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Stiamo chiedendo il boicottaggio di Israele alle persone sbagliate
08 set 2025
Un argomento sollevato dal doppio confronto della Nazionale contro Israele nelle qualificazioni ai Mondiali.
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12 min
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IMAGO / NurPhoto
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La questione, in Italia, è cominciata lo scorso 12 agosto, quando Mauro Berruto, responsabile per lo sport della segreteria nazionale del Partito Democratico, ha pubblicato una petizione per “sospendere Israele da tutte le competizioni sportive internazionali”. I motivi per fare una richiesta simile erano ben più vecchi di un mese scarso come purtroppo sappiamo, ma a quel punto era nata un’occasione politica - chiamiamola così: le due partite che l’Italia avrebbe dovuto giocare proprio contro la Nazionale israeliana nell’ambito delle qualificazioni europee ai Mondiali del 2026.

Una di queste due partite si giocherà quasi a sorpresa proprio stasera, sul campo neutro di Debrecen, in Ungheria. Dico a sorpresa perché in Italia si è parlato quasi solo del ritorno (che si gioca il 14 ottobre a Udine) e sembra interessare poco che un Paese membro dell’Unione Europea, di cui facciamo parte anche noi, conceda questa possibilità a una Nazionale che si ha l’intenzione di boicottare (e non è nemmeno una novità, dato che anche le squadre israeliane per le gare casalinghe delle coppe europee giocano ormai molto spesso in Ungheria).

Per dire, nella conferenza stampa pre-partita di Gennaro Gattuso in vista della partita tra Italia ed Estonia, la domanda sull’opportunità o meno di giocare contro Israele è sorta solo perché a chiedere di rimandare la partita di ritorno è stato per l’appunto il sindaco di Udine, Alberto Felice De Toni. Forse lo ricorderete. È lo stesso sindaco che meno di un anno fa aveva proposto di togliere il patrocinio della città a un’altra Italia-Israele giocata a Udine, quella volta di Nations League, scatenando grandi polemiche che oggi ci sembrano venire da un’altra epoca. Oggi De Toni vorrebbe che quella partita non si giocasse, o almeno non si giocasse adesso, perché «non ci sono le condizioni per una festa dello sport quale dev’essere una partita della Nazionale», e le reazioni hanno di molto abbassato il volume, segno che in meno di un anno il clima intorno a quest’argomento è cambiato molto.

Per la stessa ragione, sempre più persone oggi si aspettano dalla Nazionale italiana un segno a favore della causa palestinese, e anche da qui nascono queste domande che fanno sudare gli allenatori e i giocatori, costringendoli a giri di parole che a rileggerli suonano un po’ assurdi. Di fronte alla richiesta del sindaco di Udine, per esempio, Gattuso si è definito «un uomo di pace» colpito nel «vedere bambini e civili colpiti e uccisi» ma allo stesso tempo ha detto che con Israele, il cui esercito ha colpito e ucciso quei civili, «ci dobbiamo giocare» perché «ce l’abbiamo nel girone».

Il CT della Nazionale, nella conferenza pre-partita della sfida contro Israele poche ore fa, ha avuto un lapsus significativo di quanto il mondo del calcio sia in imbarazzo in questi momenti in cui più si richiede che prenda parola, dichiarando che «abbiamo la sfortuna di avere Israele nel girone e giustamente dobbiamo dire quello che pensiamo», senza però dire come la pensa. Gianluca Mancini, allo stesso modo, ha detto di immedesimarsi «in quei genitori che prendono i loro figli in braccio» ma anche che «dobbiamo adattarci a quello che ci viene detto dalle componenti più in alto di noi».

Sono risposte che certo non esalteranno chi si aspettava una presa di posizione netta e chiara, ma che alla fine, nel loro pragmatismo un po’ tristemente fantozziano, sono comprensibili. Alla Nazionale italiana - cioè ai suoi giocatori e al suo allenatore - è infatti chiesto di non scendere in campo, o di esprimersi in maniera forte sull’argomento, esattamente nello stesso momento in cui tutti i vertici politici dello sport (e non solo) del nostro Paese hanno già detto chiaramente che questa opzione, per l’Italia, non esiste. Lo ha detto il ministro dello sport, Andrea Abodi («Sarebbe un errore vederla dal punto di vista della contrapposizione»); lo ha detto il presidente del CONI, cioè il comitato olimpico italiano, Luciano Buonfiglio («Se l'Italia non giocasse saremmo sanzionati e saremmo esclusi dalla partecipazione alle qualificazioni e non mi sembra giusto»); lo ha detto il vicepremier, Matteo Salvini («Sarebbe un errore aumentare il clima di odio e divisione»); lo ha sostenuto implicitamente, diciamo così, anche il presidente della FIGC, la federazione italiana di calcio, Gabriele Gravina, che a quanto pare sta lavorando per devolvere l’incasso della partita alla fondazione della UEFA per i bambini - la stessa che la UEFA ha utilizzato per mandare un blando messaggio a favore della Palestina prima della Supercoppa Europea - ammettendo quindi che non c’è altra strada che giocare la partita.

L’eventuale decisione di Gattuso o di Mancini e dei suoi compagni sarebbe quindi un gesto di rottura nei confronti delle istituzioni italiane ancora prima che nei confronti di quelle israeliane, e questo è un aspetto da ricordare in un Paese in cui si è stranamente esigenti nei confronti dei singoli cittadini e accuratamente miopi nei confronti del contesto politico all’interno del quale si muovono. Tra l’altro, come ha notato lo storico dello sport Nicola Sbetti, quando questo gesto è arrivato dalla Nazionale femminile durante gli ultimi Europei, in maniera del tutto spontanea e fuori da logiche istituzionali, è caduto praticamente nel vuoto. Il calcio femminile non ha la risonanza mediatica di quello maschile, e il messaggio era sufficientemente vago da non alzare troppo la polvere, ma nel contesto attuale il suo riferimento era piuttosto chiaro. Eppure…

Il fatto è che la situazione è talmente grave e polarizzata che probabilmente gran parte del pubblico considererebbe un semplice gesto simbolico, qualsiasi gesto simbolico, troppo poco - e questo anche è comprensibile, sia da un punto di vista morale, in relazione a quello che sta succedendo a Gaza e in Cisgiordania, la cui gravità sta diventando talmente profonda da essere persino difficile da descrivere; sia in termini pratici, in relazione a una sua efficacia nell’isolare Israele, nella speranza che questo possa contribuire a fermare i massacri. Per quello, per l’appunto, servirebbe la volontà e l’attività politica delle istituzioni italiane, a cui si rivolgeva la petizione promossa da Mauro Berruto (che tristemente in un mese scarso non è nemmeno riuscita ad arrivare all’obiettivo minimo di 25.132 firme, cioè la capienza dello stadio di Udine) e a cui si sono rivolti anche gli allenatori di calcio italiani, rappresentati dall’AIAC, secondo cui sarebbe “legittimo, necessario, anzi, doveroso porre al centro del dibattito federale la richiesta, da proporre a UEFA e FIFA, dell’esclusione temporanea di Israele dalle competizioni sportive”.

Proprio sul ruolo di UEFA e FIFA c’è da discutere. Le organizzazioni guidate da Aleksandr Ceferin e Gianni Infantino hanno una loro responsabilità nell’inerzia politica del mondo dello sport, e nemmeno piccola. La FIFA, soprattutto, continua a rimandare il voto dell’assemblea sulla mozione per la sospensione della federazione israeliana presentata quasi un anno e mezzo fa da quella palestinese, e questo non permette nemmeno che il dibattito venga sollevato nell’unica sede in cui potrebbe avere un peso di qualche tipo. Infantino, poi, è molto vicino a Donald Trump, che è vicino ad Israele persino per gli standard di un presidente statunitense, e questo non può non contare. Anche la UEFA, che come detto è sembrata solo leggermente più sensibile alla questione, ha le sue ipocrisie da nascondere: solo quattro mesi fa, a grande maggioranza, ha eletto nel suo comitato esecutivo il presidente della federazione israeliana di calcio, Moshe Zuares, e nel contesto attuale non può essere considerata una mossa neutra. Zuares, però, è stato eletto dalle federazioni nazionali che compongono la UEFA (per 31 voti su 55 totali), che spesso si fanno scudo della sua pessima reputazione tra i tifosi per nascondere la propria, d’inerzia. Lo ha fatto, per esempio, il presidente del CONI, Luciano Buonfiglio, per giustificare il mancato boicottaggio di Italia-Israele. «L’Italia fa parte della UEFA e il CONI appartiene al CIO», ha detto Buonfiglio, «Il CIO in occasione della guerra tra Russia e Ucraina ha preso delle decisioni, in questo caso no».

Come ha ricordato Nicola Sbetti su queste pagine, però, organizzazioni come UEFA, FIFA e CIO non hanno nessun interesse a sospendere di loro iniziativa i propri membri, non solo per una questione di opportunità politica, ma anche (e forse soprattutto) per difendere quell’universalismo che è alla base del loro funzionamento. Ciò che fa la differenza in questi casi è la volontà politica delle federazioni nazionali e dei comitati olimpici, e lo ha ricordato in maniera sorprendentemente onesta lo stesso Aleksandr Ceferin pochi giorni fa, in un’intervista concessa a Politico in cui si è detto contrario all’esclusione delle federazioni - di qualsiasi federazione - e quindi degli atleti. La domanda in questi casi è sempre la stessa: perché allora la Russia è stata sospesa poche settimane dopo la sua invasione dell’Ucraina? «Per la situazione con la Russia e l’Ucraina c’è stata una pressione politica fortissima», ha detto Ceferin. «Adesso [con Israele, nda] la pressione viene più dalla società civile che dalla politica - i politici, quando si tratta di guerre e vittime, sono ovviamente molto pragmatici».

Insomma scaricare completamente sulla UEFA, sulla FIFA o sul CIO l’inerzia dello sport nei confronti delle atrocità commesse dall’esercito israeliano nasconde un’ingenuità a cui è difficile credere se proviene da chi occupa posizioni così di rilievo in quel mondo. Questo non significa che l’Italia potrebbe, da sola, anche con un’attività diplomatica brillante, escludere Israele dalle competizioni sportive o addirittura fermare i massacri a Gaza, ma è certo che per adesso la volontà anche solo di farla partire, questa attività diplomatica, non esiste proprio - anzi esiste una volontà abbastanza chiara di nascondere quella pressione della società civile di cui parla Ceferin che, in assenza di altro, è il massimo che ci possiamo permettere. Questo credo dovrebbe interessarci di più, da cittadini, di un pugno alzato da Gennaro Gattuso.

La volontà politica delle istituzioni conta: so che può suonare come una banalità, ma su questo argomento i Paesi europei, Italia per prima, si sono spesso rifugiati in un’alzata di spalle, come se non avessero potere, o ancora peggio, una responsabilità in tutta questa faccenda. Che non sia cosa scontata lo abbiamo visto in questi ultimi giorni di Vuelta, l’ultimo dei grandi giri del ciclismo che si sta correndo in Spagna, dove la pressione della società civile ha trovato una sponda in un governo molto più schierato sulla questione come quello di Madrid.

Se seguite il ciclismo, ma forse anche se non lo seguite, vi sarà arrivata notizia delle manifestazioni a favore della Palestina prima a Figueres, in Catalogna alla fine di agosto, quando alcuni manifestanti hanno rallentato la cronometro; poi a Larra-Belagua, in Navarra; e poi quelle ancora più grosse a Bilbao, nei Paesi Baschi - talmente grosse da aver addirittura costretto l’organizzazione a sospendere la tappa a tre chilometri dall’arrivo. Ciò che è interessante di queste manifestazioni è che, nonostante abbiano come oggetto del contendere la presenza della Israel-Premier Tech - la squadra di ciclismo che corre con i simboli dello stato di Israele e si prefigge di promuovere il ciclismo e l'immagine di questo Paese - in realtà si rivolge alla stessa Vuelta, accusata di aver accolto la Israel-Premier Tech nella corsa. La grande maggioranza dei manifestanti, insomma, chiedeva e chiede ancora il boicottaggio della Vuelta ancora prima che della Israel-Premier Tech. Per tornare alla storia che apre questo articolo: è come se nel nostro Paese ci fosse un movimento per boicottare la Nazionale perché gioca contro Israele. Effettivamente, se ci pensate, non avrebbe più senso?

Uno dei volantini dei manifestanti per la causa palestinese durante la Vuelta.

È un discorso ovviamente più complicato di così, che è difficile riassumere qui in pochi paragrafi. In realtà per le regole UCI la Israel-Premier Tech rientrava nella Vuelta di diritto, eppure le manifestazioni e le proteste a favore della Palestina sono state talmente grandi e veementi che a un certo punto la sua presenza è diventata comunque un problema. Non era certo la prima volta che la Israel-Premier Tech correva un grande giro quest’anno e non si può certo dire che a luglio, quando si è corso il Tour, e a maggio, quando si è corso il Giro, la situazione in Palestina fosse meno grave di adesso. Cos’è cambiato allora? Anche qui in poche righe è difficile rispondere. C’entra il retroterra politico della Catalogna e soprattutto dei Paesi Baschi; magari avrà pesato anche la partenza molto partecipata da Barcellona della Global Sumud Flotilla praticamente negli stessi giorni. Ciò che ha fatto la differenza, però, credo sia stata la pressione che hanno messo sull’organizzazione della Vuelta le stesse istituzioni spagnole, forse le più schierate in Europa sulla questione palestinese. Per dire, è stato lo stesso governo spagnolo, attraverso la ministra della gioventù, Sira Rego, a chiedere all’organizzazione della Vuelta di riconsiderare la partecipazione della Israel-Premier Tech, e a dirsi a favore della sua espulsione si è esposto addirittura il ministro degli esteri, José Manuel Albares (che ha parlato dell’importanza di «mandare un messaggio»).

La Vuelta, tra due fuochi, ha cercato di chiedere alla Israel-Premier Tech di ritirarsi di sua volontà riuscendo però solo ad ottenere l’eliminazione del nome ufficiale della squadra dalla sua maglia. Lascio a voi le valutazioni etiche di questa cosa, di certo rimane un momento di svolta per il soft power israeliano, che persino in Europa sembra ormai portare più problemi che opportunità. La “resistenza” della Israel-Premier Tech è stata comunque elogiata dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che con un tweet si è detto orgoglioso della squadra “per non aver ceduto all’odio e all’intimidazione”.

Se seguite il ciclismo probabilmente già conoscete il Sylvan citato nel tweet. Si tratta di Sylvan Adams, miliardario canadese di origini ebraiche che è dietro alla Israel-Premier Tech, appassionato di ciclismo e grande amico di Netanyahu. Tre giorni fa aveva definito la notizia dell’eliminazione del nome della Israel-Premier Tech una «fake news» e i manifestanti per la causa palestinese «un gruppo di terroristi».

Sylvan Adams è piuttosto noto anche nel nostro Paese. È stato infatti l’ideatore e il principale finanziatore della partenza del Giro d’Italia da Gerusalemme nel 2018 - la prima del Giro fuori dai confini dell’Europa - e per questa ragione è stato nominato presidente onorario di quella edizione. Come dire: differenze.

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