
Da un paio di decenni l’Inter è probabilmente la squadra italiana che incarna al meglio una certa sensazione di crepuscolo calcistico. Questo è merito dei suoi cicli vincenti realizzati da squadre dall’età media avanzata, dei suoi trionfi accompagnati da un’aria di fine impero, delle fughe spettacolari dei condottieri con le coppe in mano (da Mourinho a Conte), delle periodiche ricadute in lunghe fasi di bassa competitività.
Questa percezione è diventata praticamente quotidiana nel periodo post-pandemico, in cui la società Inter si è trovata in una sorta di tempesta perfetta a livello economico e finanziario, tra problemi di sostenibilità interna e la sostanziale assenza dell’azionista di maggioranza, il colosso cinese Suning, alle prese con una crisi interna quasi irreversibile. In tutto ciò è emersa la figura di Beppe Marotta, chiamato da Steven Zhang per «schiacciare tutti quanti, sia in campo che fuori», e poi riciclatosi come paziente timoniere per condurre in qualche modo la nave al porto. Ma sicuramente il volto mediatico di questo periodo è stato quello di Simone Inzaghi, con la sua espressione che oscillava tra il preoccupato e il “demoniaco”.
Sabato sera abbiamo assistito a un ultimo e particolarmente fragoroso capitolo di questa saga. L’Inter si è presentata a Monaco di Baviera per la seconda finale di Champions League in tre anni, dopo una settimana in cui sui giornali si è parlato soprattutto di una possibile fuga dorata in Arabia del suo allenatore, e con il terzo undici titolare più anziano nell’ultimo atto della storia di questa competizione. La sua tifoseria organizzata è arrivata smembrata e sostanzialmente in sciopero, al termine di una stagione in cui è diventata oggetto di una inchiesta giudiziaria inquietante, che l’ha mutilata e ci ha fatto chiedere quale forma potranno e dovranno prendere le curve in Italia per sopravvivere nella legalità, senza dissolversi in una triste gentrificazione.
L’Inter ha poi giocato la sua cinquantanovesima (ma non ultima!) partita stagionale ed è stata completamente divelta da una squadra giovane, brillante, che sembra volersi mangiare il futuro, accompagnata da una tifoseria rumorosa e spettacolare. Tutto il contrario di quello che emanano la squadra e l’ambiente nerazzurro da settimane, se non mesi. Ne è uscito il più grande scarto di punteggio in una finale internazionale di sempre, al termine di una stagione in cui la squadra è stata in lotta per vincere tutto, ma non ha raccolto alcun trofeo.
Le riflessioni sul passato e sul futuro erano già iniziate da un po’ e ora ovviamente sono diventate impellenti. Vale la pena provare a fare un po’ di ordine.
L’EQUIVOCO DEL CICLO DI INZAGHI
Quest’anno per battere l’Inter in campionato Antonio Conte ha utilizzato a ogni strumento possibile, a partire da quelli dialettici. C’è una frase con cui ha innervosito particolarmente Inzaghi e non solo: «l’Inter è stata costruita per vincere tutto». Sono convinto che quella affermazione abbia colpito più duro di quanto non facciano le frasi da allenatore italiano che vuole mettere pressioni a un rivale parlando in modo dozzinale di calciomercato e milioni.
Quanto c’è di vero nel dire che l’Inter è stata costruita per vincere? E qual è il vero senso e il vero scopo di queste vittorie, in un contesto come quello del calcio italiano, alle prese con una lunga e difficile transizione tra il vecchio mecenatismo (a volte al limite della propaganda) e la famosa sostenibilità, vale a dire il funzionamento di un’industria autosufficiente?
Ora, sul retaggio e sul significato del ciclo di Inzaghi all’Inter probabilmente si potrebbe scrivere un libro, tanto sono complessi i presupposti su cui ha dovuto muoversi, e tanto sono diverse le percezioni dei suoi successi e delle sue sconfitte. Nella sua unica stagione senza trofei, i tifosi interisti si sono spaccati senza riuscire a costruire una memoria condivisa, scissi tra chi reputa questo periodo uno dei migliori della storia nerazzurra, per picchi emotivi e spettacolari, e chi invece ci vede solo una fase deludente, in cui non si è raccolto abbastanza, con due finali di Champions perse e due secondi posti in serie A per un solo punto.
Fatta questa premessa, credo che comunque il quadriennio di Inzaghi mostri un aspetto interessante che va oltre la storia nerazzurra. È stato un periodo tutto caratterizzato da un sottile equivoco che la stessa Inter in blocco ha dovuto alimentare. Un’ambiguità appunto non nuova nel calcio italiano, che potrebbe diventare anzi la cifra di un po’ tutto il movimento. C’è una famosa frase con cui Inzaghi si è fatto carne di tutta questa filosofia: «Dove alleno io, aumentano i ricavi, si dimezzano le perdite e si conquistano i trofei». Bilancio e palmares stretti in un abbraccio.
Nel caso dell’Inter di Inzaghi, basta riguardare un po’ di dati storici per capire quale lato di questa compenetrazione sia stato il motore di tutto. Parliamo di un progetto in cui l’urgenza di sistemare una situazione economica e finanziaria allarmante ha dovuto rivestirsi con l’aura della vittoria per poter funzionare appieno. Una squadra costruita con una pazienza certosina, mettendo ogni tanto sul mercato un pezzo pregiato, lucidato il più possibile per massimizzare la sua cessione, pesando ogni investimento alla ricerca dell’equilibrio ideale tra la minimizzazione del rischio e dei costi e l’ottimizzazione della cifra tecnica. Senza più le iniezioni di risorse da parte di una proprietà alla ricerca di soft power in ambito sportivo, l’Inter ha avuto bisogno di risultati sportivi (soprattutto in Europa) sempre più importanti. I successi servivano a riempire il bilancio raccogliendo quanti più premi monetari possibili e, al tempo stesso, alimentare l’entusiasmo dei tifosi, che riempivano lo stadio (con biglietti e abbonamenti sempre più cari, altra fonte di ricavi) in mezzo a un calendario ormai saturo.
In un panorama in cui sempre più tifosi e giornalisti italiani si ritrovano a dover assimilare i rudimenti della contabilità, dove la nuova maxi-Champions sembra anzitutto un modo per sistemare i bilanci, l’aspirazione sbandierata dell’Inter 2024/25, quella del competere fino all’ultimo su tutti i fronti, è sembrata dettata prima di tutto dalle proprie esigenze economiche e solo in seconda battuta dalle ambizioni sportive.
L’ultima evoluzione di questo calcio sempre più capitalista ci restituisce una squadra, l’Inter di oggi, che paradossalmente si trova alle prese con un momento sportivo delicato, ma anche con una situazione societaria in cui si respira finalmente un po’ di tranquillità. La squadra che giocava un calcio spumeggiante ed entusiasmante si è rinsecchita lungo la stagione e reclama a gran voce interventi di restauro importanti. L’Inter ha dovuto prosciugare ogni sua energia, arrivare ad umiliarsi e far bere ai suoi tifosi ogni goccia dell’amaro calice. Proprio grazie a questo percorso, ora avrà la possibilità di costruire finalmente qualcosa di diverso, con presupposti e prospettive nuovi.
QUALI PRINCIPI PER IL NUOVO CICLO?
Si è parlato parecchio del possibile nuovo corso dell’Inter e ovviamente questi discorsi stanno esplodendo dopo lo 0-5 subito in finale. In breve, la questione sembra tutta girare attorno alla scelta di Inzaghi di continuare o meno sulla panchina dell’Inter o meno. La dirigenza nerazzurra continua a sostenere che il ciclo di Inzaghi non è finito, ma sappiamo come l’allenatore stia prendendo in seria considerazione altre soluzioni professionali, in particolar modo quella che porta all’Al Hilal, dove potrebbe prendersi un periodo di desaturazione dopo un’annata massacrante, e al tempo stesso incassare uno stipendio principesco.
I discorsi su un possibile successore e un nuovo progetto tecnico-tattico iniziano già a circolare, ma sono comunque ancora secondari rispetto all’incontro che dovrebbe andare in scena domani, in cui Inzaghi potrebbe aprire alla permanenza nel caso in cui la dirigenza fornisse una serie di rassicurazioni: un rinnovo pluriennale con aumento di stipendio, un certo budget per il mercato, finalmente in attivo, e infine una diversa comunicazione mediatica sulle decisioni arbitrali.
Apro una piccola parentesi a proposito dell’ultimo punto. Nel primo anno di Inzaghi l’Inter era una delle squadre più esagitate nei confronti degli arbitraggi, con un atteggiamento nei loro confronti tra il vittimistico e l’intimidatorio. Negli anni queste tendenze si sono smussate, con Marotta che ha voluto sottolineare l’importanza del “consulente arbitrale”. Con la deriva delle ultime giornate di campionato di questa stagione, Inzaghi ha cercato di aggrapparsi a osservazioni su situazioni arbitrali a volte effettivamente controverse, a volte oggettivamente improponibili. Il silenzio stampa imposto dopo la gara con la Lazio, decisa da un episodio pescato da una zona severa del regolamento, è sembrato un po’ segnare la differenza di vedute tra due concezioni mediatiche differenti. Sembra una questione secondaria, ma per un allenatore maniacale come Inzaghi potrebbe non esserlo.
Per quanto riguarda gli altri punti, prima di sfogliare la girandola di nomi e di cifre che riempirà sempre più i quotidiani sportivi, andrebbe anzitutto capita, anche qui, la filosofia alla base del nuovo progetto.
Posto che l’ambiguità di cui ho parlato sopra non è eliminabile, bisognerà vedere, anzitutto, se l’Inter riuscirà a liberarsi definitivamente dalla sensazione di sopravvivenza degli ultimi anni per passare appieno a una di conclamata crescita. Ma andranno comprese anche le modalità con cui questo potrà essere messo in pratica, se si vorrà continuare a cercare le solite certezze, in pieno stile italiano, oppure assumendosi un grado di rischio maggiore.
L’Inter, come noto, da un anno ha una nuova proprietà, il fondo Oaktree Capital, con una solidità finanziaria sicuramente molto diversa rispetto all’oramai derelitta Suning, e un modo di procedere che sembra tipico dei fondi speculativi, con investimenti strutturali volti, in primo luogo, a massimizzare il valore patrimoniale della squadra. Per ora abbiamo visto questa impronta più che altro su questioni extra campo, dall’accelerata per il nuovo San Siro all’impegno per la squadra under 23 in Serie C, mentre sul lato sportivo l’intenzione sembra quella di affidarsi all’ormai storico management calcistico (la triade Marotta-Ausilio-Baccin) imponendo quelle che la stampa ama chiamare ossessivamente “linee guida”.
Quello che è stato ribadito come un mantra sui giornali, sia direttamente sia tramite indiscrezioni, è che l’Inter tornerà ad investire, abbasserà gli ingaggi e ringiovanirà la rosa.
Scendendo brevemente più nello specifico, possiamo dire che le prime due questioni sono in realtà legate tra loro e riflettono non solo un diverso discorso sportivo, ma anche una differente strategia di tipo economico. C’è qui in gioco, infatti, la composizione del costo rosa nel bilancio della società, cioè l’unione tra gli ammortamenti (il residuo a bilancio del costo del cartellino più commissioni, diviso per gli anni di contratto) e gli ingaggi lordi di ogni singolo calciatore.
L’Inter di Zhang ha seguito una strategia già usata da Marotta alla Juventus, abbassando gli ammortamenti il più possibile, insistendo su una base di giocatori che rinnovavano spesso il contratto e acquistando parametri zero a scadenza, e utilizzando le risorse soprattutto per gli stipendi. È una visione che ha portato appunto alla nascita di una squadra molto esperta, capace di buoni risultati, ma con un orizzonte temporale ridotto e un valore patrimoniale relativamente basso.
Ora Oaktree punta a una strategia più simile a quella del Milan di Maldini, per intenderci: investimenti su cartellini di calciatori che creino subito un valore patrimoniale e possano ulteriormente rivalutarsi sul mercato nel tempo, quindi ammortamenti nuovamente in crescita e ingaggi lordi che contestualmente devono abbassarsi. E così, inevitabilmente, si arriva al terzo punto: comprare calciatori promettenti, non ancora all’apice della propria carriera, con pretese di stipendi relativamente bassi, ma con cartellini di buon valore. Questo dovrebbe riflettersi anche in campo, con una squadra che, se tutto andrà per il verso giusto, sarà meno esperta ma più brillante.
Il ringiovanimento di cui si parla con insistenza, però, dovrebbe essere comunque qualcosa di più della semplice conseguenza di mere strategie economiche, arrivando ad assumere anche un forte significato di per sé sportivo. Si è detto in tutte le salse che l’Inter è una squadra vecchia, che il suo calcio è diventato compassato e fiacco e che ha bisogno di energie nuove per potersi mostrare al meglio lungo il terribile calendario europeo.
L’Inter in generale sembra essere arrivata a un punto in cui è andata fin troppo oltre i propri limiti. Certi risultati non possono diventare una nuova normalità se si prosegue nel confidare in momenti di eccezionalità. Anche per questo un rinnovamento anagrafico sembra necessario, sia che si tratti di una nuova evoluzione del sistema inzaghiano, sia in caso si vogliano sposare le nuove idee di un altro allenatore.
Insomma, la chiave per poter parlare con convinzione di crescita sembra essere stata individuata anzitutto nell’età dei calciatori.
IL RUOLO DEI GIOVANI NELL'INTER
Dando un’occhiata alla rosa attuale dell’Inter e ai rumor di mercato, il discorso ampiamente pubblicizzato sul ringiovanimento sembra prendere una piega un po’ particolare.
Attualmente l’Inter ha una rosa di 24 calciatori impiegabili, di cui ben dieci con più di trentuno anni compiuti: Acerbi (38), Arnautovic, Mikhitaryan e Sommer (36), Darmian (35), De Vrij (33), Taremi (32), Di Gennaro, Çalhanoğlu e Zielinski (31).
La logica vorrebbe che un ringiovanimento partisse proprio da qui. Allo stato attuale, però, non è ben chiaro come tutto questo accadrà. Lasciando da parte il terzo portiere, per ora in questa lista l’unico sicuro di andare via è anche l’unico in scadenza di contratto, cioè Arnautovic.
Sulla carta ci sarebbe in scadenza anche De Vrij, ma c’è un opzione di rinnovo che l’Inter sembrava pronta ad esercitare, e anzi si parlava addirittura di un ulteriore prolungamento.
Acerbi, Mikhitaryan e Darmian hanno un contratto fino al 2026, con una clausola che dovrebbe garantire all’Inter una possibile risoluzione anticipata. Per ora non ci sono particolari segnali in tal senso. Zielinski è blindato addirittura da altri tre anni con uno stipendio pesante.
Se poi si guarda all’altro lato della medaglia, stupisce non tanto che i calciatori sotto i 26 anni compiuti dell’Inter sono solo quattro, ma che questi siano tutti dentro situazioni di mercato particolari. C’è Frattesi (25) che pare giunto al punto di rottura definitivo con Inzaghi, c’è Asllani (23) dato per epurato da mesi, c’è Bisseck (24) per cui si cerca l’offerta giusta in Premier, e infine Zalewski (23), che è in prestito (e di cui comunque si parlava di permanenza).
Molti dei possibili sostituiti di cui parlano i giornali, però, non hanno un’età anagrafica più bassa: per esempio, si è parlato molto di Lucumì e Beukema (due anni in più di Bisseck), e di Ricci e Frendrup (coetanei di Asllani).
Certo, ci sono gli acquisti oramai certi del ventunenne Sucic a centrocampo e del ventitrenne Luis Henrinque in fascia (ma quindi Darmian saluta?), e al posto di Correa e Arnautovic arriveranno due punte più giovani. Ma al di là del possibile abbassamento matematico dell’età anagrafica, quanto impatto queste operazioni avranno realmente sulla struttura e la vitalità della squadra? A prescindere dal nome dell’allenatore, viene da chiedersi se così sarà possibile sviluppare caratteristiche oramai indispensabili ad alti livelli – come l’intensità con e senza palla – senza andare a ringiovanire alcuni punti nevralgici della squadra.
Per esempio, è facile ipotizzare che l’eventuale conferma di Acerbi e De Vrij costringerà l’Inter a un altro anno con una difesa troppo bassa e passiva. Oppure, viene da chiedersi se sia sufficiente cambiare le “seconde linee” per riuscire a replicare nuovamente certi punti di forza che quest’anno sono andati scemando per via di una condizione psicofisica sempre più precaria: penso in particolar modo al sofisticato gioco del trio Barella-Çalhanoğlu-Mhkitaryan, che è sparito dal campo nelle ultime settimane e non sembra dare più garanzie di tenuta nel lungo periodo, ma anche al primo cambio Zielinski e alle sue 14 partite saltate per infortuni.
I calciatori più anziani dell’Inter sono sempre stati rappresentati come le certezze su cui si basava questa squadra, quelli più giovani come i rincalzi il cui ingresso era un salto nel buio. Ma alla luce di questa stagione, quali sono le scommesse e quali le certezze? Sperare di distillare una nuova primavera da un trentottenne è meno rischioso che puntare su un calciatore con quindici anni di meno? E ha senso pensare ai giovani come nulla di più di rincalzi, buoni a tenere freschi i titolari per le partite che pesano?
Con quest’ultima domanda si tocca una questione non banale, cioè quale percorso che i giovani possono fare in una squadra se vengono semplicemente usati – ed è stato spesso lo stile di Inzaghi – come controfigure di altri calciatori più esperti dal ruolo molto specifico.
L’esempio più evidente sono stati Asllani e Frattesi, due investimenti importanti (circa 50 milioni di cartellino in due), che si sono ritrovati in grossa difficoltà nelle rotazioni, dando così l’impressione di arrestarsi nel loro percorso di crescita.
Asllani è stato preso perché si rivedevano in lui le caratteristiche di Brozovic, un mediano senza una rapidità bruciante, ma che amava creare costanti linee di passaggio muovendosi come un pendolo per il campo, con una certa tendenza alla verticalizzazione. Dopo la sua prima stagione di ambientamento, il contesto tattico del centrocampo di Inzaghi è completamente cambiato, facendo emergere un regista molto atipico come Çalhanoğlu e mettendo in difficoltà non solo lo stesso Brozovic (complice anche un calo di rendimento atletico), ma anche quella che doveva essere la sua versione più giovane, ancora tutta da formare. Asllani, prima spaesato, è stato piano piano stritolato dal confronto con un centrocampista di cui non poteva replicare lo stile di gioco.
Frattesi, invece, è sembrato subito un acquisto dettato più dall’ossessione di Marotta per lo zoccolo duro italiano che da motivi tecnico-tattici. Un calciatore peculiare e specialista, completamente fuori contesto nelle eleganti rotazioni di una mediana in cui tutti fanno tutto, è stato così prima usato come semplice grimaldello d'assalto nei finali di partita, per poi spegnersi gradualmente spento quando ha realizzato che le sue prospettive di crescita erano molto limitate.
Parliamo insomma di due calciatori effettivamente giovani che forse non hanno potuto mostrare il proprio potenziale. È meglio continuare a cercare le controfigure perfette dei titolarissimi, oppure spostarsi verso un progetto tecnico che riesca a valorizzare più di undici calciatori?
OLTRE AL NOME DELL'ALLENATORE
Viene quindi da pensare che la pianificazione di cui si è parlato sia stata concepita per un altro anno di continuità con Inzaghi, per seguire i suoi principi di gestione della rosa, per rispettare il suo rapporto con certi senatori e al tempo stesso soddisfare – almeno sulla carta – le richieste della proprietà.
Forse la batosta di sabato sera ha fatto capire allo stesso Inzaghi che dovrà rivedere qualcosa nei suoi principi e nella gestione ideale di una stagione. Forse resterà e troverà il coraggio di tagliare il cordone ombelicale con alcuni fedelissimi a cui deve così tanto. Forse è la stessa dirigenza che si sta rendendo conto di aver sottovalutato e semplificato la pianificazione. Forse comunque arriverà un altro allenatore, anche lui più giovane (si parla più che altro di Fabregas, ma anche di De Zerbi e Chivu), e allora questi discorsi cambieranno completamente, e sarà più semplice prendere decisioni difficili.
Sono ore in cui l’incertezza aumenta e crea spazio per la fantasia dei tifosi, che in questi casi tende a lanciarsi verso l’idea di una rivoluzione pesante. Quindi si parla di cambi di modulo, di cessioni illustri per finanziare acquisti altrettanto importanti. Alcuni tifosi invocano il 4-3-3, altri metterebbero alla porta Barella e Dimarco, che un anno fa portavano in trionfo come simboli dell’interismo e che in questo finale di stagione sono sembrati i fantasmi di loro stessi.
Conoscendo Marotta, è difficile ipotizzare soluzioni isteriche. Al di là della delusione, del senso di tramonto che adesso avvolge tutto, l’Inter resta una squadra con un’identità tattica ammirata in Europa, fatta di principi replicabili e integrabili a prescindere dai moduli, con un nucleo di calciatori di alto livello, nel proprio prime e con un senso di appartenenza importante (Lautaro, Thuram, Barella, Bastoni, Dimarco, Pavard, Dumfries). È veramente difficile pensare a un Marotta che non si tiene strette queste ultime certezze.
Certo, c’è anche tutta una questione di rigenerazione emotiva dei calciatori e dell’ambiente che inevitabilmente andrà gestita e che potrebbe essere, forse, l’elemento più delicato di tutti. È un discorso ad oggi più astratto che mai, che non può essere delineato su carta, ma che inevitabilmente si intreccia con il filo su cui correrà la costruzione della squadra. Insomma, passa comunque tutto dal grado di rischio che vorrà prendersi l’Inter nell’accogliere le novità che inevitabilmente si stagliano all’orizzonte.
Su questo c’è un mezzo precedente. Dopo la finale di Istanbul, l’Inter cambiò ben dodici giocatori, molti dei quali di lungo corso, con alcuni cuori spezzati per scelte umanamente difficili. La squadra trovò una nuova energia e vinse la seconda stella, dando a volte un’impressione addirittura di leggerezza. Si disse che la sconfitta in finale avesse dato consapevolezza alla squadra, ma ho sempre pensato che il motivo dietro quell’annata fosse un altro. Anche perché l’Inter comunque veniva da due campionati persi in modo diverso, il primo drammaticamente all’ultimo respiro, il secondo tristemente senza neanche provarci, con 12 sconfitte e 42 gol subiti. Ricordo che prima dell’inizio della stagione 2023/24 si parlava di una squadra con troppe incognite, che era cambiata troppo, che aveva pescato troppe scommesse. Fu sufficiente vincere una manciata di queste (pur sbagliandone qualcuna) per dimenticare completamente tutti quei discorsi.
La Serie A 2025/26 è ancora lontana dall’iniziare, ma in questi giorni abbiamo già assistito a una spettacolare caccia alla migliore certezza possibile da far sedere sulla propria panchina. Sembra l’alba di una nuova stagione dominata anzitutto da visioni conservatrici, alla ricerca del solito utopico e irraggiungibile controllo di tutte le variabili. Mentre il tempo scorre, però, l’Inter ha sempre meno cose da conservare, e dovrà trovare il coraggio di muoversi controcorrente, prendendosi una buona dose di rischi.