra. Gli isolamenti a cui la difesa degli Warriors voleva costringere l’attacco dei Cavs sono stati proprio i giochi in cui Irving ha dato il meglio. Palla in mano guardando il canestro e pensando a uno dei tantissimi modi con cui può segnare a seconda del difensore che gli sta davanti.

Il linguaggio del corpo è quello di chi conosce bene il suo posto all’interno della squadra, ma non si sente comunque secondo a nessuno tra i pari ruolo. Sono ancora più sicuro di questa cosa dopo aver visto come Irving ha aspettato il momento propizio per fare dare l’ultima pugnalata a Curry proprio nel modo con cui fa più male: tripla in faccia per il +3 a meno di un minuto dalla fine, l’ultimo canestro segnato di questa stagione. Una delle istantanee che più rimarranno impresse di queste Finali NBA.

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Il mio nome è Richard Jefferson

Di Dario Costa

“Il mio nome è Richard Jefferson e nel mio anno da sophomore sarò un all-state. Quando sarò diventato un senior, verrò nominato all-american”.

Nel momento in cui la signora Meekness LoCato scopre cosa è inciso su quel nastro che il figlio 14enne ascolta in cuffia senza sosta, resta sorpresa ma non troppo. Reduce lei stessa da un’adolescenza travagliata, ha basato il proprio riscatto personale attorno al proverbio biblico 18:21: “morte e vita sono in potere della lingua”, costruendosi con fatica e perseveranza un ruolo di rilievo tra la comunità dei Cristiani Rinati di Phoenix. Il fatto che il figlio abbia registrato quel mantra motivazionale in cui ripete per cinque minuti cosa ha intenzione di diventare, le appare come la logica conseguenza dell’educazione impartita ai figli al motto di “parla e credi”.

La testarda convinzione nei propri mezzi, coadiuvata da una più che discreta dotazione atletica elargita da parte di madre natura, consente al giovane Richard di perseguire con successo i suoi obbiettivi. Dopo aver trascinato Arizona fino alla finale per il titolo, viene scelto da Houston al numero 13 del Draft 2001 e immediatamente girato ai New Jersey Nets. Il nastro di cui sopra non conteneva indicazioni su cosa sarebbe successo alla carriere di RJ dopo il college, ma i risultati sono più che in linea con le ambizioni iniziali. Jefferson diventa da subito un elemento chiave dei New Jersey Nets che raggiungono le Finali NBA per due anni consecutivi, dove si arrendono a Lakers e Spurs.

Le sconfitte patite per mano delle due franchigie dominanti del decennio non affievoliscono la voglia di emergere del numero 24: Jefferson migliora le proprie statistiche a ogni stagione successiva, diventando un punto fermo dei Nets guidati da Jason Kidd. L’approdo alle Finals però si rivela una chimera: i Nets si trovano a dover cedere il passo a Detroit, Miami e Boston, dominatori dell’est negli anni successivi. Quando la dirigenza della franchigia decide di smontare la squadra e ripartire da capo, RJ viene spedito senza troppe cerimonie a Milwaukee, dove resta una sola stagione per poi finire tra le braccia di coach Popovich. Sembra un matrimonio concepito in paradiso, quello tra Jefferson e gli Spurs: lo stile di gioco essenziale, fisico e senza fronzoli dell’ex-Arizona si combina a meraviglia con la celeberrima Spurs-culture e San Antonio sembra proprio il posto giusto in cui cercare il proprio riscatto personale e guadagnarsi quell’anello sfuggito quando era un’esordiente. Purtroppo per lui e per la franchigia, quella versione degli Spurs non riesce a superare gli ostacoli verso le Finals rappresentati dai Lakers di Kobe&Gasol e dagli emergenti Thunder di Westbrook&Durant, con un adattamento che sfiora il tragico in alcuni momenti.

Sancita la fine della sua avventura in nero-argento, per RJ comincia un pellegrinaggio che lo porta a vestire la maglia di tre squadre diverse in tre anni. A Golden State, Utah e Dallas i risultati, personali e di squadra, sono modesti. Nel frattempo Jefferson è diventato a tutti gli effetti un veterano, un giocatore d’esperienza a cui concedere un posto di rilievo nello spogliatoio e qualche minuto di qualità in campo. Quando, nell’agosto 2015, firma un contratto annuale al minimo salariale previsto dal contratto collettivo, è proprio questo che David Griffin e LeBron si aspettano da lui. La regular season dei Cavs, costruiti per inseguire la rivincita dopo la sconfitta nelle Finals dell’anno precedente, trascorre tutt’altro che tranquilla intorno alle questioni riguardanti la guida tecnica (David Blatt viene licenziato il 22 gennaio) e la supposta infruttuosa convivenza tra James, Irving e Love. RJ interpreta il ruolo assegnatogli con il consueto zelo, gioca 18 minuti di media offrendo un solido connubio di fisicità e conoscenza del gioco. I playoffs della Eastern Conference risultano poco più che una mera formalità e Jefferson trascorre quelle lunghe settimane cercando di tenere alto il morale dei compagni, in campo e fuori. Per qualche strano motivo, RJ diventa un guru di Snapchat: lo status di venerabile maestro concede a RJ la libertà di scherzare con tutti i compagni di squadra, Re compreso, ma soprattutto riesce a coinvolgere Kevin Love nella goliardia di squadra, inventandosi il running joke di Lil Kev, nato da una foto trovata su una rivista a caso.

Quando arrivano le Finals, però, il tempo per la goliardia finisce. Dopo le prime due partite alla Oracle Arena, i Cavs sono sotto due a zero e la serie sembra ampiamente indirizzata verso il repeat di Golden State. Love, per altro poco produttivo nei primi due episodi della contesa, viene tenuto precauzionalmente a riposo dopo la commozione cerebrale rimediata a seguito della fortuita gomitata di Harrison Barnes in gara-2. Tyronn Lue non sembra avere dubbi: RJ, il cui nome è figurato nello starting five per sole 5 volte in tutta la stagione, viene messo subito in campo, permettendogli così di stabilire il record per il periodo più lungo intercorso tra due partenze in quintetto nelle Finals (2003-2016). L’esperienza e la lucidità di RJ favoriscono aggiustamenti tattici difensivi che fanno la differenza e aiutano i Cavs a schiantare l’avversario e riaprire la serie. Il plus/minus fatto registrare nelle tre vittorie che permettono a Cleveland di impattare è sempre positivo (11, 7 e 15), ma sono soprattutto le piccole cose che non finiscono nelle statistiche, le cosiddette intangibles, a rappresentare il vero apporto di Jefferson alla squadra. La sua presenza in campo consente ai Cavs di cambiare con più efficacia sui letali pick and roll di Golden State e gli effetti risultano evidenti dal drastico calo delle percentuali in attacco per Curry e compagni.

Poi arriva Gara-7, in trasferta sul campo della squadra che ha riscritto il record di vittorie nella storia della lega. RJ si ritrova a fare a spallate contro avversari che dovrebbero sovrastarlo per atletismo e fame di vittoria. Fatica in attacco, ma nei 25 minuti spesi al servizio del celestiale duo LeBron-Kyrie difende come insegna il manuale del gioco limitando Barnes e Iguodala, strappa 9 preziosissimi rimbalzi e mette il suo mattoncino nella costruzione di una delle più incredibili imprese sportive ogni epoca.

Ora, dopo 15 stagioni di onorata carriera nella lega, ha annunciato che intende scrivere la parola fine abbracciando il Larry O’Brien Trophy. Forse però, una volta smaltito l’alcool, ci sarà ancora tempo per riavvolgere il famoso nastro e scoprire se resta spazio per un altro capitolo. Una story di Snapchat alla volta, magari.

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La fine dei vent’anni

Di Lorenzo Bottini

JR Smith per più di un decennio è rimasto intrappolato nella foto dell’annuario della sua High School, St. Benedict's Prep, come fosse una personalissima rivisitazione di Dorian Gray. Accanto al suddetto ritratto appare la citazione che riassume tutto il suo materialismo storico: “Get chicks or die trying”. Saltata l’università con uno di quei balzi che lo portavano a vincere le gare delle schiacciate, l’NBA è diventata un modo per proseguire l’adolescenza con altri mezzi e molti più zeri sul conto corrente. Coerente con il suo motto di vita, ha interpretato il ruolo del professionista con una leggerezza da cartone animato, costruendosi un personaggio da duro, da New Jersey Gangsta con lo sforzo di chi scrive “Imprenditore presso sé stesso” o “Università della vita” sulle info di Facebook. Una tipologia di giocatore che in NBA passa di frequente, ma che solitamente evapora nel giro di un contratto garantito.

Ma JR non è uno come gli altri e dopo un lunghissimo girovagare che lo ha portato a giocare anche ai piedi della Grande Muraglia, lui, eterno Peter Pan, è infine atterrato nella sua Neverland. Più che una trade, la sua fuga dalle mille luci di New York ha assunto i contorni del rehab. Lontano dalle distrazioni della Grande Mela, JR ha imparato ad apprezzare le piccole cose della vita, come ad esempio non arrivare all’allenamento in pieno after dopo una notte di sbocciate selvagge, o a non fare la guerra su Instagram con Rihanna.

JR Smith dopo l’iscrizione agli Alcolisti Anonimi si è riscoperto il giocatore perfetto per il sistema che LeBron imprime sulle sue squadre, il tiratore-difensore affidabile sui due lati del campo capace di sfruttare i buchi che le difese avversarie sono costrette a concedere per provare a fermare il Re. Nel primo suo anno completo a Cleveland ha abbattuto il record di franchigia per triple messe a segno durante la stagione regolare, ben 204 con il 40%, affermandosi uno dei migliori tiratori con i piedi dietro l’arco dell’intera Lega. Tutto ciò ovviamente non rinunciando alla locura delle triple stepback sul fil di sirena.

Se non fosse mai arrivato alla corte del Re, molto probabilmente JR sarebbe la star dei Full Moon Party thailandesi. Invece ora è un Campione NBA, e solo scriverlo mi fa scendere una lacrimuccia sulla tastiera del pc. Vederlo sollevare il Larry O’Brien è un premio per tutti noi tardo-adolescenti che facciamo nottata per essere testimoni di una storia più grande di noi, convinti che alcuni treni passeranno per sempre e che a noi non resta che scegliere il più comodo e saltarci sopra. Il Milione di JR è il romanzo di formazione più Millennial che l’America potesse scrivere - il racconto di un talento infantile, pigro e indolente che arrivato ai trent’anni si ritrova con un anello al dito. Come nei film di Wes Anderson, i cattivi non sono cattivi davvero e JR è l’antieroe per eccellenza, il finto duro che fa sciogliere il cuore quando decide di mettere uno di quei tiri contestati che schiaffeggiando la retina disegnano un arcobaleno. Una parabola di tiro che racconta la sua carriera, diventata improvvisamente vincente proprio quando tutti gli nascondevano il canestro. Quando ha segnato una tripla pazza ad inizio secondo tempo riportando i Cavs a contatto, JR ha finalmente accettato di essere sé stesso e non il suo ritratto su un logoro annuario scolastico.

Ed è meraviglioso che la sua immagine che ci porteremo dentro di queste Finals, quella che segna la sua consacrazione e l’entrata nell’età adulta, sia in lacrime abbracciato al padre mentre dalle casse si accennano le prime sommesse note di We Are The Champions.

O forse no.

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