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Riccardo Rimondi
La prima maratoneta della storia
19 apr 2017
19 apr 2017
50 anni dopo, il ricordo della rivoluzione di Kathrine Switzer alla maratona di Boston.
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Riccardo Rimondi
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Il 13 aprile 2003 la maratoneta britannica Paula Radcliffe concluse la maratona di Londra in due ore, 15 minuti e 25 secondi, demolendo di quasi due minuti il suo stesso primato mondiale. Quel tempo destò impressione in tutto il mondo: era appena nove secondi peggiore di quello impiegato dall’etiope Abebe Bikila, forse il più grande maratoneta di tutti i tempi, per arrivare in fondo alla finale olimpica di Roma 1960. Ed era distante meno di dieci minuti dal 2:05’38’’ con cui un anno prima, sullo stesso tracciato, l’americano Khalid Khannouci aveva conquistato l’allora record del mondo maschile.

 

Molte cose sono cambiate nel corso degli ultimi 14 anni. Il primato mondiale maschile è migliorato di quasi tre minuti: attualmente lo detiene il kenyano Dennis Kipruto Kimetto con 2:02’57’’. Il record di Radcliffe, invece, è rimasto imbattuto, anche perché nel frattempo una nuova regola della Iaaf proibisce di registrare i primati di donne che corrano insieme agli uomini. Una maniera per impedire che possano trarre vantaggio per l’intera durata della gara da lepri maschili. Eppure, nonostante la forbice si sia ampliata, la maratona è, insieme ai 20 chilometri di marcia, tra le gare nel panorama dell’atletica che maggiormente avvicinano le prestazioni femminili a quelle maschili. Attualmente, il tempo di Radcliffe è solo del 10,1% superiore al primato mondiale maschile. All’epoca, il differenziale era del 7,8%. Spesso, nelle competizioni di grande livello, la prima classificata donna chiude con tempi che le permetterebbero di piazzarsi bene anche nella gara maschile: l’etiope Mare Dibaba si è laureata campionessa mondiale a Pechino 2015 con un crono che, fatto contro gli uomini, l’avrebbe piazzata trentaduesima (va detto però che la gara maschile fu molto tattica e corsa a ritmi blandi per un buon numero di chilometri).

 

https://www.youtube.com/watch?v=DLLSKmpMKe4

Londra, 13 aprile 2003: l’arrivo di Paula Radcliffe alla maratona di Londra.




 



 

Alla luce di tutto ciò, è difficile ricordare che la maratona è stata una delle ultime discipline a cedere davanti al diritto delle donne a praticare un’attività sportiva. Fino a cinquant’anni fa, non si pensava che il fisico femminile fosse in grado di sopportare una corsa lunga 42,195 chilometri. Si temevano svariate conseguenze, dalla crescita di peli "maschili" all’eventuale caduta dell’utero. Non c’è poi da stupirsi più di tanto: anche gli 800 metri sono rimasti a lungo una disciplina riservata agli uomini. E non a caso, ancora oggi,

.

 

Non fu l’atletica ad aprire la maratona alle donne: furono le donne a prendersela. In particolare, fu una ragazza di vent’anni che decise di iscriversi alla maratona di Boston. Una corsa leggendaria, visto che si tratta della più antica maratona annuale di tutti i tempi. Era il 1967, in Svizzera le donne non potevano ancora votare. E in Italia un calciatore del Torino, l’ala Gigi Meroni, veniva additato come “peccatore pubblico” perché conviveva con una donna sposata.

 

Possono bastare queste poche indicazioni per dare un’idea del contesto in cui si trovava Kathrine Switzer, ventenne studentessa di giornalismo della Syracuse University, quando si presentò alla partenza della maratona di Boston il 19 aprile 1967. Era una buona atleta, non eccezionale ma abbastanza abile da essere notata e invitata ad aggregarsi alla squadra maschile universitaria di campestre. Ed era abbastanza incosciente da essere sicura che, se si fosse presentata alla partenza della maratona, ne avrebbe anche visto l’arrivo. Oggi sembra scontato, all’epoca non era così. Era chiusa alle donne. D’altra parte, alle Olimpiadi quella gara era unicamente maschile, fin dai giochi di Atene del 1896.

 

Ma già in quell’occasione, la maratona si era annunciata come il terreno di scontro su cui il movimento femminile avrebbe combattuto alcune delle battaglie più importanti per ribaltare le regole volute da Pierre de Coubertin, che in omaggio alle convenzioni vittoriane preferiva le donne fuori dagli stadi. Una greca trentenne, Stamáta Revìthi, provò a partecipare. Le fu impedito e lei decise di correre da sola, il giorno seguente, per dimostrare di essere in grado di coprire l’intera distanza: ce la fece, in cinque ore e mezza, ma l’esercito greco le impedì di concludere la corsa nello stadio. Alcune fonti parlano anche di una certa Melpomene, che nell’antica Grecia era la musa della tragedia, che invece gareggiò sotto mentite spoglie il giorno stesso della maratona maschile. Versioni che si perdono e si mischiano: c’è chi dice che le due donne fossero la stessa persona e chi afferma che Revithi già un mese prima delle Olimpiadi aveva dimostrato di poter coprire la distanza. Certamente, settant’anni prima di Kathrine Switzer qualcuna aveva già cercato di dimostrare che la maratona non era solo una cosa da uomini.

 

 



 

Probabilmente, la ventenne americana non ne sa nulla quando si presenta, nel dicembre 1966, dal suo allenatore Arnie Briggs proponendogli di correre la maratona. Ha appena concluso un allenamento da sei miglia (quasi dieci chilometri), sotto una nevicata. A ricordarlo è lei nel

, che è la fonte principale di questo articolo. È dall’impulso di Kathrine Switzer, presa in mezzo al freddo e alla neve, che inizia a germogliare il seme di una delle più grandi imprese sportive del ventesimo secolo. Nella sua corsa, lunga cinque mesi, intervengono molte altre figure. Quasi tutte maschili, a sottolineare che cosa fossero lo sport e anche la società in America, e non solo, negli anni Sessanta.

 

Il primo è proprio l’allenatore, Arnie Briggs. Un personaggio particolare: è l’unico che ha accettato di allenarla, aggregandola alla squadra maschile. Sa quanto vale, ma nemmeno lui, veterano della maratona di Boston (ne ha corse una quindicina), pensa che Kathrine possa farcela: «Nessuna donna può correre la maratona di Boston», le dice. In realtà una donna c’è già stata, pochi mesi prima: si chiama Roberta Gibb e ha gareggiato in incognito, infiltrandosi nel gruppo senza pettorale. È stata riconosciuta, ma nella classifica ufficiale non risulta. Come se non fosse mai esistita, insomma. Briggs non è convinto che la sua atleta possa ripetere l’impresa, ma si accordano: faranno un test, tre settimane prima della gara, per vedere se la giovane è in grado di correre per 42 chilometri consecutivi. Ne fa 50.

 

Il suo allenatore acconsente a farla gareggiare. E secondo il racconto della protagonista, a quel punto è lui a insistere perché si iscriva regolarmente: «Controllammo il regolamento e il modulo di iscrizione: non c’era nulla sul sesso». Lei si segna come K.V. Switzer e nessuno, a Boston, si accorge di iscrivere una donna. Decide di partecipare anche Briggs, che la accompagnerà per tutto il percorso.

 

Con lui, scende in campo un secondo personaggio fondamentale nello sviluppo degli eventi. Si tratta del fidanzato di Switer, Tom Miller. Un ex giocatore di football e ottimo martellista, con prospettive olimpiche. Non si è mai allenato per la maratona e non ha intenzione di iniziare a farlo. D’altra parte, è la sua logica d’acciaio, «se una ragazza può correre una maratona, io posso correre una maratona». Un ragionamento che mescola in maniera perfetta insipienza sportiva (oggi, nessuno si sognerebbe di partecipare a una maratona senza essersi allenato, men che mai un lanciatore) e maschilismo. Eppure, se Kathrine Switzer è diventata un’icona di emancipazione è anche grazie alla spregiudicatezza e alla mancanza di rispetto di Tom Miller, forse la figura più rocambolesca in strada quel 19 aprile. Al trio si aggiunge un atleta dell’università, John Leonard.

 

La sera prima della gara, dalla stanza del suo motel, Switzer chiama a casa per dire che è a Boston, in attesa di correre la sua prima maratona. E, già che c’è, per spiegare ai genitori che cos’è una maratona. Qui si inserisce una terza figura maschile di peso nella vita della ragazza: il padre. Che, a differenza, dell’allenatore e del compagno, approva fin da subito la sua scelta: «Sei forte, ti sei allenata, ce la farai alla grande». Non c’è da stupirsi. Fin da quando era piccola è stato suo padre, colonnello in pensione, a spronarla perché praticasse tutte le attività sportive che voleva. È stato lui a dissuaderla dal fare la cheerleader: «Ma le cheerleader fanno il tifo per altre persone»,

. «Tu vuoi che le persone facciano il tifo per te. La partita è sul campo. La vita è fatta per partecipare, non per fare gli spettatori».

 

E così, il 19 aprile del 1967, Kathrine Switzer si trova sulla linea di partenza. Tira vento e c’è nevischio. Non è un problema, visto che anche dove si allena il tempo è raramente clemente. Ma qualche controindicazione c’è: «Volevo sembrare carina e femminile alla partenza, nei miei top e nei pantaloncini appena stirati». Non rinuncia a truccarsi e a mettersi gli orecchini, ma l’abbigliamento dev’essere più pesante: alla partenza, indossa una felpa e dei pantaloni lunghi. E con sé porta non il peso di stare per compiere un gesto storico, ma le inquietudini e le paure di tutti i corridori: «Avrei avuto il coraggio di continuare a correre se mi avesse veramente provocato dolore, se fosse diventato più faticoso di quanto ero abituata, se la Heartbreak Hill mi avesse spezzata?». La Collina Spaccacuore è una salita da 600 metri, l’ultima di una serie, che si trova tra il trentaduesimo e il trentatreesimo chilometro, cioè nel momento psicologicamente più difficile per un maratoneta. Risulterà l’ultimo dei problemi di Switzer.



 



 

Sulla linea di partenza, la giovane indossa il pettorale numero 261. Tra gli altri 740 corridori, inizia a spargersi la voce che c’è una ragazza iscritta. Fioccano i complimenti, alcuni le chiedono consigli per convincere la moglie a correre, altri insistono per una foto insieme.

 

I primi chilometri scorrono facilmente, mentre il serpentone si snoda per le strade di Boston. Dopo quattro miglia (circa sei chilometri e mezzo), passa la macchina dei fotografi. I giornalisti si accorgono che c’è una donna con il pettorale addosso. Capiscono che è la prima regolarmente iscritta nella storia e fioccano i flash. Nel giro di pochi attimi, però, arriva anche la svolta. Un uomo, il quarto uomo importante di questa storia – forse il più importante di tutti - prova a prendere Kathrine Switzer per un braccio. Lei scivola via, lasciandogli in mano solo il suo guanto sinistro. Lui la insegue, la prende per le spalle e la spintona: «Vattene dalla mia gara, dammi il pettorale», le urla. Lei riesce a schivarlo, prova a rimettersi a correre, ma lui la prende per la felpa e prova a strapparle il pettorale sulla schiena. L’allenatore Arnie Briggs, un veterano della maratona di Boston, prova a spingerlo via. Ma non ci riesce: l’aggressore, che si chiama Jock Semple ed è un giudice di gara, lo spazza via con una manata. Kathrine è sconvolta: «Non ero mai stata malmenata, nemmeno sculacciata da bambina, e la forza fisica e la rapidità dell’attacco mi sbalordirono».

 

Se la sua gara non finisce dopo pochi chilometri è grazie alla totale incoscienza del suo fidanzato. Che, sfruttando la sua mole, placca il giudice e lo fa volare via. L’uomo cade a diversi metri di distanza. L’intervento di Tom non aiuta Kathrine a calmarsi: «Abbiamo ucciso questo Jock. È colpa mia, anche se è stata quella testa calda di Tom. Mio dio, andremo tutti in prigione». Può sembrare ridicolo, visto da fuori. Ma la corsa spinge spesso le persone a pensieri assolutamente irrazionali e drammatici. Non c’è tempo per fermarsi a valutare le condizioni dell’aggressore. È in quel momento che Briggs, passato il momento di panico, le urla una frase passata alla storia: «Run like hell». Il gruppetto riprende a macinare chilometri, inseguito dai giornalisti, che cominciano a pressarla con le domande. La paura di Switzer diventa rabbia ed è lì che decide che quella maratona non è importante solo per lei, ma è qualcosa di più. Anche perché, nel frattempo, è ricomparso Jock Semple. Che, dunque, è ancora vivo anche se arrabbiatissimo. «Sai che quell’uomo è andato avanti e probabilmente sta cercando uno di quei grandi poliziotti irlandesi per arrestarci mentre nessuno guarda» dice al suo allenatore. «Se succede, io resisto all’arresto. Ok?». Perché, scandisce, «devo finire questa gara. Anche se tu non puoi, io devo, anche sulle mani e le ginocchia. Se non la finisco, la gente dirà che le donne non ce la possono fare e che io lo stavo facendo solo per la pubblicità o qualcosa». La risposta di Briggs è lapidaria: le intima di rallentare, dimenticare il cronometro e puntare solo a finire la corsa.

 

E Switzer lo fa. Ma arriva un altro imprevisto: il suo fidanzato Tom comincia a rendersi conto di aver picchiato un giudice di gara e che questo potrebbe avere delle conseguenze sulle sue possibilità di essere selezionato nella squadra olimpica. O meglio: potrebbe essere la pietra tombale sulle sue velleità da sportivo. La incolpa per quello che è successo, litigano e, a quel punto, lui decide di proseguire da solo: «Corri troppo lentamente», le dice prima di staccarla e recuperare posizioni. Per Kathrine, è l’ennesima mazzata. E mancano ancora più di trenta chilometri. L’allenatore la scuote e la spinge a continuare. Passato il momento peggiore, il trio riprende a macinare chilometri. Kathrine fa un’altra sosta, per togliersi i pantaloni lunghi. A metà gara recuperano Tom, che sta camminando. Lui prega la fidanzata di aspettarlo, ma lei tira dritto. I chilometri continuano a passare e l’impresa comincia a materializzarsi. Anche se la giovane fatica a rendersene conto: «Arnie, quando arriviamo alla Heartbreak Hill?». Lui la guarda spaesato: «L’hai passata da un pezzo».

 

L’ultimo brivido è nel finale: vengono indirizzati su una strada che l’allenatore, nelle sue quindici maratone completate, non aveva mai fatto. La paura è che la direzione di gara abbia deciso di deviarli di proposito, per non farli arrivare ma non è così. Sbuca il traguardo, John e Kathrine si accordano per fare arrivare prima Briggs. All’arrivo li attende una dozzina di persone coperte da giacche e cappuccio. Alcuni sono organizzatori, che allungano agli atleti il materiale per coprirsi dal freddo e dalla neve. Ma ci sono anche dei giornalisti, fermi impalati da quattro ore e venti minuti – il tempo necessario a Kathrine per portare a termine la sua fatica – arrabbiatissimi: la portata storica dell’evento li ha costretti ad aspettare per ore, dopo l’arrivo degli atleti d’elitè, in mezzo al freddo e alle intemperie. «Da studentessa di giornalismo, questa è la cosa che mi ha divertita maggiormente». Si avvicina un medico, per controllare le sue condizioni. Lei si toglie le scarpe: ha i calzini inzuppati di sangue. Un’ora dopo, barcollando, arriva anche Tom. Un amico di Briggs li ospita e li rifocilla, poi prendono la via del ritorno. Nel cuore della notte si fermano a un autogrill: nella sala ristorante, un uomo sta leggendo un giornale. E su quel giornale ci sono le foto della maratona di Boston. O meglio: della maratona di Kathrine. Lei che corre, lei che viene aggredita, il suo ragazzo che la salva, l’arrivo e i calzini sanguinanti. Riprendono la via di casa, Kathrine stringe nelle mani il giornale regalatole dallo sconosciuto e nella testa una nuova consapevolezza: «

».

 

Sono quelle foto a fare di Kathrine Switzer l’atleta che, più di ogni altra, ha aperto la maratona alle donne. L’immagine dell’aggressione ai suoi danni è seconda, forse, solo al podio di Tommie Smith, Peter Norman e John Carlos a Messico 1968. Anche se l’albo d’oro, aggiornato retroattivamente dagli organizzatori, segna un’altra vincitrice: Roberta Gibb, che come l’anno prima si è mischiata nella folla senza pettorale.

 

 



 

La strada, in realtà, è ancora lunga. Per un po’, gli organizzatori della maratona di Boston e la Amateur Athletics Union tentano di fare di Kathrine Switzer un caso isolato. Così pare che abbia parlato il direttore della Boston Athletic Association, Will Clooney, dopo l’arrivo di Kathrine: «

». Passa un altro lustro, prima che Boston si apra alle maratonete: è il 1972. Kathrine Switzer ha sposato Tom nel 1968, salvo poi separarsi nel 1973. In seguito ha avuto altri due matrimoni. Ha corso la maratona di Boston altre otto volte, ma non l’ha mai vinta, anche se nel 1975 è scesa fino a 2:51’37’’. Ha invece chiuso per prima a New York, nel 1974. Nel frattempo, le donne hanno conquistato la partecipazione ai Mondiali (nel 1983, data della prima edizione dei campionati) e alle Olimpiadi (nel 1984).

 

Lei non ha mai smesso di correre. Ha dato vita a una fondazione che si chiama 261 Fearless, in omaggio al pettorale usato cinquant’anni fa. Il suo obiettivo è quello di fare della corsa uno strumento di emancipazione delle donne, organizzando eventi non competitivi e cercando di creare relazioni in ogni parte del mondo. Pochi giorni fa, con la sua fondazione, è tornata a Boston. Bisognava festeggiare i cinquant’anni della sua prima maratona. E c’era un solo modo per farlo: rimettendosi le scarpe da corsa e quel pettorale, il 261. Con altre atlete della sua fondazione, ha percorso tutto il tracciato chiudendo in 4:44’31’’, in mezzo alle ovazioni del pubblico. È stata l’ultima volta che la maratona di Boston ha assegnato il pettorale numero 261 a un atleta, uomo o donna che sia. D’ora in poi, quel numero è ritirato. Sull’opportunità della scelta, ciascuno è libero di pensarla come vuole. C’è chi ricorderà che si tratta di un omaggio riservato ai più grandi e chi si rammaricherà perché il ritiro del numero impedisce a chiunque venga dopo di sognare di portarlo sulle spalle, un giorno. Levando qualcosa all’immedesimazione che ciascuno cerca nei propri idoli.

 


Kathrine Switzer passa dal punto in cui fu aggredita.


 

Ciò che resta è la storia di come persino una maratona possa essere il campo di battaglia per l’eguaglianza. Bastano una ragazza abbastanza incosciente da volerla correre a vent’anni infischiandosene dei rischi veri o presunti, un fidanzato sbruffone convinto di poterla accompagnare senza essersi allenato e una squadra di fotografi che passa per caso mentre un giudice di gara all’antica cerca di buttarla fuori dalla gara.

«Dopo tutti questi anni, devo ringraziare Jock Semple per avermi attaccata alla maratona di Boston. Perché ha creato una fotografia. Una delle foto più motivanti nel movimento per i diritti delle donne, perché si è spostata dalla corsa al contesto sociale. È stato davvero meraviglioso come quella cosa negativa sia diventata una delle più positive nella mia vita. Quel giorno lui non mi ha solo fatta arrabbiare e spaventata, ma mi ha ispirata».

 

 

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