Si può vincere un Mondiale a diciott’anni, diventare famose quasi quanto Usain Bolt, minacciare il record del mondo e promettere sfracelli senza essere osannate dal pubblico. Anzi, si può essere temute e osteggiate per questo. Finire vittime di controlli al limite della discriminazione, considerate imbroglione quanto e più delle atlete dopate. Passare un calvario di sette anni, tornare, vincere ancora e sospettare che poco sia cambiato.
Berlino, 19 agosto 2009. Nella notte dell’Olympiastadion scendono in pista le otto finaliste iridate degli 800 metri. Fino a questo momento il volto dei Mondiali tedeschi è stato Usain Bolt: il giamaicano ha già migliorato il primato mondiale dei 100 e quella sera ha vinto le semifinali dei 200, preparandosi a battere un altro record. Ma ora in pista c’è un’atleta che ha catturato l’attenzione degli addetti ai lavori. È sudafricana, si chiama Caster Semenya e ha diciotto anni. È all’esordio fra le grandi: si è svelata tre settimane prima ai Campionati africani juniores nelle isole Mauritius, dove ha doppiato 800 e 1.500. Nei 1.500 ha chiuso in 4’08’’01: il suo primato personale, 25 secondi meglio dell’anno precedente, e record dei campionati africani juniores. Soprattutto ha stravinto gli 800 in 1’56’’72. Ha staccato tutte di oltre quattro secondi e mezzo, una distanza siderale. In un colpo ha ottenuto primato personale, record dei campionati, record nazionale assoluto e miglior prestazione mondiale assoluta dell’anno. Ha partecipato anche alla staffetta 4×100, con cui è arrivata terza.
A Berlino la favorita è lei. La kenyana Pamela Jelimo, che l’anno prima aveva dominato la specialità correndo in tempi stratosferici, è uscita mestamente in semifinale. Un’altra kenyana, Janeth Jepkosgei, è l’unica con qualche speranza di batterla. Ci prova partendo forte, corre i primi 200 sotto i 27 secondi. Cerca di tenere un ritmo alto, è in testa fino all’ultimo rettilineo del primo giro. Poi Semenya la affianca, la supera e si mette alla corda. Chiude i primi 400 in 56’’8, se ne va a 200 metri dalla fine con un’accelerazione bruciante. Si gira a metà curva quando ormai ha qualche metro di vantaggio, si volta di nuovo e scava un abisso tra lei e il resto del mondo. Vince in 1’55’’45, dietro Jepkosgei e la britannica Jennifer Meadows sono lontane oltre due secondi. Caster Semenya ha dato una prova di forza paragonabile alle imprese di Bolt. Lo sottolinea mostrando i muscoli. Ma nello stadio non c’è il clima di giubilo e festeggiamenti delle grandi occasioni, ad eccezione l’angolo rumorosissimo dei tifosi sudafricani.
Perché su Semenya, da qualche tempo, girano voci pesanti. Le sintetizza l’italiana Elisa Cusma, sesta e delusa: «Io quella che ha vinto, la sudafricana Semenya, nemmeno la considero, per me non è una donna, e mi dispiace anche per le altre». Si scuserà poche ore dopo, ma le sue parole rendono bene l’atmosfera in cui la giovane ha vinto il titolo mondiale. Cusma non è un caso isolato: prima della finale, racconterà in seguito Jenny Meadows, le altre atlete la fissavano e ridevano. «Basta guardarla», è il giudizio della russa Mariya Savinova, quinta. Poco prima della gara la Iaaf ha reso noto che la sudafricana è stata sottoposta a due test del sesso: uno nel suo Paese, l’altro a Berlino. Ma per i risultati serve tempo. Due ore prima della finale il portavoce Iaaf Nick Davies ha spiegato così la sua mancata esclusione dalla gara: «Non abbiamo elementi tali da impedire che corra». Il motivo è il seguente: «Aspettiamo l’esito degli esami sulla femminilità, semplicemente siamo fuori tempo massimo». Nel frattempo «sarebbe un terribile errore escludere l’atleta». Non lo è annunciare prima della finale che è stata indetta un’indagine sul sesso di un’atleta in gara. Le voci si moltiplicano: non solo la muscolatura accentuata e il tono di voce basso, c’è chi insiste sul fatto che si tratti dell’unica atleta in gara a usare i pantaloncini e che da ragazzina giocasse a calcio con i maschi. Il sostegno che arriva dal suo angolo non è molto meglio in fatto di squallore. Ecco il suo allenatore, Michael Seme: «Telefonate pure alle sue compagne di stanza a Berlino, l’hanno vista in doccia, lì non si può nascondere niente».
Caster Semenya è nata in un villaggio di nome Ga-Masehlong, dalle parti di Polokwane, il 7 gennaio 1991. Nelson Mandela era libero da meno di un anno e si stavano consumando gli ultimi rigurgiti di apartheid. Per lei la segregazione sarà più lunga. Intanto tace, a parte le dichiarazioni di rito alle tv. Anche se del suo fisico parlano tanti: gli allenatori, le federazioni, qualche avversaria. Caster Semenya diventa il volto dei Mondiali di Berlino con Usain Bolt. Ma il giamaicano è l’eroe positivo, lei vince malgrado tutto. Lui è la manna dell’atletica, Semenya una grana micidiale da risolvere.
Mondiali di Berlino 2009: la prima vittoria di Caster Semenya.
Il fango e i mesi sospesi
Caster Semenya non è la prima né l’ultima donna accusata di non esserlo. La stessa sorte è toccata a tante, fin dagli albori dell’atletica femminile. La cecoslovacca Zdenka Koubková, dominò i Giochi dell’Impero Britannico nel 1934 e due anni dopo cambiò il suo nome in Zdenek Koubek. Hermann Ratjen gareggiò alcuni anni per la Germania nazista con il nome di Dora: fu escluso dall’atletica femminile in seguito a un controllo del sesso. Circa due decenni dopo ammise di aver vissuto tre anni da donna, su pressione della Gioventù hitleriana. I controlli hanno avuto diverse modalità di svolgimento a seconda dell’epoca. Spesso sono stati criticati per l’invasività e per l’inefficienza. La prima atleta olimpica nella storia a fallirlo fu la polacca Ewa Klobukowska, bronzo nei 100 metri alle Olimpiadi di Tokyo 1964 e oro nella staffetta 4×100 con annesso record mondiale. Fu squalificata nel 1967 perché il test della cromatina giudicava il suo assetto ormonale incompatibile con quello di una donna. Secondo il Guardian, anni dopo diede alla luce un figlio. Il test del sesso fu aspramente criticato nel 1992 prima delle Olimpiadi invernali di Albertville, sia per la scarsa attendibilità sia per le conseguenze morali e psicologiche per le atlete coinvolte.
Il tema è irrisolto da decenni. Lo scienziato dello sport sudafricano Ross Tucker lo sintetizza così: «Puoi e dovresti avere certi vantaggi se vuoi vincere, ma a un certo punto il tipo di vantaggio che hai, e la sua grandezza, dev’essere controllato. Per un pugile peso medio, succede a 75 chili. Ma per gli uomini contro le donne, succede da qualche parte. Solo, non sappiamo dove».
Caster Semenya resta sui giornali per mesi. Dichiarazioni, accuse e smentite si inseguono. Si rintraccia la nonna Maphuti: «Dio l’ha fatta così, io l’ho tirata su. Queste chiacchiere non mi disturbano molto, perché lei è una donna». La difende il marciatore altoatesino Alex Schwazer: «Io credo che bisognerebbe mettersi anche nei suoi panni, e quindi che bisogna portarle più rispetto di quanto è accaduto finora». Il suo allenatore Seme, lo stesso che invitava i giornalisti a telefonare alle compagne, racconta che una volta cercò di entrare nel bagno femminile di un distributore di benzina. Quando gli addetti la fermarono, «Caster si limitò a ridere e a chiedere se volevano che si abbassasse i pantaloni per dimostrare che era una donna». Un ex allenatore, ovviamente anonimo, assicura che Semenya è un ermafrodito e che il suo caso era già noto al Sudafrica mesi prima. «Tutta spazzatura» replica lapidario il ct Ekkart Abeit, ex tecnico della Ddr. Semenya fa un ritorno trionfale in patria, il Telegraph svela i risultati dei test: «Ha in corpo tre volte il livello normale di testosterone per una donna». Poi è il turno del Sydney Morning Herald: gli esami del sesso indicano la presenza di ovaie e testicoli, il che sta a provare la natura di ermafrodito. Torna alla carica il Telegraph, con le parole del segretario generale Iaaf Pierre Weiss: «È chiaro che è una donna, ma forse non al 100%. Dobbiamo vedere se ha un vantaggio per il fatto di trovarsi tra due sessi rispetto alle altre». Secondo il quotidiano le lasceranno l’oro perché non c’è dolo, ma la squalificheranno a vita. Sempre per il Telegraph, la Iaaf ha suggerito a Semenya di fare un intervento chirurgico perché le sua salute è a rischio.
Il Sudafrica si appella all’Onu contro la Iaaf, tacciandola di razzismo e sessismo. In patria Semenya viene fatta posare in abiti femminili per il magazine sudafricano You. «Non si è mai vista Caster in un vestito. Fu imbarazzante», ricorda il giornalista sudafricano Wesley Botton, che ha seguito tutta la carriera della fuoriclasse sudafricana. Ne parla in questo lungo pezzo del Guardian, pubblicato il 29 luglio 2016, sette anni dopo l’esplosione della ragazza-prodigio: «Caster aveva bisogno di aiuto e fu avvicinata da persone di cui non avrebbe dovuto fidarsi». Che si trovasse in mezzo a un gioco molto più grande di lei, e in cui lei era solo, a seconda dei campi, un problema o un’arma da medaglie, si era già capito dai tempi della finale mondiale di Berlino: «Mi è stato detto che avevano preso la decisione di ritirarla dopo le batterie. Ma i politici la costrinsero a correre. Volevano quella medaglia e lei era la prima donna nera sudafricana a vincere un titolo mondiale in pista. Così gettarono Caster ai lupi».
Sapendo bene a cosa andavano incontro. Nemmeno un mese dopo la finale il presidente della federazione sudafricana Leonard Chuene finisce nella bufera: secondo il quotidiano Mail and Guardian, aveva già disposto test del sesso su Semenya settimane prima della gara, quei test erano già stati definiti “non buoni” e Harold Adams, medico della squadra, aveva suggerito di ritirarla. Senza successo. Sono i primi mesi di una lunghissima gogna. Per molto tempo, Semenya pare destinata ad abbandonare l’atletica leggera: la sua vittoria è una condanna.
Il ritorno e il freno a mano
Ma nel 2010 Caster Semenya è tutt’altro che finita: vuole rientrare. Prima però deve aspettare che la Iaaf decida se permetterglielo. Uno stallo paradossale che si risolve il 6 luglio: è una donna, può gareggiare. I dettagli medici dei test e dei risultati non vengono resi noti, per tutelare quel poco di privacy che le è rimasto. Lei continua a rinviare. Manca la forma. Ufficialmente per problemi fisici, ma influisce anche ciò che ha vissuto. Il manager Jukka Harkonen la porta a Lappeenranta, una cittadina finlandese. È il 15 luglio 2010, da Berlino sono passati quasi undici mesi. I test l’hanno tenuta ferma più di certe sospensioni per doping. Il livello del meeting è risibile, ma ci sono cronisti da tutto il mondo. Lei vince in un mediocre 2’04’’22. Continua con i meeting, ma salta i Giochi del Commonwealth e chiude la stagione.
Intanto arrivano le reazioni delle avversarie. Molte nel suo addio ci hanno sperato. Ora la sua forma migliore è lontana, ma sanno che la sudafricana è estremamente più forte di loro: «È frustrante correre contro qualcuno che sembra non fare fatica –spiega la canadese Diane Cummins -. Noi tutte pensiamo che possa battere il record del mondo della Kratochvilova». E se correre è un suo diritto, l’americana Jemma Simpson replica così: «Certamente è una questione di diritti umani, ma in una gara i diritti umani riguardano tutti». Non accettano di perdere contro Caster Semenya: secondo Cummins «se è una donna, è davvero al limite del range biologico. Per questo la maggior parte di noi ha la sensazione di correre letteralmente contro un uomo». Non sono tanto le lamentele a colpire, quanto il fatto che l’ostracismo su Semenya non tocchi nessun’altra. Poco importa che i livelli di testosterone siano più alti per cause naturali: parte delle avversarie e del pubblico la considerano dotata di un vantaggio più irregolare di quello che ha chi il testosterone lo assume, magari alternandolo all’Epo.
Nel 2011 la Iaaf, che sta chiudendo gli occhi sul doping di Stato in Russia e su una miriade di casi sospetti, vara il primo codice per regolare la partecipazione alle gare di atletica di donne con iperandrogenismo (definito come eccessiva produzione di testosterone). È la prima federazione a farlo, spiega orgogliosamente l’introduzione. In sostanza una donna può gareggiare a due condizioni: 1) avere livelli di testosterone più bassi della media maschile; 2) qualora i livelli di testosterone siano nella media maschile, avere una resistenza all’ormone che le impedisca di averne un vantaggio competitivo. Il livello limite di testosterone verrà definito in 10 nmol/L. Un pool di medici indagherà i casi sospetti.
Le prestazioni di Caster Semenya peggiorano: ci sono gli infortuni, c’è la scarsa concentrazione, c’è il fatto, mai confermato ufficialmente ma sussurrato da quasi tutti gli osservatori, che Semenya sta prendendo medicinali per abbassare i livelli di testosterone. Si sta riducendo la cilindrata per poter continuare a correre. Non è l’unica. Nel 2013, a Nizza, quattro atlete tra i 18 e i 21 anni di Paesi in via di sviluppo si sottopongono a un intervento chirurgico per rimuovere le gonadi e ridurre la clitoride. Contro l’iperandrogenismo è guerra aperta, più spietata di quella al doping.