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Andrea Beltrama
La classica follia di marzo
29 mar 2016
29 mar 2016
Siamo andati a vedere la finale del Regional NCAA tra Virginia e Syracuse e non ha tradito le attese.
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Andrea Beltrama
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Pasqua di pane, basket e  allegro casino a Chicago. Come non capitava da tempo, e come per tanto, visto l’andazzo delle cose in casa Bulls, non ricapiterà più. La celebriamo con una lunga sfacchinata sui mezzi pubblici, divincolandoci tra metropolitana e autobus per raggiungere lo United Center. A riportare un minimo di voglia di pallacanestro in città ci è voluto il Midwest Regional del Torneo NCAA: due ottavi e un quarto di finale del tabellone che a Houston, tra una settimana esatta, potrà eleggere la grande vincitrice, prima di condannare gli appassionati di college basket a sette mesi di tombale inattività. Eppure, prima di avvertire la tanto decantata febbre da March Madness, bisogna farne di strada.

 

La fauna accalcata sul bus 20, collegamento portante tra il centro e il

di Chicago, sembra avere altri pensieri. Chi guarda in basso, chi affonda la faccia nei sacchetti della spesa. L’unico grammo di

sembra averla un bimbo messicano in coda al bus che, per uccidere la noia, elegge il cordino chiama-fermata a passatempo dell’anno. Tre incroci e cinque false richieste di fermata dopo, l’autista in preda a una crisi di nervi ferma tutto e sgrida il padre. Seguono sguardi interrogativi, prima che ognuno torni al proprio tedio. Ci piacerebbe in realtà vedere come va a finire, se non fosse che, all’improvviso, si para davanti lo United Center. Scendiamo di gran carriera, assieme a due ragazzotti bianchi con cappellino e barba rossiccia incolta. Sono gli unici nell’autobus a venire alla partita, e probabilmente a sapere della sua esistenza.

davanti ai grandi eventi sportivi è sempre più in movimento di quanto vorremmo far credere.



 



Attraversata la strada, la

finalmente si palesa. Gli eventi del venerdì hanno portato le università di Virginia e Syracuse a giocarsi un posto per le Final Four. Sono due squadre con molto in comune, almeno sulla carta. Stessa conference, la ACC. Stessa distanza da Chicago: 700 miglia circa, ovvero 1.200 km e 10 ore abbondanti di macchina — anche se un campus è sperduto in cima allo stato di New York e l’altro è alle porte del profondo sud. E stessa tinta di base: un arancione carico che rende difficile distinguere le fazioni nel flusso color evidenziatore che si dirige dai parcheggi all’entrata dell’arena, scatenando convulsioni e una sottile invidia. Non sarà

, ma lo United Center è esaurito, come testimonia la fervente attività degli amici bagarini. Del resto, sono settimane dell’anno in cui le distanze contano poco, di fronte al desiderio di carpire l’occasione. Ancor più della Final Four, il Regional è infatti forse il momento che meglio rappresenta lo spirito del torneo nella sua massima essenza, dando ai tifosi l’ultima possibilità di partecipare all’avventura senza ipotecare la casa. Prezzi accessibili, alberghi disponibili, partite giocate in arene pensate per il basket — e che dunque ti permettono di vedere la partita, invece che costringerti a immaginarla dall’alto dei

del football americano. Senza dimenticare l’odore della Final Four dietro l’angolo, capace di spargere su questo fine settimana un velo di tensione sportiva che tendeva invece a diluirsi nei primi due turni, così ingolfati di finali punto a punto e sorprese clamorose.

 

E così, già da mezzora dalla palla a due, il colpo d’occhio è di quelli giusti. Dietro le rispettive panchine, i due settori di tifosi ufficiali: un miscuglio di genitori e nonni dei giocatori, grandi ex al seguito dell’università e altri personaggi di dubbia rilevanza che assicura lo zoccolo più coreografico del tifo. Sotto al canestro bande e cheerleader. Per il resto dei posti, invece, siamo al liberi tutti. Chi compra per primo gode, ognuno con la propria felpa anche se non c’entra niente con chi sta giocando. Oggi, però, la maggior parte dei posti liberi è andata a Syracuse. Che, a parità di distanza da Chicago, resta ateneo ben più globale di Virginia, e dunque con più esuli dispersi nelle città degli States pronti a rispolverare il proprio spirito di appartenenza quando se ne presenti l’occasione. Già durante il riscaldamento cantano il grido di battaglia

poi rispolverato durante la partita a ogni possesso andato a buon fine. Più in basso, una giovane coppia con due bimbi, tutti vestiti di arancio, cerca un improbabile selfie con il campo sullo sfondo. Ci offriamo volontari. Tre tentativi. Al terzo ringraziano poco convinti. Da lontano vengono scorti mentre ne chiedono un’altra a un’addetta della security. Ci sarebbe da meditare sulle ragioni del fallimento, se non fosse che la partita si sta pericolosamente avvicinando alla palla a due.

 



La partita, appunto. Virginia ci arriva da netta favorita. Testa di serie nel tabellone, tre vittorie travolgenti nei turni precedenti, una stagione all’insegna della costanza. E la sensazione che, dopo tre stagioni in cui è mancato solo l’ultimo guizzo, i tempi siano finalmente maturi per agguantare un posto tra le magnifiche quattro. Difficile pensare a una squadra che incarna l’idea del college basket tradizionale meglio di questi Cavaliers: fisici, ben amalgamati, senza stelle ma con un nucleo portante di giocatori esperti, al terzo e quarto anno. Di quelli che, all’ultima opportunità prima di lasciare il college, dovrebbero avere la motivazione speciale delle

, qualunque cosa voglia dire il termine (stiamo ancora cercando di capirlo). Aggiungete al mix Tony Bennett – un allenatore

, ottimista, sempre con la parola giusta e il sorriso pronto – e il vostro software sputerà fuori l’identikit della squadra simpatia. Quella per cui tutti, quando i propri demoni sono a riposo, decideranno di parteggiare.

 

Molto meno romantica la posizione di Syracuse. Che, dopo essere stata squalificata dal torneo l’anno precedente per una lunga serie di violazioni, fino a due settimane fa non avrebbe nemmeno dovuto esserci in questa, dopo aver chiuso una stagione anonima con un’uscita prematura dal torneo della propria conference. E invece, con un guizzo inaspettato, il nome degli Orange è finito dentro al tabellone, a discapito di altre università che sembravano aver fatto di più per meritarsi l’invito. Qualcuno ci ha visto una strizzata d’occhio al blasone e ai volumi di pubblico che gli Orange avrebbero potuto muovere. La motivazione ufficiale, invece, è stata che Syracuse si era meritata un trattamento benevolo per aver giocato nove partite senza il proprio allenatore. Peraltro squalificato dalla stessa NCAA, giusto per rendere il quadro ancora più pittoresco. Il classico rimedio peggiore del male, figlio delle curiose pieghe di un sistema che non finisce mai di stupire.

 

E così, se Virginia è preda del tifo facile, Syracuse si presenta come nemico pubblico ideale. Anche perché è allenata da uno dei personaggi più demoniaci del mondo della pallacanestro: Jim Boeheim, 900 vittorie e passa all’attivo, dal 1969 (!) a Syracuse, 7 anni da assistente e 40 tondi da capo-allenatore, mai un minuto di difesa a uomo. Uno che avrebbe i numeri per scrivere libri di motivazione per aspiranti businessmen o per moralizzare a destra e a manca. E che invece preferisce rintanarsi nel suo carattere da allenatore più balcanico che nordamericano: cinico, attaccabrighe, permaloso.

, “scontroso quando va bene”, lo definì

nel 1996, all’indomani della sconfitta in finale contro la Kentucky di Pitino. «Se sbaglia quel tiro io divento un genio e Knight un cretino» aveva detto diplomaticamente anni prima, sconfitto allo scadere dalla Indiana di Bob Knight con un tiro dall’angolo di Keith Smart. E così, con gli scandali ad oscurarne i successi, il suo nome non è mai assurto all’immunità morale di cui godono i grandi santoni. Anche se, diplomazia o meno, il suo posto fisso nello staff tecnico di Team USA suggerisce che, tra i suoi mille difetti, non figurano eventuali problemi a comprendere il "Giuoco". Lo avremmo capito anche guardando questa partita.

 

Sperequazioni e perplessità, simpatie e antipatie cadono però davanti ai risultati del campo. Chi è qui ha vinto, gli altri sono davanti al divano. Virginia ha tritato qualsiasi cosa le si sia parata davanti, aggiudicandosi la finale con una convincente vittoria su Iowa State. Gli Orange si sono sbarazzati agilmente di Dayton, poi di Middle Tennessee in un secondo turno inaspettatamente comodo; infine hanno rimontato all’ultimo respiro la Gonzaga del

, per cui avevamo spudoratamente tifato venerdì sera.

, sopravvivi e avanza: il convento passa questo, e non ci sogniamo certo di lamentarci.

 


Gli highlights della partita per chi ama gli spoiler


 



Inni nazionali e poi si parte. La dittatoriale austerità della NCAA ha i suoi vantaggi. L’attenzione è tutta sul gioco. Non c’è spazio per spettacoli pirotecnici, corse simulate di ciambelle e attentati ai timpani che solitamente dominano la scena nelle partite NBA. La gente è venuta per guardare basket e solo quello vuole ottenere. Certo, l’amore incondizionato per il gioco impone anche di non poter portare a bordo campo

, ma sono dettagli che lasciamo alle polemiche più laterali.

 

Più interessanti invece sono i primi 4 minuti e 14’’ di partita, che si candidano seriamente al peggiore spezzone di pallacanestro mai vista nella nostra ormai decennale esperienza di spettatori non paganti. Dodici palle perse collettive, due canestri dal campo, ribaltamenti di fronte improvvisi e un solido 4-2 di vantaggio per gli Orange. Arriva il time-out televisivo a salvarci, il primo degli otto previsti in ogni partita. E così, mentre meditiamo sulla crisi di fondamentali che ha affetto la pallacanestro dall’avvento di Steph Curry e dalla scomparsa dei Centri Veri, concludiamo che, per quanto orrendo, questo inizio non può comunque intaccare la peggior partita di college basket mai vista dal vivo, inattaccabile nei secoli:



 

Pagata la tassa, lo spettacolo può finalmente cominciare. Syracuse è trincerata nella sua zona 2-3, che concede all’attacco inutili passaggi per linee esterne, ma si chiude velenosamente appena la palla arriva in post alto o negli angoli. Virginia ci mette 10 errori dal campo e cinque minuti buoni a entrare in partita, ma, quando due triple del play London Perrantes smuovono il tabellone, le carte in tavola cambiano all’improvviso. Bucati dietro, gli Orange si perdono in una serie di penetrazioni mal consigliate e prontamente rispedite al mittente dalla solida difesa dei Cavaliers, specializzata nel chiudere corridoi di penetrazione apparentemente comodi. Ringalluzziti dai successi difensivi, gli uomini di Tony Bennett riescono anche a distendersi in contropiede, guadagnandosi un vantaggio in doppia cifra che sa già di Final Four prenotata, soprattutto in una partita a basso punteggio.

 


L'unico guizzo per Cuse è una tripla di Tyler Lydon che, trovatosi senza scarpa su uno scontro lontano dalla palla, ha la freddezza di ricevere, far saltare l'uomo e sganciare il siluro, con la calza bianco-arancio bene in vista. Ma resta un gesto isolato in un finale tutto in salita per la squadra di Boeheim.


 

E così, mentre gli arancioni di Syracuse tacciono, quelli di Charlottesville cantano a squarciagola “U-V-A!”, soprattutto quando l’ennesima tripla di Perrantes regala il 35-21 all’intervallo. La giustizia sportiva, finalmente, si indirizza verso il giusto corso.  O forse no?

 



Prendete il primo tempo. Attaccateci dieci minuti sostanzialmente identici a come era finito. Aggiornate il tabellone con le seguenti cifre: Virginia 54, Syracuse 39. Quando nella notte italiana sono ormai le 3 e mezza del mattino e anche a Chicago si avvicina l’ora dell’abbiocco, il terzo grande buco del bracket sembra ormai colmato. I Cavaliers hanno sostanzialmente messo d’accordo tutti. Se non fosse che tutti, noi compresi, si sono dimenticati che sulla panchina avversaria c’è il bastian contrario più bastiano e più contrario di tutto il panorama NCAA: l’arcigno Jim Boeheim, che chiama prontamente un minuto di pausa. Due insultini agli arbitri, tanto per tenere la lingua calda per il timeout. Poi parla ai suoi giocatori. Il contenuto di quelle parole non lo sapremo mai, né sapremo mai se quelle parole abbiano davvero avuto un qualche ruolo nel determinare gli eventi dell’ultima parte di gara, o se invece tutto sia stato mosso dal caso. Quello che sappiamo, però, è che da quel momento sarebbe iniziata un’altra partita.

 

Invece di aspettare nella propria metà campo, Syracuse allunga la difesa. Mossa banale, che tuttavia coglie di sorpresa i Cavaliers. Tyler Roberson schiaccia. Subito dopo Trevor Cooney, senior navigato degli Orange, si butta dentro al rallentatore, come suo stile. Altro canestro. Lo svantaggio rimane, ma il pubblico è tornato in partita. Poi, con la tavola apparecchiata, inizia lo show di Malachi Richardson, un esordiente con troppa incoscienza per sentire la pressione. Una tripla davanti alla propria panchina vale il -6. Poi, sempre davanti al suo allenatore, recupera una palla dalla rimessa, buttandola addosso all’avversario prima di uscire. Virginia, attanagliata nel pressing, fatica a passare la metà campo. Lydon, questa volta con entrambe le scarpe, segna il -3. Poi ancora Richardson, sempre più incosciente. Penetrazione per il sorpasso e tripla di somma ignoranza per l’allungo. A 3 minuti e 27 secondi dalla fine, gli Orange conducono 64-58. Dentro allo United Center si respira un clima che nessuna partita di playoff NBA, nemmeno quelle delle scazzottate tra Rajon Rondo e Kirk Hinrich, è mai riuscita a pareggiare dopo il ritiro di Michael Jordan. Boeheim, dalla sua panchina, è immobile. Bennett, dall’altra parte, prova a infondere un minimo di coraggio ai suoi. Ma è un k.o. tecnico a cui è impossibile reagire.

 

Virginia ha un ultimo guizzo, sotto di 3 e palla in mano. È la situazione in cui tutti quelli che hanno fatto il corso Allenatori Nazionali a Bormio, più quelli-che-non-l’hanno-fatto-ma-vorrebbero, pontificano il fallo. <emOh, avanti di 3, fai fallo. Elementare, no? Ma Boeheim, purtroppo per lui, non lo sa. È nel coaching staff della squadra di basket più forte al mondo e in Valtellina non ci è mai passato. Preferisce fidarsi della sua difesa, quella che ha subìto un solo canestro su azione negli ultimi 6 minuti, e solo

negli ultimi 13:30 delle partite contro Gonzaga e UVA. Eppure Virginia la tripla la prende, e non è nemmeno un brutto tiro. Ma il tentativo mancino di Devon Hall finisce lungo, dopo aver picchiato sul tabellone. Titoli di coda, fine del Regional. Una coppia di Orange si abbraccia davanti a noi, immortalata qui sotto. Se non sono già sposati, è un momento perfetto per una bella proposta di matrimonio.

 



 



Seguono scene viste e riviste, eppure sempre piacevoli. I giocatori vengono premiati con il trofeo del Regional, a ulteriore riprova che, qualsiasi cosa succeda nelle semifinali, arrivare all’ultimo atto è di per sé un successo inalienabile. Boeheim, in uno slancio di umanità, prende il microfono e carica la folla: «Ci vediamo a Houston!» urla, prima che la marea arancione lo sommerga. Compare anche Adrian Autry, ex Fortitudo Bologna, Fabriano, Jesi e Livorno. Ora è assistente di Boeheim, per cui aveva giocato a inizio anni ’90.

, prima di rintanarsi nello spogliatoio. «Ci ha portato qui un esordiente. Il giocatore migliore per queste situazioni, perché non sa cosa sia la pressione» dirà di Malachi Richardson.

 

Dall’altra parte, facce inconsolabili. Per i giocatori al quarto anno, che poi rappresentano l’asse portante dei Cavaliers, è l’ultimo treno che passa. I più noti devono pure sopportare la tortura di una conferenza stampa in diretta nazionale. Pura pornografia dei sentimenti, tra un

 e un

Il copione vorrebbe un solido

cugino collegiale del

che ci terrà compagnia da qui all’estate. Ma Bennett si spinge più in là. Attinge al repertorio delle canzoni di chiesa, smorza i toni.

dice, prima ai microfoni della CBS e poi davanti a tutti. Sul 20, a questo giro, non c’è nessuno. L’autista ci chiede cosa abbiano fatto i Bulls. L’America continua ad avanzare. E con essa gli Orange di Syracuse.

 



 

 

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