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Detroit Rock City
21 set 2016
21 set 2016
Vita, morte e ancora vita di una città e della sua squadra.
(articolo)
21 min
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Fort Wayne

I progenitori degli attuali Pistons hanno origine duecento miglia a sud ovest di Detroit, a Fort Wayne. È il 1941 quando Fred Zollner avvia la franchigia nella piccola cittadina a vocazione agricola dell’Indiana. Il nome, che più avanti sembrerà perfetto per la nuova collocazione, deriva più prosaicamente dal prodotto che i fratelli Fred e Janet Zollner plasmano nella loro Zollner Corp e per le prime sette stagioni il nome della franchigia è Zollner Pistons — all’europea, con il marchio del proprietario/sponsor bene in evidenza.

La pallacanestro è un culto nello stato dell’Indiana, la proprietà sembra capirne parecchio e i primi anni regalano successi a ripetizione. Il decennio successivo, invece, risulta più travagliato. Nel 1949 Zollner è tra i fondatori della prima versione della NBA e, dopo poche stagioni, Fort Wayne comincia a stare stretta. Non bastasse l’inadeguatezza della piazza alle aspirazioni della nuova lega, le ultime annate trascorse nell’Indiana sono funestate da voci di partite vendute, scommesse clandestine e altre vicende torbide. Nell’estate 1957 è davvero ora di cambiare aria.

Motor City Blues

Quando i Pistons si trasferiscono nel Michigan, quello che sorge sulle rive dell’omonimo lago è il quinto agglomerato più popoloso d’America. I flussi migratori dalle zone rurali nel sud del paese hanno portato in città migliaia di uomini e donne alla ricerca di lavoro e di una vita più dignitosa.

Per la maggior parte si tratta di afroamericani che trovano lavoro negli stabilimenti Ford e Chrysler; Detroit è ufficialmente diventata “Motor City”. L’energia generata dai nuovi arrivati, però, non si esaurisce alla catena di montaggio: una volta terminato il turno ci si ritrova per fare musica. E chi non è in grado di suonare uno strumento va nei tanti locali che offrono esibizioni dal vivo. Il capostipite è John Lee Hooker, prima star a emergere dal ghetto con il suo blues grondante storie di povertà e voglia di riscatto. Il fermento in città è palpabile e l’accumulo di talenti sfocerà, due anni più tardi, nella fondazione della Motown Records. L’etichetta guidata da Barry Gordy Jr. pubblicherà tra gli altri Stevie Wonder, Marvin Gaye e i Jackson Five, segnando la scena musicale ben oltre i confini cittadini.

Un successo che diventerà, tra le altre cose, l’inno non ufficiale delle rivolte cittadine nella seconda metà degli anni ‘60.

Insomma, le premesse perché i Pistons cavalchino il momento positivo ci sono tutte. La città poi ha fame di basket, sport di cui è priva da oltre un decennio dopo la scomparsa di Gems e Falcons. Purtroppo per i tanti tifosi che affollano l’Olympia Stadium — e più tardi la Cobo Arena e il Pontiac Silverdome — le cose vanno diversamente: sul campo si alternano giocatori dal talento sopraffino come Dave DeBusschere, Bob Lanier e Dave Bing, ma senza mai riuscire a indovinare l’assetto collettivo vincente. Il roster è in continuo rimescolamento e gli avvicendamenti in panchina, uno ogni due anni, non aiutano. L’instabilità è la specialità della casa e delle prime 27 stagioni trascorse in Michigan solo 3 fanno registrare un record vincente.

Bad Boys

Il destino della franchigia cambia una notte del giugno 1981. È il momento del Draft e i Pistons hanno la seconda scelta assoluta, che utilizzano per portare a casa Isiah Thomas, guardia in uscita da Indiana dopo due anni trascorsi agli ordini del leggendario coach Bobby Knight.

Già nel suo anno da rookie Thomas dimostra qualità di leadership non comuni, diventando da subito la faccia della franchigia e il punto fermo su cui costruire il destino dei Pistons. Il profilo di Thomas è perfetto per entrare in sintonia con gli abitanti di Detroit: spigoloso, tenace, anticonformista e senza paura di risultare sgradevole, a costo di farsi del male da solo. Una battuta sul colore della pelle di Larry Bird e un boicottaggio durante l’All-Star Game, infatti, gli costeranno la futura e reciproca antipatia con Jordan e, soprattutto, il posto nel Dream Team del 1992.

A Detroit però tutto ruota intorno a lui e i Pistons passano la prima metà degli anni ‘80 assemblando pezzo per pezzo la squadra che approderà nell’olimpo del basket. Attraverso scelte e scambi sul mercato arrivano Joe Dumars, Bill Laimbeer, John Salley e Dennis Rodman. Il tratto comune della squadra è la durezza mentale e fisica applicata a uno stile di un gioco che non raccoglie grandi consensi al di fuori dal Michigan, ma che consente a coach Chuck Daly, sulla panchina dei Pistons dal 1983, di forgiare l’identità del gruppo.

Identità che pare modellarsi in simbiosi con quanto succede alla città. L’industria automobilistica ha da tempo abbandonato Detroit per portare le proprie fabbriche altrove, ovvero in luoghi dove il costo del lavoro risulta più conveniente. L’area urbana vive una crisi profonda, tanto economica quanto sociale. Nel corso dei precedenti 20 anni la città ha subito un fenomeno d’abbandono così massiccio da aver ridotto la popolazione residente del 40%. Eppure i suoi abitanti, quelli che hanno deciso di restare, non si arrendono. Chi è rimasto s’identifica fortemente con la squadra, il Pontiac Silverdome registra il tutto esaurito e il tifo è tra i più rumorosi dell’intera lega. Il grido ‘De-tro-it ba-sket-ball’, scandito a gran voce dagli spalti, unisce un’intera comunità che nel tentativo di resistere e non scomparire si aggrappa a Thomas e compagni.

Anche i giovanissimi fans dei Pistons vengono contagiati dal grido di battaglia

La scena musicale della città rispecchia i mutamenti in corso: dal soul tutto colore e armonie della Motown si è passati agli anni ‘70 del rock nato nei garage, rumoroso e disturbante. Gente come MC5, Iggy & The Stooges e Alice Cooper è partita da Detroit alla conquista dell’America e non solo; i Kiss, iconica band tra le più amate all’epoca, ne celebrano lo status con un pezzo che diventerà un classico nel loro sterminato repertorio. Non sarà più la città dei motori, ma il cuore di Detroit pulsa ancora e non ha intenzione di fermarsi.

Newyorkesi d.o.c., Gene Simmons e soci non sanno resistere al fascino della decadente Motor City

Sul versante del campo i risultati cominciano ad arrivare: nel 1987 la squadra raggiunge la finale di conference, ma sbatte contro il monolite biancoverde innalzato da Bird e McHale. Se c’è una dote che non manca a questi Pistons, però, è la testarda convinzione nei propri mezzi: il declino dei Celtics si manifesta durante la stagione successiva e i ragazzi di Chuck Daly si fanno trovare pronti. Buttare fuori Boston equivarrebbe a una liberazione. Che arriva, puntuale, con la vittoria in Gara-6 e l’approdo alle Finals.

Dall’altra parte ci sono i Lakers campioni in carica, una sceneggiatura che sembra scritta a tavolino: il glamour californiano tutto vittorie & sorrisi contro l’ostinata concretezza della classe lavoratrice del Michigan. Ancor più dei Celtics, Isiah Thomas e compagni sono l’antitesi dello Showtime di casa Riley: non c’è niente di spettacolare nel loro stile di gioco, più che un’esibizione di eleganza e tecnica le partite dei Pistons sono un misto di kung fu e basket da strada. La rivoluzione dei Bad Boys non è un pranzo di gala.

Quella con i campioni in carica si presenta come una guerra asimmetrica e Detroit non nasconde l’intenzione di usare tattiche poco convenzionali. Il confronto è subito molto fisico e i Lakers, dopo essere stati sotto 3-2, vincono d’un soffio le decisive gare 6 e 7. Thomas, nonostante un pesante infortunio alla caviglia patito nella penultima gara della serie, si dimostra all’altezza del confronto con il miglior giocatore della lega, Magic Johnson. Chuck Daly abbandona il Forum di Inglewood con parecchi rimpianti, ma anche con la convinzione che manchi davvero poco per salire sull’ultimo gradino, quello più alto.

La stagione successiva i Pistons dominano la Eastern Conference, Boston non è più un ostacolo insormontabile e viene spazzata via al primo turno dei playoff. Il vero test verso le Finals ora è un altro: ha la maglia numero 23 e aspira a dominare la lega. La serie coi Bulls inaugura una delle rivalità più incandescenti nella storia del gioco: la maestria difensiva dei Pistons, all’uopo tradotta nelle celeberrime Jordan Rules, contiene il fuoriclasse di Chicago regalando ai Bad Boys l’agognata rivincita con i Lakers.

Le finali del 1989 sono una dimostrazione di superiorità tecnica, fisica ed emotiva. A Riley mancano Magic e Byron Scott, i ragazzi di Daly invece si tuffano su ogni pallone. Concedono agli avversari una media di 93 punti a partita, la più bassa dall’introduzione dei 24 secondi per azione nel 1954. Finisce 4-0 e la parata sul Riverfront rovescia trent’anni di amarezze, sportive e non.

L'ubriachezza molesta del dopo trionfo, Laimbeer ne è l'indiscusso MVP

Quattro mesi più tardi i Pistons si ripresentano in campo per inaugurare la stagione 1989-90 e appare da subito chiaro a tutti che la fame di vittorie non è stata saziata dalla pur memorabile lezione inflitta ai Lakers. Detroit amministra la regular season senza grandi problemi e chiude nuovamente al primo posto nella classifica a Est. I primi due turni di playoff sono poco più di una formalità, ma sulla strada che porta verso l’atto finale c’è ancora Chicago.

La serie è una replica di quella andata in onda dodici mesi prima, solo che i Bulls sono ulteriormente migliorati. Eppure, ancora una volta, le Jordan Rules hanno la meglio e Detroit si aggiudica la serie alla settima partita. Si va nuovamente alle Finals e questa volta di fronte ci sono i Trail Blazers di Clyde Drexler e Terry Porter, squadra in vorticosa ascesa e pretendente al ruolo di leader nell’ovest del dopo Lakers. Portland è un osso duro, le cinque partite registrano scarti minimi, ma alla fine sono ancora i Pistons a prevalere. Il canestro della vittoria lo segna Vinnie Johnson.

“The Microwave”, il microonde, sesto uomo in grado di prendersi il tiro decisivo

La sfilata per le strade di Detroit è di quelle che verranno ricordate per decenni: la soddisfazione di essersi laureati nuovamente campioni è amplificata dall’aver conseguito il repeat, impresa riuscita nell’epoca moderna solo agli acerrimi rivali gialloviola.

Uscita di scena

In linea con l’attitudine provocatoria che ne ha contraddistinto l’epopea, l’uscita di scena dei Bad Boys è costellata da polemiche. Sconfitti con un eloquente 4-0 dai Bulls nelle finali della Eastern Conference, anziché ammettere sportivamente la sconfitta e passare lo scettro ai ragazzi di Phil Jackson, Thomas e compagni abbandonano il campo quando sul cronometro di Gara-4 ci sono ancora 7,9 secondi.

Per una squadra che ha fatto del politicamente scorretto, dentro e fuori dal campo, la propria raison d’étre è un epilogo pressoché perfetto. Quei passi che accompagnano fino al tunnel verso gli spogliatoi i Pistons, sommersi dagli applausi del proprio pubblico, rappresentano la conclusione di un ciclo forse irripetibile, non solamente per motivi positivi.

Solo Dumars e Salley si preoccupano di rendere omaggio ai nuovi campioni della Eastern

Intermezzo

Il tentativo di restare ai vertici della lega, ormai saldamente sotto la sovranità di Jordan, e al contempo praticare un necessario ricambio generazionale risulta sterile. I tifosi dotati di memoria storica rivivono un periodo simile a quello precedente l’avvento dei Bad Boys: sfortuna, cattive scelte, cambi in panchina repentini. Chuck Daly abbandona quasi subito, di talenti ne passano, da Grant Hill a Jerry Stackhouse, ma la squadra non riesce a elevarsi dalla mediocrità in cui è piombata dopo il ritiro del lìder màximo Isiah Thomas, avvenuto nel 1994.

Ancora una volta, la città sembra andare di pari passo con la storia della squadra, o viceversa. Per Detroit sono anni di stagnazione, il ricordo di Motor City è ormai lontano e la città fatica a reinventarsi in anni che per altre parti del paese sono molto floride. L’abbandono dell’area urbana procede inesorabile, a qualcuno sembra che la città abbia toccato il fondo. Purtroppo non sarà così.

Bad Boys II

Come già successo a inizio anni ‘80, la storia della franchigia cambia con una scelta al Draft. Solo che questa volta è una delle più assurde di sempre.

Per la verità, il lavoro che Joe Dumars ha cominciato tre anni prima è già a buon punto: con l’ex-bandiera nelle vesti di general manager e sotto la guida di coach Rick Carlisle, i Pistons sono reduci da due ottime stagioni che sono valse rispettivamente secondo e primo posto nella Eastern. Tuttavia la secca eliminazione subita dai Nets nella finale di conference ha finito per scrivere la parola fine al tormentato rapporto Dumars e Carlisle perché quest’ultimo decide di accettare l’offerta dei Pacers, aprendo così la strada all’ingaggio dell’esperto ma irascibile Larry Brown.

Il Draft del 2003, secondo gli addetti ai lavori, è tra i più interessanti di sempre. La prima scelta assoluta la detiene Cleveland e non sussistono dubbi che verrà usata per accaparrarsi LeBron James, prodotto dell’Ohio, giocatore di high school più chiacchierato di sempre e destinato a cambiare la storia dei Cavs e della NBA intera.

La posizione numero 2 è comunque ottima e permette di pescare il miglior giocatore disponibile alle spalle dello scherzo della natura da Akron. Dumars, fin lì dimostratosi dirigente dalle notevoli abilità, la spende per portarsi a casa Darko Milicic, preferito a Carmelo Anthony, Chris Bosh e Dwyane Wade. A posteriori si rivelerà una scelta insensata, anche se occorre ricordare che all’epoca Milicic — fisico bestiale coniugato a una facilità di pallacanestro non comune — aveva destato l’interesse di parecchie altre franchigie. Tolta la patina da “europeo intrigante”, però, il lungo serbo si dimostra da subito inadatto al livello di comprensione del gioco, e verrebbe da dire della vita in generale, richiesto dagli standard NBA.

Ciò nonostante la stagione dei Pistons prosegue sui livelli delle precedenti, eppure Dumars ha la sensazione che per andare oltre e tornare sul grande palcoscenico delle Finals manchi qualcosa, un singolo in grado di garantire quelle improvvisazioni fuori dallo spartito, così necessarie quando si entrerà nella zona rovente dei playoff. A febbraio arriva da Portland, via una storica partita ad Atlanta, Rasheed Wallace — talento tra i più controversi degli ultimi anni, giocatore e personaggio che meriterebbe un profilo tutto suo. Quello di Dumars è un azzardo e sono in molti a manifestare forti perplessità: le probabilità di collisione tra la rigida visione del basket di coach Brown (“play the right way”) e la conclamata mercurialità dell’ex-Tar Heel appaiono alte.

Invece la scommessa si rivela più che azzeccata: i Pistons applicano una furia difensiva che genera inevitabili paragoni con i Bad Boys, inoltre possono contare sull’estro dell’ultimo innesto, sulla solidità di Big Ben Wallace sotto canestro, sulle uscite a ricciolo di Rip Hamilton, sulla giovinezza di Tayshaun Prince e sulla leadership carismatica di Chauncey Billups, che formano uno dei quintetti più vincenti e completi degli ultimi 20 anni di basket NBA. Detroit chiude al terzo posto la regular season e procede in una cavalcata epica che porta alle Finals, raggiunte dopo quattordici anni di assenza. Ad aspettarli ci sono i rivali di sempre: si va a Hollywood.

Una volta arrivati lì, però, il percorso sembra terminato. Di fronte hanno i Lakers di Shaq & Kobe, reduci dalla delusione patita per mano di San Antonio l’anno precedente e rinforzati dagli ingaggi di Gary Payton e Karl Malone, leggende alla disperata ricerca di quell’anello sfuggitogli negli anni migliori delle loro strepitose carriere. Sulla carta non c’è storia, il campo dice qualcosa di ben diverso.

I Lakers, divorati dai contrasti interni, crollano sotto i colpi di una Detroit sempre più padrona del proprio destino. Kobe riesce a portare a casa una sola vittoria, al supplementare, in Gara-2. I Pistons, ancora una volta feroci in difesa e chirurgici nell’esporre tutte le crepe del castello gialloviola, trionfano 4-1 in uno dei più clamorosi upset nella storia della NBA. Billups è eletto MVP e coach Brown, sconfitto dai Lakers quando sedeva sul pino dei Sixers nel 2001, assapora una dolcissima rivincita.

I Pistons di Chauncey & Sheed, una delle pochissime squadre in grado di far perdere lo zen a Coach Zen

Anche in questo caso la città sembra seguire le orme della squadra. Assodata la fattiva impossibilità di tornare ai fasti industriali del secolo precedente, ci si focalizza sulla rivitalizzazione del Riverfront nella speranza che la città possa cambiare pelle per rimanere viva. E se i Pistons campioni del 2004, la cui cifra stilistica è il gioco di squadra e l’assenza di una vera stella, rappresentano un caso più unico che raro nell’epoca di Iverson, Kobe e Shaq, anche la scena musicale cittadina genera un fenomeno simile. L’82% della popolazione urbana è di colore, una delle percentuali più alte del paese. Da tale contesto emerge il nuovo re mida dell’hip hop degli anni zero. Niente di strano, parrebbe: la connessione tra il genere e la cultura afro-americana è conclamata. Peccato che il soggetto in questione presenti origini anglosassoni e germaniche in parti uguali e abbia la pelle bianca come la neve.

Il rapporto tormentato eppure ombelicale con la città viene raccontato da Eminem nel film 8mile. Quando i Pistons vincono il loro terzo, inaspettato titolo, è questa la musica che risuona per le vie di Detroit.

8mile, ovvero la strada che storicamente divide la parte benestante della città dal ghetto

L’anno successivo si torna in finale, ma questa volta di fronte ci sono gli Spurs. È una battaglia fisica e tattica senza esclusione di colpi che piace parecchio ai cultori del gioco e un po’ meno al pubblico televisivo, visto che in televisione si registrano i peggiori rating del post-Jordan. L’equilibrio regna sovrano quando la tripla di Horry decide così Gara-5 in quel di Detroit.

Big Shot Rob, non proprio nuovo a colpi del genere

La serie sembra segnata ma i Pistons, a dimostrazione di una forza interiore con pochi eguali, rimontano in Gara-6 all’AT&T Center mandando la serie alla settima e decisiva partita. E pur giocando alla morte anche quella, devono infine soccombere al regale Tim Duncan che, con una doppia doppia da 25 e 11, porta a casa il suo terzo anello e l’altrettanto inevitabile terzo titolo di MVP delle finali, con robusto contributo di Manu Ginobili, MVP ombra della serie.

Sempre sulle spalle di quel quintetto i Pistons, passati nel frattempo dalla gestione Brown a quella di Flip Saunders, raggiungono le finali di conference per i successivi tre anni consecutivi, senza però riuscire ad andare oltre la Miami di Shaq & Wade, la Cleveland di LeBron James e i Celtics di Pierce-Garnett-Allen.

Dumars, saldo al comando della franchigia, decide che è giunta l’ora di rinnovare. Il processo però si rivela complicato e, un po’ come successo dopo il primo ciclo dei Bad Boys, costellato da scelte sbagliate e parecchia cattiva sorte. Dal Palace Of Auburn Hills passano Villanueva, Gordon, Iverson, McGrady, Knight, Jennings e Monroe. Cambiano allenatori e roster ma i risultati sono pessimi e i playoff restano un miraggio. Se i Pistons se la passano male, a Detroit va decisamente peggio.

Bancarotta e Apocalisse

Già in difficoltà e mai pienamente ripresasi dall’abbandono dell’industria automobilistica, nel 2008 Detroit sprofonda sotto il peso della crisi più devastante che l’America ricordi dai tempi della Grande Depressione. Gli anni che seguono sono teatro di uno stillicidio costante e inesorabile: gli abitanti toccano il minimo storico nel 2012 (700.000, meno della metà dei quasi 2 milioni sfiorati in pieno boom nel secondo dopo guerra) e lo stato disastrato delle finanze porterà la città a dichiarare bancarotta nel luglio 2013.

La municipalità non è più in grado di garantire i servizi essenziali, tantomeno può permettersi di alimentare il fondo che provvede al pagamento delle pensioni di ex-poliziotti, vigili del fuoco e impiegati del servizio pubblico in genere. Più del 50% degli edifici della città risulta in stato di abbandono e ormai prossimo alla fatiscenza: delle 88.000 luci sulle strade solo 35.000 funzionano, il tasso di criminalità schizza alle stelle. In termini di disastro, i paragoni oscillano tra la New Orleans del dopo Katrina e la Berlino del 1945. Se è mai esistita una versione concreta di Gotham City, è Detroit a fine anni 2000.

Proprio nell’ora più buia, come nel fumetto di Bob Kane, compare un uomo che promette di salvare la città. Siccome siamo pur sempre nel mondo reale, non indossa un costume da pipistrello bensì completi eleganti e cravatte monocromo. Dan Gilbert è un hometown boy, nato e cresciuto nell’area metropolitana di Detroit. Grazie al fiuto per gli affari, in particolare nel campo dei prestiti e mutui, ha accumulato un’enorme fortuna. È anche proprietario di una franchigia NBA, ma non quella della sua città natale. Nel marzo 2005 ha infatti acquistato i Cleveland Cavaliers di LeBron James.

Nel 2010, a dispetto dell’evidente catastrofe in corso, Gilbert decide di puntare sulla rinascita della città. Sposta nel centro di Detroit la sede operativa della sua società principale, la Quicken Loans (marchio che fornisce il nome all’arena in cui giocano i Cavs). Il trasloco comporta che 12.000 dipendenti vengano riallocati nella nuova sede, con intuibili ricadute positive sulla rivalutazione dell’area circostante. È il primo passo di un progetto molto più ampio ribattezzato Opportunity Detroit.

Mr. Quicken Loans acquista immense porzioni immobiliari con l’intenzione concreta di riportare la città agli antichi fasti. Gli investimenti sono massicci: a fine 2015 la stima complessiva si aggira intorno a 1,5 miliardi di dollari. Per rendere l’idea, il budget annuo di spesa previsto dal comune di Detroit nell’ultimo esercizio effettivo prima del default si assestava abbondantemente sotto il miliardo.

Gilbert non si limita a comprare, demolire e riqualificare buona parte del tessuto urbano. Occupa senza indugio il vuoto lasciato dalle istituzioni fornendo un corpo di vigilanza, impianti d’illuminazione delle aree pubbliche e varando un ambizioso progetto di ristrutturazione del sistema di trasporto ferroviario cittadino. L’operazione di rinascita della città, finanziata completamente da privati, non ha precedenti e scatena un acceso dibattito tra scettici e convinti ottimisti. Ad ogni modo tutti concordano su un punto: dopo anni di cupa agonia, Detroit sembra essere tornata a guardare al futuro. Di riflesso, ovviamente, hanno cominciato a farlo anche i Pistons.

Bad Boys 3.0

Nel maggio 2014, dopo l’ennesima stagione fallimentare e le conseguenti dimissioni di Dumars, i Pistons ingaggiano Stan Van Gundy con un sontuoso contratto da 35 milioni di dollari per 5 anni, assegnandogli di fatto il completo controllo dell’area tecnica.

Il più giovane dei fratelli Van Gundy porta con sé un bagaglio d’esperienza ventennale nella lega, oltre all’intima voglia di riscatto dopo aver solo sfiorato la gloria tra Miami e Orlando. Stan è però innanzitutto un appassionato studioso del gioco e nei due anni di inattività non ha smesso di prendere appunti. L’evoluzione tecnica e tattica intrapresa da gran parte della lega ha rafforzato alcune sue convinzioni, modificandone altre. La parola d’ordine è versatilità e sul mercato vengono privilegiati giocatori in grado di ricoprire più ruoli. Ai nuovi arrivati, così come a chi era già sotto contratto, viene chiesto di creare volume di gioco, spingere sull’acceleratore, toccare più palloni possibili. Senza timore di commettere errori o evidenziare sbavature.

Come per il più in vista dei musicisti partoriti dalla città nell’ultimo decennio, la poliedricità è un requisito necessario, la prolificità traccia il cammino verso l’affermazione. Parola e musica di Jack White.

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In controtendenza con la storia della franchigia, i ruoli sono chiari: se Stan Van Gundy è l’architetto incaricato di ricostruire i Pistons, la pietra angolare su cui poggiano le fondamenta della squadra ha un nome e cognome: Andre Drummond.

Il roster viene completamente stravolto nel giro di due stagioni, a rimanere saldo al centro del pitturato e del progetto targato Van Gundy è proprio l’ex-UConn. Scelto alla 9 nel Draft del 2012, in pochi pensano che quel corpo scolpito nel granito possa sul serio diventare un franchise player. Drummond è materiale grezzo come pochi e dimostra da subito un’etica del lavoro quantomeno perfettibile. Le lunghe sessioni estive in palestra, unite al continuo monitoraggio comportamentale da parte dello staff dei Pistons, lo portano comunque a migliorare le proprie statistiche di stagione in stagione. Certo, il bagaglio tecnico è ancora modesto e i liberi rappresentano un problema irrisolto, ma il numero 0, atleta irreale e macchina da doppie doppie, è ormai in tutto e per tutto un All-Star. E, cosa che non guasta, possiede anche un discreto swag.

Intorno a lui Van Gundy ha costruito un gruppo composto da “rinnegati” come Reggie Jackson, Marcus Morris e Tobias Harris, prospetti che sarebbero dovuti sbocciare altrove ma hanno preferito o sono stati costretti a cambiare aria. Il talento non manca e, vista l’incertezza che caratterizza una Eastern in prospettiva senza padrone assoluto, lo spazio di crescita appare ampio. Il ritorno alla post season dopo sei anni d’assenza è stato vissuto come il primo passo di un percorso che ci si augura lungo e lastricato di successi, pur venendo eliminati in quattro partite dai Cavs di Dan Gilbert e LeBron James.

I Pistons sono tornati e dal coach, al giocatore franchigia, agli altri protagonisti in campo il tratto comune sembra essere il desiderio di riemergere e riscattare gli errori e le amarezze del passato recente. È un propellente che da quelle parti conoscono piuttosto bene: la speranza è che inneschi la stessa scintilla che ha illuminato i momenti più fulgidi della storia sportiva di Detroit.

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