Il Manchester City di John Stones è finalmente riuscito a vincere la Champions League e a conquistare il mitico treble, il secondo della storia per una squadra inglese dopo il Manchester United di Sir Alex Ferguson nel 1999. Sì, avete letto bene: il Manchester City di John Stones.
Certo, è una piccola provocazione considerando il livello altissimo della rosa e il gigante che siede in panchina, ma forse non è così lontano dalla realtà dire che questa versione del Manchester City abbia Stones come uomo simbolo. Forse tra cinque, dieci o vent’anni quando ripenseremo a questa squadra storica uno dei primissimi protagonisti a venirci in mente sarà proprio lui. Definirlo difensore centrale poi è ormai riduttivo: terzino destro, mediano, mezzala, o se preferite falso centrale come è stato proposto da tanti nelle ultime settimane. Insomma, il catalizzatore tattico della squadra di Pep Guardiola.
Nel corso dei suoi 6 anni a Manchester l’allenatore catalano ha cambiato volto alla sua squadra innumerevoli volte sulla base dei giocatori a sua disposizione e delle contromisure attuate dai suoi avversari di stagione in stagione spesso cambiando radicalmente ruolo ad alcuni singoli: Zinchenko da trequartista di qualità a terzino sinistro invertito, Bernardo Silva da esterno alto a mediano in costruzione, Gabriel Jesus da punta a esterno destro in ampiezza, Cancelo da terzino destro da fascia laterale a terzino sinistro con compiti da regista dentro al campo, o ancora prima al Bayern Monaco Alaba da terzino sinistro a difensore centrale e Lahm da terzino a fulcro del gioco in mezzo al campo. Alcuni hanno avuto più successo, altri meno. Ognuno sulla base dei propri preconcetti su Guardiola poteva considerare queste scelte bizzarre una genialata o l’ennesimo frutto del suo noto overthinking. La trasformazione di John Stones è però una delle più memorabili, efficaci e forse anche divisive. In tanti sostengono che in questa nuova posizione Stones abbia raggiunto il livello più alto in carriera, consacrandosi tra i migliori interpreti del ruolo sia da difensore centrale che da mediano, ma altri pensano che per toccare così tanto il pallone in zone cruciali di campo sarebbe meglio schierare direttamente un vero centrocampista.
Bisogna partire da lontano però per avere più contezza del percorso di Stones, insieme a Gundogan il vero pretoriano di Pep Guardiola al Manchester City dal momento che hanno condiviso l’arrivo a Manchester nel 2016. È cresciuto nelle giovanili del Barnsley, la squadra della sua città, con cui ha poi giocato l’intera stagione 2012/13 in Championship. Notato dell’Everton di Roberto Martinez, viene acquistato per tre milioni e diventa nelle tre stagioni successive il fiore all’occhiello della squadra, seguito da tutte le big. Il Chelsea è la più interessata e nell’estate 2015 formula tre offerte da 23, 27 e 35 milioni, tutte rifiutate. Nell’agosto 2016 è il City, che ha appena ingaggiato Guardiola come allenatore, ad accaparrarselo sborsando complessivamente 60 milioni, una cifra che lo rese all’epoca il secondo difensore più pagato di tutti i tempi dopo David Luiz. Tanti pensavano che si trattasse dell’ennesimo giocatore strapagato dagli sceicchi, e le prestazioni non di alto livello sembravano confermarlo: tanti errori grossolani, rischi eccessivi con la palla tra i piedi, troppo morbido nei duelli. Guardiola lo difenderà a spada tratta in una conferenza stampa diventata retroattivamente popolare: «John Stones ha più personalità di tutti noi che siamo in questa stanza oggi. Ha più palle. Adoro avere John Stones nonostante i tanti errori. Adoro i giocatori con questa personalità, perché non è facile fare il difensore centrale con questo allenatore. Con altri allenatori si difende bassi e si lancia lungo il pallone, con me bisogna difendere con 40 metri alle spalle e fare la costruzione».
Nonostante una crescita graduale, Stones sembra non riuscire a scrollarsi di dosso l'etichetta di centrale strapagato e sopravvalutato, adatto solo a un calcio come quello di Guardiola, dove può quantomeno mettere in mostra le sue qualità in impostazione. Probabilmente non lo aiutano nemmeno i diversi problemi fisici di cui soffre ciclicamente: in sette stagioni al Manchester City ha subito 13 infortuni, per un totale di 61 partite saltate. Guardiola però lo schiera ogni volta che ne ha la possibilità, così come Southgate gli dà completa fiducia affiancandogli la titolarità in difesa assieme a Maguire, due giocatori molto scherniti sui social che nel contesto tattico della Nazionale inglese hanno messo in piedi una coppia capace di produrre grandi prestazioni sia all’Europeo che al Mondiale.
Il momento più iconico della sua carriera prima della stagione appena conclusasi è l’incredibile salvataggio sulla linea contro il Liverpool nello scontro diretto decisivo per la Premier League 2018/19. Uno-due in mezzo al campo tra Salah e Firmino, l’egiziano con un bel filtrante manda Mané davanti a Ederson, palo interno, Stones ed Ederson cercano in contemporanea di risolvere la situazione ma non fanno altro che intralciarsi perché il brasiliano si getta sulla sfera proprio mentre Stones sta provando a rinviarla, impennata bizzarra che ricorda una qualsiasi puntata di Holly e Benji, scivolata acrobatica disperata di Stones che riesce a rilanciare il pallone un millimetro e un millisecondo prima che questo oltrepassi la linea. Com’è noto, in quella stagione il Manchester City vinse il campionato con 98 punti contro i 97 del Liverpool; l’intervento di Stones si è rivelato essere una clamorosa sliding door per le squadre di Guardiola e Klopp.
Arriviamo a questa stagione. Con l’arrivo di Erling Haaland, Guardiola tenta di settimana in settimana di trovare nuove soluzioni, strutture ed equilibri per accomodare l’adattamento della squadra all’attaccante norvegese e viceversa. Nelle prime partite stagionali Stones non parte nemmeno da titolare perché l’allenatore catalano gli preferisce Aké al centro della difesa. Partita dopo partita diventa sempre più importante nello scacchiere tattico della squadra grazie alla sua versatilità che gli permette di giocare anche da terzino destro. Un problema alla coscia gli fa saltare 13 partite tra settembre e ottobre e poi tra gennaio e febbraio. Torna in campo l’11 marzo in una trasferta contro il Crystal Palace, la prima gara in cui prende forma il nuovo e, trofei alla mano, più memorabile Manchester City di Pep Guardiola, di John Stones diventa protagonista assoluto. Si tratta di una partita tutt’altro che esaltante che viene sbloccata solo da un calcio di rigore di Haaland al 79’, ma è la prima che il numero 5 inizia dalla posizione di terzino destro, ricoperta per buona parte della stagione fino a quel momento, per poi stringersi al fianco di Rodri in costruzione per formare un 3+2 in fase di possesso. Sembra l’ennesima genialata/follia (valutatela come preferite) di Guardiola, ma Stones sembra effettivamente a suo agio a ricoprire quel ruolo.
Non si tratta di una scelta improvvisa arrivatagli in sogno la notte prima, bensì di un’idea che pian piano ha fatto breccia nella testa di Guardiola e a cui aveva pensato per la prima volta già nel 2018 in un’intervista con Jamie Carragher e Gary Neville, per poi testarla nell’ultimo quarto d’ora contro il Chelsea in Community Shield.
In questa stagione quell’idea embrionale è diventata a tutti gli effetti una realtà. Ma quali sono le motivazioni che hanno spinto l’allenatore catalano a schierare Stones in una posizione così insolita? Come già approfondito nel pezzo dedicato alla svolta “difensivista” di Guardiola, la stagione del Manchester City è stata caratterizzata da un’ossessiva ricerca del controllo e dell’equilibrio per far adattare al meglio Haaland alla squadra, ma anche la squadra ad Haaland. Per raggiungere quest’obiettivo Guardiola si è affidato alla titolarità in contemporanea di 4 difensori centrali abili nei duelli individuali e nelle transizioni difensive, e di giocatori dall’alto tasso tecnico in grado di mantenere il controllo del pallone con calma e freddezza per diminuire radicalmente il numero di ripartenze avversarie. John Stones riunisce in unico giocatore tutte queste caratteristiche, a cui inoltre aggiunge intelligenza tattica, letture, posizionamento e buoni istinti anche nell’attaccare la linea senza palla a possesso consolidato. La coppia formata da Rodri, per quanto possa sembrare strana e forse ridondante, si è rivelata efficiente grazie alla chimica tra i due e alla loro capacità, tra le tante, di resistere alla pressione alle spalle. La giocata che meglio esemplifica John Stones in questo senso è quella realizzata nella finale di FA Cup al limite dell’area.
Il portiere Ortega guida la costruzione, Rodri, seguito a uomo da Eriksen, parte da una posizione classica da vertice basso ma si sposta più sull’esterno per lasciare libero il corridoio centrale in cui può abbassarsi Stones. Nel momento in cui il pallone lascia il piede del portiere Stones si guarda molto rapidamente intorno (il cosiddetto scanning) per capire da dove arriva la pressione. L’incaricato a uscire su di lui è Rashford che parte da sinistra. Controllo con il piatto destro che lo porta dentro l’area di rigore dove sembra cascare in pieno nella trappola dello United essendo circondato da ben quattro giocatori in maglia rossa. Rashford si fa sempre più vicino, ma Stones appare non intenzionato a giocare il pallone in nessun modo. Il numero 10 dei Red Devils arriva da sinistra ed è ormai a pochissimi centimetri da lui. Proprio nell’ultimo momento disponibile, Stones sposta il pallone con l’esterno del piede destro dalla parte opposta rispetto alla pressione di Rashford, in maniera quasi disinteressata e arrogante, come un centrocampista che si è trovato milioni di volte in quella situazione e sa perfettamente come comportarsi. Con due semplici tocchi Stones è riuscito a superare la pressione di quattro giocatori, cinque se consideriamo anche Fred. Ciò che impressiona è proprio la semplicità con cui riesce in queste giocate che non dovrebbero essere nel suo repertorio.
Guardiola si fida ciecamente della sua capacità liquida di adattarsi a qualsiasi posizione, ruolo e compito in campo, al punto da spingersi ancora oltre contro l’Inter, nella partita più importante dell’anno e forse della sua intera carriera da allenatore - almeno se consideriamo le pressioni esterne e quella sensazione di essere condannato a vincere: non più quel 3-2-2-3 che tanto bene aveva fatto negli ultimi mesi, ma un 3-1-3-3 quasi bielsista, con Stones da mezzala destra, o da numero 8, come amano dire gli inglesi. Risultato? Migliore in campo: 33 passaggi completati su 37; 9 duelli vinti su 12; ma soprattutto l’incredibile 7 su 7 nei dribbling. Sapete chi è stato l’ultimo giocatore a realizzare così tanti dribbling in una finale di Champions? Lionel Messi nel 2015 contro la Juventus.
L’accostamento suona blasfemo e non va preso sul serio, ma dà l’idea della prestazione incredibile del "difensore" inglese. Paradossalmente la sensazione è che Stones potesse rivelarsi persino più decisivo dal punto di vista tattico, grazie soprattutto alla precisione con cui riusciva sempre a mettersi in visione alle spalle di Calhanoglu. La strana mancanza di precisione e coraggio di un Manchester City spaventato ha spinto i suoi compagni a cercare con insistenza giocate più sicure ma meno incisive. Guardiola ai microfoni dopo la partita ha detto di essere rimasto sorpreso dalla scelta di Inzaghi di mandare Calhanoglu su Rodri invece che su Stones (che era spessissimo l’uomo libero). Un fattore che ha tolto certezze alla squadra.
La giocata più memorabile della sua partita è quella realizzata al 54’, uno spaccato perfetto della sua incredibile prestazione, tanto nel farsi vedere tra le linee quanto nel creare pericolosità attraverso il dribbling. Fase di costruzione del City sulla sinistra contro un raro schieramento dell’Inter con Barella e Lautaro quasi invertiti, il primo alto insieme a Dzeko, il secondo quasi da mezzala sinistra. Gundogan si muove come di consueto nel mezzo spazio attirando Darmian che deve rompere la linea, con Bastoni sul lato opposto che si stringe per mantenere il due contro uno su Haaland. Brozovic si alza in pressione su Rodri, Foden si muove incontro alle spalle del croato costringendo Calhanoglu a muoversi lateralmente per negare la ricezione. A quel punto Lautaro invece che leggere il temporaneo cambio di posizione decide di alzarsi preventivamente su Akanji, Stones si mette in visione alle sue spalle e viene servito da Rodri. Controllo un po’ lungo, Bastoni esce su di lui e contemporaneamente Calhanoglu lo affianca, destro-sinistro più sterzata di tacco per liberarsi di entrambi e apertura per Gundogan dentro l’area. L’azione si concluderà in un nulla di fatto, ma quante volte avete visto nella vostra vita un difensore centrale fare una giocata di quel tipo e in una zona di campo così avanzata? Il paragone è sicuramente molto forte ed esagerato, ma presi anche dall’entusiasmo è comprensibile che i tifosi l’abbiano rinominato il Beckenbauer di Barnsley.
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Questo non significa che la sua partita sia stata perfetta. Per quanto sia molto a suo agio dal punto di vista tecnico in alcuni momenti si è notata la poca abitudine nel giocare tanti palloni nell’ultimo terzo di campo, per esempio su alcuni controlli lunghi (in particolare uno al 61’ con tutto il campo davanti che ha precluso una grande possibilità al City) o in situazioni in cui preferiva giocare dietro quando aveva lo spazio per girarsi e giocarla avanti. Insomma, è comprensibile che alcune persone preferiscano vedere un giocatore più abituato a ricevere tra le linee e con più qualità nello stretto. Il suo impatto, però, va oltre l’aspetto prettamente tecnico e comprende l’efficienza, l’equilibrio e la varietà di soluzioni che dà alla squadra giocando in quella posizione.
In una stagione è cambiato tutto per John Stones. Ha smesso di essere quel difensore centrale strapagato e sopravvalutato adatto a giocare solo in un contesto molto particolare come quello di Guardiola, ed è diventato l’uomo chiave di una delle squadre più forti di sempre. A 29 anni e dopo aver vinto qualsiasi cosa a livello di club, John Stones dovrebbe ormai avere gli anni migliori della sua carriera alle spalle, eppure sembra che il meglio debba ancora venire.