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Mauro Bevacqua
Wild, Wild Wilt
21 ago 2015
21 ago 2015
La storia di Wilt Chamberlain, Mr. 100 punti.
(di)
Mauro Bevacqua
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Questa storia inizia da una foto iconica, ma il record-dei-record NBA e un numero a tre cifre non c’entrano. C’entrano invece una sigla di tre lettere—JFK—e due Presidenti, Kennedy, appunto, e il suo predecessore, Dwight Eisenhower. È il 22 aprile 1961, i due si ritrovano a Camp David, tra le montagne del Maryland del nord, urge discutere della questione cubana, visto che è fallita da pochi giorni l’invasione della Baia dei Porci. Paul Vathis è tra i fotografi accreditati per coprire il summit, Pierre Salinger è invece il capo ufficio stampa della Casa Bianca. È lui che intima: «OK, ragazzi, basta così» al plotone di fotografi convocati, ma Vathis resta ancora un attimo in posizione, accovacciato, la sua macchina fotografica puntata per un ultimo scatto. Nasce “Serious Steps”, la foto che vede i due Presidenti camminare di spalle, Eisenhower che dietro la schiena tiene stretto a due mani il suo cappello. Vathis vincerà il Premio Pulitzer—con quella che rischia di non essere neppure la sua foto più famosa.

 



 



Perché ne scatta un’altra, meno di un anno dopo. Si trova a Hershey, paesino di diecimila anime in Pennsylvania, è l’inizio di marzo del 1962. Ha promesso a suo figlio Randy, 10 anni, di portarlo a vedere la NBA, quella sera. I Philadelphia Warriors ospitano i New York Knicks. Il palazzetto è mezzo vuoto—a pagare i 2.50$ di ingresso sono solo in 4.124—l’unico “collega” in servizio, scattate due foto di azione, se ne va alla fine del primo quarto, mentre Dave Zinkoff—

voce dello sport di Philly—all’intervallo regala al pubblico sigari e salami. Solo che, al termine del terzo periodo, il centro di Philadelphia, tale Wilton Norman Chamberlain, è a quota 69 punti. È allora che anche Vathis esce dal palazzetto—non certo per andarsene, ma per recuperare la sua Mamiyaflex che aveva lasciato nell’auto parcheggiata.

 

Il resto, come si dice, è Storia, forse di quella con la S maiuscola. Chamberlain chiude a quota 100, con 36/63 dal campo ma soprattutto—per lui, tiratore da 54% in carriera—con 28/32 ai liberi (la spiegazione c’è e riguarda i ferri della Hershey Arena, resi morbidi e accoglienti dall’abitudine dei clown di restarci appesi a lungo a conclusione di un numero della loro routine, quando il circo fa la sua annuale sosta in città). Vathis a fine gara entra nello spogliatoio dei Warriors: vuole immortalare il momento, ma non sa bene come. Fortunatamente arriva “Octopus” (“polpo”, il soprannome con cui era conosciuto, per la sua capacità di fare 8 lavori contemporaneamente, uno per ogni tentacolo). È Harvey Pollack, che quella sera è l’unico a far risuonare la sua Olivetti all’interno della Hershey Arena e che in effetti sta prestando i suoi servizi contemporaneamente per la United Press (l’agenzia per cui lavora abitualmente), per l’Associated Press e per il

. È di Pollack l’idea di prendere un foglio di carta, scriverci sopra “100” e consegnarlo a Chamberlain, chiedendogli di mettersi in posa per l’unico fotografo disponibile, Paul Vathis. Click.

 



 



Un altro 22 del mese. Ancora John Fitzgerald Kennedy. Ma son passati più di due anni da Camp David—e non è più aprile, è novembre. Una data—il 22.11.1963—che ogni cittadino USA sa a memoria, come spesso a memoria ricorda anche le parole pronunciate da Walter Cronkite. Al telegiornale della CBS, quel giorno, è lui a dare la notizia alla nazione. «From Dallas, Texas, the flash, apparently official: President Kennedy died at 1 PM, Central Standard Time - poi qui si toglie gli occhiali, guarda in alto verso l’orologio in studio e subito riprende - 2 o’ clock Eastern Standard Time, some 38 minutes ago». Sembra per un attimo commuoversi—e non è il solo. Parecchi occhi lucidi attorno a me quando mi è capitato di vedere e rivedere il video, in un

quasi ipnotico, in mezzo a gente di tutte le età e di tutte le nazionalità al Sixth Floor Museum di Dallas, dall’esatto luogo cioè dove Lee Harvey Oswald sparò a JFK, uccidendo il Presidente e parte del Sogno Americano.

 



E ancora: un altro 22, di nuovo aprile ma del 1971, dieci anni esatti da Camp David—e di nuovo anche la voce di Walter Cronkite, stavolta per un annuncio meno drammatico: «Wilt Chamberlain - riporta durante il CBS Evening News di quel giorno - ha definitivamente declinato l’opportunità di firmare un accordo per affrontare sul ring Muhammad Ali». Doveva esserci in palio il titolo mondiale dei pesi massimi, ma un mese e mezzo prima—in quello che viene ricordato come “The Fight of the Century”, l’incontro del secolo—Joe Frazier aveva inflitto ad Ali la prima sconfitta della sua carriera, al Madison Square Garden, privandolo della cintura. Forse perché non ci sarebbe più stata una corona in palio, forse per dar ascolto ai consigli di suo padre («Wilt, faresti meglio ad allenarti ai tiri liberi»), forse per questioni economiche (al netto delle tasse, dissero i suoi avvocati, gli sarebbe entrato in cassa “solo” mezzo milione di dollari) o forse perché in fondo era tutta una gigantesca trovata pubblicitaria, il tanto chiacchierato match tra Wilt Chamberlain e Muhammad Ali—26 luglio 1971, Harris County Domed Stadium di Houston, per tutti l’Astrodome, “l’ottava meraviglia del mondo” inaugurata solo sei anni prima—non divenne mai realtà. Anche se poi, in fondo, cos’è la realtà nella vita di Wilton Norman Chamberlain?

 



 



Perché è questo, forse, l’aspetto più affascinante del personaggio Chamberlain: il suo essere in tutto e per tutto

e allo stesso tempo

dalla realtà, dal suo tempo, dalla Storia. Fuori perché

la Storia, verrebbe quasi da dire più grande della stessa. Come quando scolpisce nella leggenda la sua gara da 100 punti—mentre si ferma a 81 il giocatore (Kobe Bryant) capace di andargli più vicino. Come quando segna per 118 volte 50 o più punti—e dietro di lui Michael Jordan riesce a farlo “solo” 31 volte. Come quando per 126 partite

segna 20 o più punti—e il secondo arriva

, perché Oscar Robertson ci riesce per 79 gare, ma Wilt lo precede con un’altra striscia da 92. Come quando chiude la stagione NBA 1961-62 a 50.4 punti di media—e questa volta nella storia il secondo arriva

(Michael Jordan, 37.1). Come quando è per 11 stagioni il miglior rimbalzista NBA—impresa che a Dennis Rodman riesce 7 volte. Come quando—lui, 216 centimetri per 125 chili—distribuisce 702 assist (!) nella stagione 1967-68, facendo meglio di chiunque altro in tutta la Lega. Come quando, ancora al liceo a Overbrook HS, segna 90 punti in una partita, di cui 60 in dodici minuti. Come quando debutta in prima squadra a Kansas e ne mette 52 contro Northwestern University, o nella NBA contro i Knicks scrivendo 43+28 (finirà per vincere il premio di Rookie dell’Anno, di MVP stagionale e di MVP dell’All-Star Game). Oppure come quando—numero che gli sopravvive quasi quanto i 100 di quella notte a Hershey—racconta di aver avuto 20.000 donne nella sua vita (una, tra l’altro, la madre di Quentin Tarantino).

 



Proprio le parole del regista di

vengono in aiuto per capire il perché Wilt Chamberlain è anche

la Storia, quella Storia che ha in qualche modo contribuito a scrivere. «Connie, mia madre, una ragazza bianca, al tempo viveva con una ragazza nera, Jackie, e con Lillian, messicana – racconta – tutte e tre molto carine. E il modo in cui vivevano negli anni ’70… beh, era come far parte di una sitcom: uscivano sempre la sera, se la spassavano, frequentavano giocatori di football e di basket». Perché quei due decenni—i Settanta e ancor prima i Sessanta—non sono solo lo sfondo su cui si muove l’uomo Chamberlain, ma anche un periodo storico fondamentale per provare a definirlo e a comprenderlo. A partire proprio dal vanto associato a quel numero—20.000—che è specchio di una tolleranza di costumi e di una promiscuità poi messa in crisi dall’emergenza HIV/AIDS e dalle istanze

di una maggiore eguaglianza di genere.

 

Sono gli anni—quelli di Kennedy a Camp David, raccontati in TV dalla voce di Cronkite—di conflitti e lotte per i diritti civili, per una maggiore eguaglianza razziale e sessuale, durante i quali restare indifferenti è impossibile: «I’m no Jackie Robinson», si affretta ad affermare Wilt («orgoglioso di essere nero, ma più orgoglioso di essere americano e ancor più di far parte del genere umano»), ma poi tiene sempre alcuni elastici attorno alle calze—«per evitare che mi scendano»—e altri di ricambio attorno ai polsi, «che di tanto in tanto faccio schioccare per ricordarmi di quando la mia gente era sotto il giogo della frusta».

 

Sono gli anni in cui Peter Bohanna—il designer che crea le auto con cui Sean Connery e Roger Moore diventano leggendari nella parte di James Bond—viene assoldato per disegnare e costruire su misura la “Chamberlain Searcher One”, un’auto del tipo

appositamente creata per Wilt, da affiancare alla Bentley importata dall’Inghilterra, alla Ferrari e alla Cadillac cabrio o alla Lamborghini Countach.

 

Sono gli anni in cui Walt Frazier è un habitué ai tavoli del Lloyd Price’s Turntable (52th & Broadway) in compagnia di Muhammad Ali, James Brown e Diana Ross mentre Chamberlain poco più su, a Harlem, si compra lo “Small’s Paradise”—che diventa il “Big Wilt’s Small’s Paradise”—e ci passa le serate ascoltando Etta James, in quello che negli anni ’20 e ’30 insieme al Cotton Club era stato

club di NYC e dove nel 1943 aveva servito ai tavoli tale Malcolm Little, poi noto al mondo come Malcolm X.

 



 



È come se la doppia dimensione di Chamberlain—

e

la Storia—si riflettesse anche nei suoi due soprannomi. Odia “The Stilt”—“La Guglia”, in assonanza con Wilt—per quell’inevitabile e costante rimando alle dimensioni, al suo essere

, a quei 216 centimetri senza fine eppure mai in qualche modo sufficienti («avrei potuto dire di essere alto 3.15 e qualcuno avrebbe comunque replicato: "Nooo, sei più alto di così..."»). Uno strapotere fisico che nel corso della sua carriera viene riconosciuto—l’ampliamento dell’area dei tre secondi; l’introduzione dell’interferenza offensiva (

); l’obbligo di tirare i liberi da fermi (per evitare rincorsa, stacco e schiacciata): tutte modifiche regolamentari dovute a Wilt—o perfino deriso, come fece coach Frank McGuire sulla palla a due della finale NCAA 1957 tra Carolina e Kansas, mandando a saltare il suo playmaker di 1.78 Tommy Kearns contro i 2.16 di Chamberlain. C’è un Wilt “The Stilt” che è, in tutto,

e che a quella

proprio non riesce ad adattarsi.

 

Poi invece c’è un secondo soprannome—“The Big Dipper”—che gli piace, col quale da subito preferisce essere identificato. Perché a darglielo sono alcuni amici, ispirandosi al verbo inglese “to dip”—scendere; abbassarsi—e all’azione che Wilt è costantemente costretto a fare in corrispondenza di ogni porta, all’ingresso di ogni stanza—un leggero chinarsi che permette anche a lui di

e

il mondo di tutti. Da “Dip” a “The Big Dip” fino a “The Big Dipper”, che in inglese è anche il termine che sta a indicare l’Orsa Maggiore, la costellazione che al suo interno contiene il Grande Carro. Soprannome perfetto, per una stella come lui.

 



Talmente perfetto che Wilt Chamberlain sceglie di chiamare la propria abitazione losangelina “Ursa Major”, dal latino. Doveva sorgere a Malibu ma David Rich, l’architetto incaricato di costruire casa per il nuovo centro dei Lakers, lo convince a un giro in elicottero sopra L.A.: quando scorgono—a Est della 405, la freeway che taglia diagonalmente la città—un appezzamento libero di terra dalle parti di Bel Air che un tempo aveva ospitato missili contraerei dell’esercito USA, è fatta. La prima volta che Rich accompagna Chamberlain nella sua nuova proprietà, traccia per terra tre forme geometriche—un quadrato, un triangolo e un cerchio—chiedendo a Wilt di “entrare fisicamente” in ognuna, e scegliere la preferita. Risultato? Vince il triangolo: “Ursa Major” viene completata senza che in tutta la casa ci sia un singolo angolo retto. Non è l’unico particolare degno di nota.

 



 

Ci sono le cinque camere da letto, tra cui

che sfoggia il leggendario semaforo chiamato a dirigere il traffico—“Love” o “Don’t Love” a seconda dell’umore del padrone di casa. C’è il lampadario di cristallo disegnato in California, ma fatto realizzare a Venezia. Ci sono diverse piscine (una di dimensione olimpica) e ancor più camini (il più imponente alto quanto un palazzo di cinque piani). Ci sono i sei bagni di cui uno, riservato agli ospiti, adornato con le silhouette dorate su sfondo nero di cinque donne nude e un altro, quello padronale, diviso in due sezioni distinte—“Wilt” e “Her” (chiamiamolo “generico femminile…")—che si incontrano in una zona doccia comune. E poi c’è la stanza ribattezzata negli anni come “Purple Room” (dal colore del sofà di velluto) o, più esplicitamente, “X-Rated Room” o “Sex Room”: ottagonale nella forma, le pareti interamente ricoperte di specchi, il sofà vellutato disposto lungo tutto il perimetro e al centro un enorme materasso ad acqua, coperto da una pelliccia ricavata dai soffici peli del muso di più di 1.500 lupi artici cacciati in Alaska. Chiunque entrasse qui doveva obbligatoriamente togliersi le scarpe—ma non si sbaglia a immaginare che molte delle ospiti di Wilt non si fermassero a quelle.

 

Perché sarà pur vero—come disse per lui il suo allenatore Alex Hannum—che «nessuno ama Golia», ma 20.000 donne sembrano testimoniare il contrario. E noi pure.

.

 
 

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