
Prima di quest'ultima edizione, l’ultima volta che una barca britannica fu capace di vincere una regata dell’America’s Cup, l’Inter era ancora Ambrosiana e pareggiava in Serie A sul campo della Pro Vercelli, il Giro d’Italia aveva appena presentato una tappa da 333 chilometri, e l’ascesa dei fascismi in Europa gettava qualche preoccupazione – accompagnata da altri celati entusiasmi – nelle classi dirigenti dell’Occidente democratico.
L’ultima volta che una barca britannica fu capace di vincere una regata dell’America’s Cup, nel 1934, il suo armatore, Thomas Sopwith, si stupì di osservare che la controparte americana non aveva rispettato la regola prestabilita secondo cui i vascelli in gara dovessero avere tutto il necessario, alloggi compresi, ad ospitare l’equipaggio. L’Endeavour, il suo gioiello, aveva appena attraversato l’Atlantico equipaggiato di tutto punto. La cabina del capitano conteneva addirittura una vasca da bagno. Non appena capì che gli americani non si erano concessi certi lussi, se ne liberò immediatamente. Per un po’ sembro funzionare, e l’Endeavour andò avanti 2-0; ma gli statunitensi del Rainbow riuscirono a ribaltare l’inerzia e vincere le successive quattro regate, stabilendo ancora una volta – l’ennesima – il dominio di New York sulla coppa più ambita. Una coppa che i britannici stanno provando a portare a casa dal 1851. Un tempo lontanissimo e inimmaginabile, in cui la decisione che vietava l’uso delle mani nel calcio – l’altra grande e più nota sfuggente ossessione britannica – era appena fresca d’inchiostro.
A novant’anni da quell’ultima vittoria di Endeavor, una nave britannica, la Britannia del Team Ineos, è tornata a vincere una regata di Coppa America solcando le acque attorno a Barcellona. L’ha fatto sfidando per la prima volta un’imbarcazione non statunitense, ma i bicampioni del Team New Zealand, che detengono il trofeo dal 2017. L’ha fatto grazie a una grande partenza orchestrata dal suo timoniere, Ben Ainslie, che ha sorpreso i neozelandesi e li ha costretti a scendere dal foil, le appendici che permettono alle barche di “volare” sopra il pelo dell’acqua. Una volta smaterializzata la propria propulsione, la regata di New Zealand è finita ancora prima di cominciare.
Ainslie è una delle leggende di questo sport, fondatore e direttore del Team Ineos Britannia. Nessuno mai ha vinto quanto lui, nel contesto olimpico. Argento ad Atlanta 1996 nella classe Laser, ancora diciannovenne, ha conquistato poi l’oro a Sidney nel 2000, prima di passare alla classe Finn, più fisica ed esigente, e mettere in fila tre vittorie consecutive da Atene 2004 ai Giochi in casa di Londra 2012, al termine dei quali fu scelto per accompagnare la bandiera del Regno Unito durante la cerimonia di chiusura.
La Coppa America è certo altra cosa rispetto alle competizioni olimpiche. Primo, perché invece delle regate di flotta – cioè tutti contro tutti – si gareggia in Match Race, uno contro l’altro, una modalità che esalta il tatticismo e che fa assomigliare le regate a un duello più che a una corsa. Secondo, perché la Coppa non è solamente una gara individuale (al massimo di coppia), ma uno sforzo di gruppo in acqua e soprattutto fuori, che impegna anni delle migliori menti e braccia della nautica e investimenti di centinaia di milioni anche solo per far germogliare l’ambizione di mettere le mani sul trofeo, il più antico del mondo.
Per garantirsi i fondi necessari, dal 2018 Ainslie si appoggia a Ineos, il gigante petrolchimico di Jim Ratcliffe, che proprio grazie alla vela ha appoggiato uno dei primi passi nel mondo dello sport: prima i grossi investimenti nel ciclismo, poi l’acquisto del Nizza e l'entrata nell'area sportiva del Manchester United nel calcio, la collaborazione con la Mercedes di Formula Uno, la sponsorizzazione degli All Blacks di rugby, nonché l’investimento economico e d’immagine nella 1:59 Challenge di Eliud Kipchoge. Quando gli viene chiesto qual è il motivo per cui ha rovesciato nello sport interi capitali, Ratcliffe non sembra avere altre risposte che il semplice divertimento di un uomo molto, molto ricco.
A capo della parte sportiva resta però sempre Ainslie, che ha fondato la squadra in prima persona già nel 2012, con l’obiettivo di competere per l’America’s Cup dell’anno successivo. Costretto a ritirarsi dalla corsa per irregolarità della barca, Ainslie accettò l’offerta di partecipare come membro di Oracle Team USA. Avrà un ruolo decisivo nella rimonta più incredibile della storia della competizione, diventando il secondo britannico in 110 anni a vincere la coppa, pur se in rappresentanza di un paese straniero.
Ainslie, però, non ha dimenticato il suo obiettivo primario, e cioè quello di portare la coppa a casa, secondo il ben noto motto calcistico. Il livello competitivo della squadra è cresciuto di evento in evento: semifinalista challenger nel 2017 e finalista nel 2021 – dopo la sponsorizzazione di Ineos – finalmente nel 2024 Ainslie ha conquistato il diritto di portare la prima imbarcazione britannica in sessant’anni a giocarsi, nuovamente, la Coppa America.
Ci è riuscito al termine di una scalata inattesa. Il percorso di Ineos Britannia è stato sorprendente, così com’è stato vederla arrivare superare di volta in volta tutte le avversarie favorite, crescendo regata dopo regata durante la fase di round robin. I britannici arrivavano a Barcellona indietro nelle gerarchie rispetto agli italiani di Luna Rossa e forse anche ad American Magic. Le ragioni di scetticismo erano solide: durante la fase di avvicinamento alla coppa, l’equipaggio aveva sperimentato problemi di capsize (ribaltamento dell’imbarcazione), incendi delle batterie e rotture del timone. Non propriamente un ruolino di marcia immacolato, che sembrava pesare sulle ambizioni di Ineos.
C’era però anche grande curiosità sugli esiti della collaborazione sull’aerodinamica dell’imbarcazione con il team Mercedes di Formula 1, permessa dalla galassia sportiva di Ineos. I due mondi, pur se giocati su due superfici diverse, si parlano. Geoff Willis, ingegnere di successo sia in Formula 1 che nella vela, ha dichiarato che «la Coppa [America] è più vicina alla Formula 1 di quanto non lo sia la Formula 2».
Ineos è cresciuta, un gradino alla volta, lasciandosi alle spalle i problemi degli anni precedenti. Nonostante qualche sconfitta inziale, Ainslie ha rimontato nel finale della fase di doppio round robin della Luis Vuitton Cup, il torneo che assegna il posto da challenger alla Coppa America, arrivando a vincere la regata di spareggio con Luna Rossa. Le due imbarcazioni si sono ritrovate l’una contro l’altro per la finale: seppur considerato nuovamente sfavorito, Ainslie è riuscito a ribaltare il match race approfittando anche dell’inaffidabilità di Luna Rossa, costretta ad abbandonare due delle sette regate che sono servite a Ineos per qualificare, per la diciottesima volta, una barca britannica all’America’s Cup, con l’obiettivo di ripulire l’onta delle ultime diciassette sconfitte.
Nessun paese ha mai provato con tanta insistenza, senza mai riuscirci, a portare a casa la coppa, che venne offerta per la prima volta nel 1851 come premio a un vascello statunitense – l’America, appunto – e al club che rappresentava – il New York Yacht Club – per aver sconfitto quattordici imbarcazioni britanniche in un giro attorno all’isola di Wight, appena a sud della costa inglese. L’umiliazione fu tale che, quando la regina Vittoria chiese con curiosità chi fosse arrivato secondo, Henry Paget, primo marchese di Anglesey, eroe di guerra a Waterloo che la coppa l’aveva comprata e donata, rispose tristemente: «Ma’am, non c’è secondo».
Non era una semplice sconfitta sportiva. Il rapporto tra l’Inghilterra e il mare è intimo, profondo. Sulla forza della propria marina la Gran Bretagna ha basato le fondamenta l’impero più vasto della storia, che in quegli anni stava cominciando a concepire la propria dissoluzione. Per un popolo che soffre nel farsi battere a un gioco che pure ha inventato, cosa voleva dire essere sconfitti proprio in ciò che sentiva gli desse un posto nel mondo?
Da allora, i tentativi per riportare la coppa a casa si sono susseguiti uno dopo l’altro per quasi un secolo. Sono britanniche quindici delle prime diciotto challenge ai detentori statunitensi, fino al 1964. Eppure, per più di quarant’anni, dal 1876 al 1920, nessuna imbarcazione britannica fu nemmeno in grado di vincere una regata. Cresceva nel frattempo l’ossessione più acuta che un singolo abbia mai provato per l’America’s Cup: quella di Sir Thomas Lipton.
Lipton nasce a Glasgow e cresce nel quartiere di Gorbals, una sostanziale baraccopoli di cui Friedrich Engels scriveva: “Non potevo credere […] che un tale ammasso di sporcizia, crimine, miseria e malattia potesse esistere in un posto di un qualunque paese civilizzato”. Tifo e colera soffiavano come un vento di morte tra le strette vie e falcidiavano centinaia di vittime l’anno, ma era comunque meglio della Grande Carestia irlandese da cui i genitori di Lipton erano fuggiti.
Le fatiscenti viuzze di Glasgow poco prima della loro demolizione, attorno al 1870, fotografate da Thomas Annan. Oltre alle persone in posa, ce n’erano probabilmente molte di più: ma i lunghi tempi di esposizione dell’epoca impedivano di imprimerle in pellicola.
Lipton cresce tra bravate e risse tra clan, ma anche con un hobby tutt’altro che originale, all’epoca: la costruzione di piccole barche di legno da far gareggiare sulle pozzanghere del Glasgow Green, il grande parco della città. Le gare tra i vascelli, il dominio britannico e l’inattesa vittoria dell’America nel 1851 accesero ulteriormente quelle fantasie. Il nome dell’imbarcazione di Lipton era Shamrock, in ricordo delle sue origini irlandesi. Sarà lo stesso nome delle imbarcazioni con cui, su scala diversa, avrebbe montato il più testardo tentativo individuale di conquista dell’America’s Cup.
Lipton armò cinque challenge consecutive, dal 1899 al 1930. Le cose erano parecchio cambiate per lui nel corso degli anni: uomo dall’eccellente intuito, Lipton si era fatto largo nel mondo del commercio alimentare prima di dedicarsi completamente alla filiera del tè, che ne avrebbe fatto la fortuna. La sfida all’America’s Cup era l’ariete con cui sfondare nel mercato più ambito, gli Stati Uniti, nell’ultimo decennio dell’800. Il tempismo era quello giusto: non solo la qualità del tè commerciato da quelle parti era pessima e favorevole a un nuovo concorrente, ma l’arrivo di Lipton si intrecciò anche all’ascesa dei movimenti per la temperanza, l’insieme di associazioni e correnti di pensiero di che sostenevano il bando delle bevande alcoliche, e che avrebbero di lì a poco attirato il paese nel proibizionismo. Il tè di Lipton era l’alternativa ideale, almeno tra quelle legali.
L’America’s Cup stampò il sigillo finale sul patto di amicizia tra Lipton e gli Stati Uniti. Sempre sconfitto ma mai demoralizzato, Lipton guadagnò una grandissima popolarità nel Paese, che ne ammirava lo spirito sportivo e la disponibilità al contatto col pubblico. Seppure sia più facile perdere col sorriso se nel frattempo stai moltiplicando il tuo capitale, la capacità di Lipton di ingraziarsi il pubblico andò oltre ogni ipocrisia. Al termine del quarto tentativo fallito, nel 1920, Lipton permise alla popolazione di New York, dove si svolgevano le regate, di visitare l’interno del vascello sconfitto, mentre i vincitori si ritiravano in fretta. 35mila cittadini, così, si presentarono al molo. Fu l’ennesima, grande trovata pubblicitaria, e la popolarità di Lipton crebbe tanto che, secondo le cronache dell'epoca, alcuni cittadini statunitensi gli dissero: «Peccato che non abbia vinto tu!».
Non ci sarebbe più andato così vicino. La sua Shamrock IV aveva vinto le prime due regate, prima di subire la rimonta di Resolute a causa delle deboli condizioni di vento. Lipton, in un certo senso, il suo trofeo però lo ottenne lo stesso. Negli Stati Uniti emerse un movimento d’opinione convinto che questo simpatico mercante scozzese meritasse, se non la coppa vera e propria, almeno un qualche tipo di riconoscimento. Nel suo ultimo viaggio a New York, Lipton fu ricevuto dal sindaco Jimmy Walker in una cerimonia pubblica partecipata da migliaia di persona, e ricevette, nelle parole del sindaco, un trofeo al “più grande sportivo del nostro tempo e al più grande perdente nella storia dell’umanità”. «Sebbene io abbia perso», rispose un commosso Lipton «voi mi fate sentire come se avessi vinto».
Eppure, in patria Lipton faticò a ricevere lo stesso apprezzamento che all’estero, in particolare tra le classi d’élite, d'altra parte le più snob. Dovette aspettare la quasi interezza della sua vita per essere ammesso nel Royal Yacht Squadron, il club velico più esclusivo e importante del mondo, il primo a detenere – e cedere immediatamente – la Coppa America: le origini sue e delle sue ricchezze non erano sufficiente nobili per garantirgli l’ingresso nel club, fino agli ultimi mesi della sua vita.
Dopo di lui, nessun altro britannico avrebbe riportato la coppa così vicino a casa, sebbene la sconfitta del ’34 fu accompagnata da grandi polemiche regolamentari, che si sublimarono nel motto: “Britannia rules the waves and America waives the rules” (cioè: Britannia domina le onde, l'America rinuncia alle regole).
I Budgie, band rock britannica degli anni ’70, hanno un suggerimento a proposito.
Navi britanniche ci riprovarono poi nel ’37, nel ’58 e infine nel ’64, ma non riuscirono mai a scalfire il predominio statunitense. Altre nazioni cominciarono a manifestare interesse per la coppa. Furono gli australiani, infine, i primi challenger a sconfiggere un defender, nel 1983. L’America’s Cup diventava finalmente globale, e tale era ormai la concorrenza. I britannici dovranno aspettare i soldi di Ratcliffe e l’abilità di Ainslie per tornare a competere per la Coppa, sessant’anni dopo l’ultima volta.
Quanto a vincerla, be’, quella è un’altra storia, una che sembra destinata a sfuggire loro di mano in eterno. A Barcellona soltanto un giorno di forte vento e mare mosso sembrano aver preso di sorpresa New Zealand, che al contrario nelle giornate di acqua calma si è dimostrata superiore a Britannia, portandosi velocemente sul 4-0. Ainslie è sembrato sul punto di avvicinandosi, dominando la terza, ventosa giornata e portandosi 4-2. In quelle condizioni così particolari, con il mare mosso e disallineato rispetto alla direzione della brezza, Britannia ha potuto sfruttare una maggiore esperienza nelle acque di Barcellona, accumulata nelle sfide contro Alinghi e Luna Rossa mentre New Zealand, già qualificata alla coppa, doveva restare a guardare. Il sogno di un’altra grande rimonta per Ainslie, però, è tornato presto in soffitta. Nella quarta giornata di regate Pete Burling, lo skipper neozelandese, ha letto meglio le improvvise raffiche di vento e costretto Ainslie ad arrancare alle sue spalle, superandolo anche nella nona, decisiva regata. Ancora una volta, l’ennesima, la Coppa America è rimasta alla larga da dove, ormai 173 anni fa, è partita.
Il marchese Henry Paget aveva detto alla regina Vittoria che nell'America's Cup non c’era secondo. Oggi, al Paese che sembra condannato a rimanere secondo per sempre, quella frase suona come una maledizione.