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Jerami Grant ha scommesso su se stesso
18 feb 2021
18 feb 2021
La scelta di andare ai Detroit Pistons ha sorpreso molti, ma ha motivazioni che vanno oltre il basket.
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Chris Schwegler/NBAE via Getty Images
(foto) Chris Schwegler/NBAE via Getty Images
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Se volessimo assegnare il premio di Giocatore Più Migliorato in questo preciso momento, fregandocene delle tante partite posticipate o giocate in condizioni di emergenza, difficilmente la scelta non ricadrebbe su Jerami Grant. Certo, le grandi prestazioni di Bradley Beal, capace di salire fino ai 35 punti di media a sera, o la definitiva crescita di Domantas Sabonis magari sono più appariscenti; così come la grande crescita offensiva di Jaylen Brown o la costanza di rendimento mostrata finora da Julius Randle meriterebbero una menzione d’onore. Ma nessuno è riuscito a fare un passo più ampio di quello di Grant, che in una sorta di esplosione à-la-Siakam è passato dall’essere un ottimo giocatore di sistema a essere un giocatore capace di prendersi le redini di una squadra in entrambe le metà campo nel giro di pochi mesi, e in maniera poco preventivabile.L’ex giocatore dei Denver Nuggets ha migliorato esponenzialmente le proprie statistiche offensive, passando da 12 a 23.8 punti a partita, con 6.6 triple e 6 tiri liberi tentati per 36 minuti (tutti massimi in carriera) a cui aggiungere 5.2 rimbalzi, 2.9 assist e 1.2 stoppata di media. Come già dimostrato nelle esperienze di Denver e Oklahoma City, Grant è fondamentale anche in difesa, essendo il giocatore a cui tocca la marcatura più ostica ogni sera, ma i Detroit Pistons dipendono totalmente da lui anche nell’altra metà campo. La differenza è talmente netta da riflettersi anche nella competitività della squadra, tanto che al Net Rating pressoché pari a zero con lui in campo corrisponde un nettissimo -10 nei 357 minuti trascorsi in panchina a riposare. L’unico quintetto positivo senza Grant ha giocato un totale di sette minuti in stagione, mentre per la prima volta in carriera il nativo di Portland ha realizzato una striscia di otto partite con almeno 20 punti segnati, ritoccando per tre volte il suo massimo in carriera fino a toccare i 43 punti ieri notte contro Chicago. Per farla breve: Jerami Grant è l’anima, il cuore, i muscoli e il cervello di Detroit.

Una delle prestazioni da oltre 30 punti della stagione di Grant, con la tripla che chiude definitivamente i conti contro Phoenix, regalando a Detroit la vittoria.

Siamo sempre attratti dalle storie di successo collettivo, dove le grandi prestazioni del singolo diventano combustibile per le vittorie di squadra, ma questo ragionamento non funziona (almeno per il momento) nel caso di Grant. Da inizio stagione i Pistons hanno vinto appena otto partite sulle 28 disputate, e con il contrattone di Blake Griffin impossibile da scambiare (anche se ci stanno provando) e i tanti giovanissimi alle prime armi in NBA, difficilmente la situazione migliorerà nell’immediato futuro. Ovviamente questo non ci sorprende: ai nastri di partenza quasi tutti i modelli di previsione vedevano i Pistons come una delle squadre più scarse della NBA.Quello che ha sorpreso, piuttosto, è stata la scelta di Grant in estate. E non soltanto perché la squadra che ha cercato in ogni modo di tenerselo stretto, i Denver Nuggets, erano reduci dalle finali di conference e gli avrebbero garantito un fit perfetto per le sue caratteristiche – oltre agli stessi soldi di Detroit. Quello che sorprende davvero è la scelta di un giocatore di 26 anni appena entrato nel pieno della sua maturità fisica, con delle skills difensive e dei margini di miglioramenti offensivi che farebbe comodo a qualsiasi squadra in grado di competere per il titolo, abbia deciso di compiere un “passo indietro” dal punto di vista professionale, andando a sistemarsi ai margini della lega, pur di avere un ruolo maggiore rispetto a quello che aveva ricoperto in precedenza. Ma allora perché Grant ha deciso di ripartire da Detroit? “I was a black man before I was a basketball player”Niente riassume meglio la scelta di Grant di questa frase detta dallo stesso giocatore dei Pistons a James Edwards di The Athletic. Per Grant essere un uomo di colore, negli Stati Uniti del 2021, è motivo di grande orgoglio ma anche una responsabilità molto precisa, soprattutto per chi, come lui, possiede un volto e una voce riconoscibili. Utilizzare ogni mezzo per contribuire al cambiamento etico e sociale al quale il paese sta andando incontro con tanta fatica viene prima di tutto per lui, che ha sempre dimostrato di possedere un forte attaccamento alle proprie radici fin da giovanissimo, tanto da fondare nel 2012 (quando aveva appena 18 anni) la Hour Generation Foundation, un’organizzazione con base in Maryland che aiuta ragazze e ragazzi a trovare la propria strada – e che dal prossimo anno dovrebbe aprire una “filiale” (COVID-19 permettendo) anche a Detroit.

Per il momento, però, dovranno accontentarsi di vedere giocate del genere in tv, mantenendo le debite distanze.

Anche se la sua infanzia non è stata travagliata come quella di moltissime altre persone – i Grant sono una delle grandi dinastie della pallacanestro americana, a partire dai successi di suo zio Horace con la canotta dei Chicago Bulls di Michael Jordan e finendo con Harvey, suo padre, buon giocatore NBA con undici stagioni spese tra Portland e Washington, le due città che hanno formato il piccolo Jerami –, l’essere cresciuto leggendo i saggi di Malcolm X e Frederick Douglass in una famiglia molto attenta ad avere un impatto positivo sulla comunità, lo ha sensibilizzato molto di più e molto prima rispetto alle brutali uccisioni di George Floyd, Breonna Taylor e delle altre vittime degli scontri durante le manifestazioni del Black Lives Matter dello scorso maggio e giugno.Ma per quanto nell’ultimo anno quegli episodi così cruenti abbiano scosso le fondamenta della NBA (e non solo), la scelta di Grant non deve essere vista come un aggiustamento collaterale dell’effetto farfalla provocato da quelle spaventose giornate di paura, bensì come la sublimazione ideologica dell’identità di un ragazzo il cui compito, morale ed emotivo, non si esaurisce col suono della sirena finale. Grant voleva mandare un segnale importante, a se stesso prima di tutti: voleva continuare a metterci la faccia nel modo a lui più naturale possibile, assecondando il proprio istinto identitario, quello del leader che aspettava l’occasione per tracciare un nuovo sentiero. I veri eroi arrivano quando tutti gli altri fuggonoScegliendo di accettare il triennale da 60 milioni offertogli dai Pistons, Grant non ha fatto soltanto una scelta in controtendenza con quella che sarebbe potuta essere la parabola della sua carriera - quella di un esterno duttile e con una naturale capacità (fisica e organica, ma anche mentale e comprensiva) di difendere competentemente contro ogni tipologia di attaccante. Restare a Denver gli avrebbe permesso di rimanere all’interno di una comfort zone tattica dove il suo contributo difensivo sarebbe stato tanto apprezzato quanto necessario, come hanno dimostrato gli scorsi playoff quando non solo ha marcato con profitto tutti gli esterni possibili della Western Conference, ma ha anche dato un importante contributo offensivo.Il suo fit con Nikola Jokic e Jamal Murray era istintivo come quello di tre giocatori dalle caratteristiche diverse, e anche quello con Michael Porter Jr. difficilmente li avrebbe portati a pestarsi i piedi in futuro. Jerami Grant possiede la rara ma preziosissima qualità di collegarsi a qualsiasi tipo di sistema senza aver bisogno di particolari aggiustamenti: il suo stile di gioco è tanto minimale quanto pratico, una sorta di gemma rara sulla quale ogni squadra davvero intenzionata a competere metterebbe le mani molto volentieri.Invece Grant ha scelto Detroit. La stessa Detroit che non vince una partita di playoff da 13 anni (era il 2008, c’erano ancora Chauncey Billups e Rasheed Wallace) e che nell’ultima decade è diventata sinonimo di mediocrità, la più classica delle squadre dell’Est che al massimo possono ambire al massimo a uscire perdendo 4-0 al primo turno, come successo nel 2016 e nel 2019. La stessa Detroit che nella scorsa stagione ha vinto appena 20 partite su 66 e che gioca le proprie partite casalinghe in una Little Caesar Arena nuova di zecca in cui i seggiolini vuoti si contavano copiosi anche prima della pandemia.

Quanto fa strano un account del genere, oggi?

Jerami Grant, però, non la vede sotto quest’ottica. Quando pensa a Detroit pensa a una delle pochissime franchigie NBA ad avere un capo-allenatore (Dwane Casey) e un General Manager (Troy Weaver) di colore. Pensa alla più grande metropoli “nera” degli Stati Uniti, una città colpita profondamente dalla crisi, vittima di politiche infelici e che più di molte altre ha risentito della recessione e del progressivo cambiamento economico-sociale delle ultime decadi.Grant ha visto una città da rilanciare, da rimettere al centro del discorso e non soltanto quello sportivo. A cavallo tra Ottocento e Novecento Detroit è stata una delle città più importanti del mondo, la cui influenza ha avuto un impatto significativo non soltanto sull’industria, ma anche sull’economia mondiale, sull’evoluzione sociale (derivante dal boom dell’automobile) e su quella culturale, con alcuni dei movimenti underground più famosi e di maggiore impatto che si sono sviluppati nella metropoli nel corso del Novecento. Avere un atleta giovane, forte e vincente in grado di far entusiasmare e coinvolgere le persone potrebbe contribuire a rilanciare l’immagine della città. Anche sotto l’aspetto politico la scelta di Grant può essere importante: può far riavvicinare l’interesse nazionale ad alcune realtà locali (l’esempio più famoso è quello di Flint, un’ora di macchina da Detroit), può portare a nuovi investimenti, può generare lavoro. Insomma, può fare la differenza.Salire l’ultimo gradinoGrant è un profilo esemplare non soltanto perché è giovane e molto legato alle problematiche della comunità afro-americana, ma perché la sua storia sportiva assomiglia a un lento sbocciare. La sua crescita dal giorno della chiamata da parte dei Philadelphia 76ers con la 39^ scelta al Draft del 2014 continua a essere impetuosa e lineare, con Grant che praticamente in ogni stagione ha saputo migliorare almeno un aspetto del proprio gioco. E non è un caso che per il passo più importante della propria carriera da giocatore abbia scelto di affidarsi a due come Weaver e Casey: il legame con il GM è ottimo dai tempi di Oklahoma City, dove hanno lavorato insieme per tre anni, mentre l’ex allenatore dei Raptors è da sempre una delle voci più importanti e preziose della comunità nera all’interno della NBA.Anche se Casey non sembra esattamente il prototipo dell’allenatore-genio capace di rivoluzionare il gioco di un cestista (soprattutto nella metà campo offensiva), per Grant il richiamo di farsi allenare da lui è stato fondamentale. Fin dai tempi della DeMatha Catholic High School non aveva mai avuto un capo-allenatore di colore, che Grant considera un grande stimolo personale e sotto il quale ha iniziato a uscire dal proprio guscio, aumentando esponenzialmente la propria produzione.Passare dal 17.7% al 26% di Usage è una cosa delicata, soprattutto quando si devono assumersi nuove e maggiori responsabilità anche nei confronti degli altri. Lui stesso in una recente intervista con Zach Lowe ha dichiarato che adattarsi a essere la prima opzione offensiva e quindi il focus difensivo degli avversari ha stravolto totalmente le sue abitudini, imponendo un carico aggiuntivo fisico e ancor più mentale. Coach Casey è stato molto intelligente nel farne la pietra angolare del proprio sistema senza chiedergli di andare da 0 a 100 fin da subito, intuendo quali potessero essere gli ostacoli per un giocatore che, è bene ricordarlo, ha funzionato per tutta la carriera da “gregario” in sistemi collaudati e saldamente nelle mani di altri giocatori. Grant sta imparando soltanto da pochi mesi cosa significhi dover costruire per gli altri, e anche se i suoi numeri sono incoraggianti (3 assist a partita sono il massimo in carriera, così come le appena 6 palle perse su cento possessi) le sue scelte in termini di playmaking sono ancora molto primitive e strumentali.

Questo assist “involontario” per Mason Plumlee è un buon esempio per vedere quanto scelte ed esecuzione siano ancora ben lontane dalla forma migliore.

Per facilitargli il compito il coaching staff di Detroit lo utilizza molto più spesso (rispetto alle medie in carriera) in uscita dai blocchi, permettendogli di attaccare in movimento una difesa almeno parzialmente già mossa. Nonostante l’incremento dei possessi giocati da portatore di palla in situazioni di pick and roll, Grant compare nel 18° percentile, uno dei peggiori tra quelli a giocare almeno 2.5 possessi ogni partita.Se in situazioni di pick and roll resta ancora più efficace come bloccante o tagliante (1.40 punti per possesso dopo un taglio), buoni risultati si stanno vedendo sia in isolamento (83° percentile con 1.16 punti per possesso) che soprattutto da spot up, una situazione dalla quale si sviluppa oltre il 30% del suo attacco. Se già nei due anni nel Colorado le sue cifre dalla lunga distanza si erano avvicinate molto al 40%, in questa stagione Grant è diventato letale: tira con il un 38.4%, che sfiora 40% in catch and shoot e lo supera di slancio se lasciato completamente aperto. Rispetto al passato le triple dagli angoli (destinate più che altro agli specialisti, nonché più facili essendo gli angoli più vicini al canestro) sono in forte calo rispetto alle triple tentate dalla zona frontale al canestro. Proseguendo a questo ritmo Grant potrebbe arrivare a prendersi quasi 365 triple “above the break” (oltre il doppio rispetto al precedente massimo in carriera) il che è un indicatore sia dei progressi al tiro, ben visibili anche ai liberi (88.3%, altro career high), ma soprattutto della nuova e maggiore centralità nel sistema offensivo di squadra.

Riuscire a segnare un tiro del genere con regolarità gli permetterebbe di sbloccare un ulteriore livello di pericolosità offensiva.

Fare la differenzaOvviamente questo non significa che la metamorfosi a primo violino sia già ultimata. Nonostante l’esplosione nello Usage, oltre l’80% della sua produzione oltre l’arco continua ad arrivare in situazioni di “prendi e tira”. Quando è costretto a mettere palla per terra fa ancora fatica nel selezionare l’opzione migliore, deficit che lo ha portato a peggiorare le percentuali al ferro (comunque sempre sopra il 62%) e che ne fa ancora un giocatore di palleggio-arresto-tiro (ancora oggi l’arma più importante in dotazione a una stella NBA) molto grezzo, visto che tira sotto il 40% effettivo in pull-up.Grant ha ancora molta strada da fare per diventare davvero un giocatore in grado di far pendere la bilancia dalla parte della propria squadra soltanto con la forza di fuoco offensiva. È probabile che non diventerà mai una vera prima opzione offensiva e che, anzi, per rendere al meglio abbia bisogno di un “costruttore” che lo metta in ritmo. In entrambi i casi non c’è niente di male, soprattutto quando si parla di un ragazzo che deve ancora compiere 27 anni e che sembra possedere dentro un fuoco sacro capace di dargli sempre lo stimolo giusto per migliorare anno dopo anno.Paradossalmente per Grant (così come per Detroit) sarebbe quasi più auspicabile continuare a perdere piuttosto che invertire la rotta. Certo, la possibilità di fare i playoff dopo una partenza del genere andrebbe vista come una grande vittoria (ancora più paradossale è come cinque vittorie dei Pistons siano arrivate contro alcune delle squadre migliori della NBA come Boston due volte, Phoenix, Miami, Philadelphia, i Lakers e Brooklyn), ma passare dal Play-In Tournament significherebbe anche avere meno chance di mettere le mani su un giocatore migliore al prossimo Draft. E sia Grant che i Pistons sanno bene quanto sarebbe importante assicurarsi un altro atleta giovane, forte e con un carisma accattivante in grado di riaccendere i riflettori sulla franchigia. Sarebbe importante per la squadra e per la città, per la comunità e per quello che potrebbe essere il principio di un progetto bellissimo.L’unica certezza, al momento, è che grandi storie e grandi scelte come quella di Jerami Grant fanno bene un po’ a tutti: ispirano, coinvolgono, arricchiscono, piantano un seme di speranza. Provate a dirlo a lui di “stare zitto e palleggiare”. Provate a dirgli che lo sport professionistico è soltanto un gioco da milionari. E pazienza, com’è possibile, se le cose alla fine non dovessero funzionare nel migliore dei modi: la barriera che si separa da un mondo migliore è un po’ meno impenetrabile dopo che ci sono passati uomini come Jerami Grant. E già questo è tantissimo.

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