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La maratona ideale?
08 mag 2017
08 mag 2017
Eliud Kipchoge è andato vicino al muro delle 2 ore, in un evento che però aveva poco delle vere corse.
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Quando le ultime sei lepri si sono sfilate, alla linea che segnava i 42 chilometri, il campione keniota Eliud Kipchoge ha guardato il cronometro davanti a sé e ha capito che non ce l’avrebbe fatta a diventare il primo uomo nella storia capace di percorrere 42.195 metri, la distanza canonica della maratona, in meno di due ore. Ci ha messo 25 secondi di troppo, è rimasto indietro di circa 150 metri. È stato l’epilogo, agrodolce, dell’evento organizzato sabato 6 maggio all’autodromo di Monza, da Nike, con il titolo piuttosto intuitivo “Breaking2”. Un piano svelato a dicembre (ma se ne vociferava già da diverso tempo) che ha coinvolto tre atleti di livello mondiale sponsorizzati dall’azienda americana: il già citato Kipchoge, l’eritreo Zersenay Tadese e l’etiope Lelisa Desisa. Ovvero: il campione olimpico in carica della maratona, il primatista mondiale della mezza maratona e il vincitore - per due volte - della maratona di Boston.

L’obiettivo della Nike era arrivare per prima, attraverso i suoi atleti, sotto le due ore nella maratona, sconfiggendo uno dei muri più evocativi dell’atletica moderna. Possibilmente prima che lo faccia Adidas, che nella sua batteria di atleti annovera l’attuale primatista del mondo Dennis Kimetto e punta allo stesso obiettivo ma in una corsa regolare. In campo c’è un terzo progetto, avviato dal professore di Brighton Yannis Pitsiladis nel 2014 e sostenuto da diversi sponsor, che coinvolge tra gli altri il fuoriclasse etiope Kenenisa Bekele. Naturalmente un impegno del genere richiede un impiego di risorse non banali: per Nike si parla di due anni di lavoro e decine di milioni di investimenti, parte dei quali per ingaggiare gli atleti - Kipchoge, Tadese e Desisa hanno rinunciato alla redditizia stagione primaverile per preparare l’evento. E secondo il Guardian Kipchoge è stato pagato da solo un milione di dollari.

L’ambiente perfetto

Insomma, la Nike ha girato le carte sul tavolo per prima, e per soli 25 secondi non ha fatto saltare il banco alla prima mano. Quello che sembrava un azzardo fine a se stesso si è trasformato in un’impresa sfiorata. Grazie a un esperimento che, per ambizioni, meticolosità e complessità, non ha precedenti: e questo a prescindere dalle valutazioni positive o negative che se ne possono dare.

Va detto che, a parte la distanza, l’evento di sabato aveva poco o nulla a che vedere con una maratona vera: il tentativo è stato preparato in maniera scientifica, a partire dal luogo e dalla data di svolgimento. In un articolo pubblicato sul suo sito, la stessa azienda fa un elenco dei motivi per cui è stato scelto l’autodromo di Monza, in quella data e a quell’ora: la temperatura perfetta (dodici gradi circa), il cielo coperto, l’asfalto migliore di quello delle comuni strade di città, la linearità, la possibilità di ricavare un percorso lungo 2,4 chilometri che permetteva la miglior gestione possibile di elementi come le lepri e la nutrizione. Non era una competizione di nessun tipo, i tre protagonisti non avevano nemmeno un pettorale addosso.

Per i rifornimenti, invece delle bancarelle che costringono gli atleti ad allungare il tragitto variando il ritmo, c’era un addetto in bicicletta che seguiva il gruppo; davanti al gruppo c’era una macchina elettrica che si muoveva a ritmo uniforme segnando il passo attraverso una luce verde, per “segnalare” il muro agli atleti: molto scenografico e, nella prima mezz’ora di corsa al buio, persino suggestivo, ma chiaramente vietato nelle gare normali. Ma il vantaggio principale probabilmente è arrivato dalle “lepri” (“pacemaker”, in inglese): atleti incaricati di accompagnare i corridori dando loro il ritmo e permettendo ai big di risparmiare energie mentali preziose. Nel gruppetto degli aiutanti c’era anche un grandissimo come Bernard Lagat, americano capace di vincere medaglie mondiali e olimpiche.

Il circuito da 2,4 chilometri permetteva una serie di cambi articolati: ad accompagnare il gruppo di testa (e poi il solo Kipchoge, quando Tadese e Desisa si sono staccati) c’erano sempre 6 atleti disposti in formazione piramidale. Ad ogni giro i primi tre si sfilavano per riposarsi, lasciando posto a un altro trio che si inseriva alle spalle dei tre che rimanevano in strada. Un sistema efficiente, che permetteva di avere sempre forze fresche a tirare il gruppo, ma che avrebbe reso l’eventuale record non omologabile, perché le lepri dovrebbero esserci fin dall’inizio e non potrebbero intervenire in corso d’opera con la possibilità di fermarsi. Per la stessa ragione, da una quindicina d’anni non sono omologabili i tempi ottenuti dalle donne nelle gare “miste”: la presenza di uomini per l’intera gara - è la teoria della Iaaf - le favorirebbe rispetto alle gare unicamente femminili, proprio come se fossero delle “lepri”.

Poi c’erano le scarpe nuove, che stanno scatenando diverse polemiche con la Iaaf intenzionata ad approfondire se ci siano eventuali irregolarità: le Nike Zoom Vaporfly 4%, che secondo l’azienda migliorano del 4% l’efficienza di corsa dell’atleta (non la qualità della prestazione).

L’impostazione generale dell’evento non è piaciuta a tutti, ma non è nuova: basti pensare al meeting del Sestriere, inaugurato negli anni Ottanta e portato avanti fino al 1996 (tornerà quest’anno): la pista piemontese, con i suoi 2.035 metri di altitudine, garantiva diversi vantaggi a velocisti e saltatori, grazie alla rarefazione dell’aria. Ai meeting venivano chiamati i migliori atleti del mondo e, per chi batteva un record, c’era in palio una Ferrari. Già allora si scatenarono diverse polemiche, anche perché il primato più insidiato era il 19’’72 sui 200 metri di Pietro Menna, che l’aveva ottenuto a Città del Messico (quindi a sua volta in altitudine). Lui lo raccontò così: «Hanno invitato Michael Johnson e messo in palio una Ferrari, poi mi hanno chiamato per il passaggio di consegne. Ho chiesto: se Johnson non mi batte, la Ferrari la date a me? Dopo due minuti di silenzio hanno risposto no. Allora non sono andato».

Il giudizio di Sean Ingle, sul Guardian, è questo: «Non è un tentativo comune. Per un terzo è un esperimento scientifico, per due terzi è un colpo da maestro di relazioni pubbliche e di pubblicità delle scarpe per la Nike, che ha investito milioni».

Ma se la parte di marketing dell’evento è palese (specie nelle iniziative collaterali che hanno visto la partecipazione di un mostro sacro come Carl Lewis), vale la pena soffermarsi sul discorso dell’esperimento. Che ci siano basi scientifiche non c’è dubbio: basta ricordare lo studio delle condizioni ambientali e la ricerca di quelle perfette, le ricerche sulla fisiologia degli atleti per supportarli al meglio con nutrimenti e capi d’abbigliamento migliori, il lavoro sullo sviluppo tecnologico del materiale utilizzato; ed emerge una filosofia di fondo piuttosto chiara: rimuovere tutti gli ostacoli ambientali che si frappongono tra l’uomo e il muro da abbattere, per vedere che cosa succede.

Tra quegli ostacoli però c’è anche il pubblico, che a Monza era ridotto al minimo, mentre abbiamo negli occhi le immagini di New York e Londra piene di persone; e ci sono anche le strade, che impongono troppe curve e troppe trappole sul tracciato; e, infine, anche gli avversari sono un ostacolo.

La corsa di Monza non è stata una maratona, ma un’astrazione: come nella microeconomia, per determinare i modelli di base, si eliminano diverse contingenze del mondo reale fino ad arrivare alla teoria pura, Nike ha limitato al massimo tutti gli attriti che non derivano dai limiti effettivi dell’atleta e dalla sua attrezzatura per vedere in quanto può coprire la distanza della maratona. Quello che è venuto fuori è una gara da laboratorio, una proiezione di ciò che può fare, in teoria, un atleta il giorno in cui correrà la giornata della vita. Un’altra cosa rispetto a record storici, come quello di Roger Bannister che, nel 1954 (non a caso il 6 maggio), diventò il primo uomo capace di correre un miglio sotto i quattro minuti, ma lo fece in una gara vera.

L’impresa di Roger Bannister.

La corsa

Il via è stato dato alle 5,45 di mattina, prima che sorgesse l’alba, dopo la partenza in linea si è schierata la formazione studiata a tavolino: una prima fila composta da una lepre, seguita da altre due, seguita dalle ultime tre, che coprivano i tre campioni. In testa l’auto, che proiettava la sua luce verde permettendo passaggi perfetti.

Il record di Dennis Kimetto, 2:02’57’’, significa tenere una media al chilometro di 2’54’’8. Per scendere sotto le due ore, il ritmo dev’essere di 2’50’’6. Vuol dire correre i 5.000 in 14’13’’ (e qualche decimo) e i 10.000 intorno ai 28’26’’5. Dopo i primi dieci chilometri, il gruppo di testa aveva oltre cinque secondi di vantaggio sulla tabella di marcia. Un margine rimasto invariato dopo il quindicesimo chilometro. Poi sono iniziati i primi problemi: verso il diciottesimo chilometro il più giovane del trio, Desisa, ha alzato bandiera bianca. È stato scortato fino al traguardo da tre lepri e ha concluso in 2:14’10’’, un tempo molto più alto del suo personale (2:04:45).

Secondo il report della Nike, il passaggio al ventesimo chilometro è stato in 46’49’’: significa un secondo 10.000 in 28’28’’, sette secondi più lento del primo, un secondo e mezzo peggiore della tabella di marcia ideale, ma comunque sufficiente a far mantenere al gruppo qualche decina di metri di vantaggio sul cronometro. Il giro di boa, la mezza maratona, è arrivato a 59’57’’: tre secondi prima del necessario.

Tadese, il primatista mondiale su questa distanza, si era staccato da poche decine di secondi. Il trentacinquenne eritreo ha chiuso in 2:06’51’’, vale a dire 3’50’’ meglio di quello che è il suo reale primato personale. A quel punto restava solo Kipchoge. Che, d’altra parte, era l’uomo su cui erano puntati i riflettori fin dall’inizio: era l’unico con una canottiera rossa, non a caso.

Ha passato i 25 chilometri in 1:11’03’’, mantenendo un vantaggio inferiore ai 3’'. Poi è arrivata la linea dei 30 chilometri, che è il traguardo intermedio più rilevante di tutta la maratona: dopo c’è un muro che i corridori devono superare affidandosi a tutto ciò che resta loro nel fisico e nella testa. Lì, per la prima volta, è andato in vantaggio il cronometro: 1’' di margine, un’inezia, ma da quel punto in poi la forbice si è allargata. Sempre non di molto: dopo 35 chilometri, Kipchoge era indietro di appena 6’'. Recuperabili, se uno ha ancora le energie.

E diversi spettatori ci credevano: ad ingannare era soprattutto la corsa pulita e la mimica facciale di Kipchoge: «Sta sorridendo», hanno notato in diversi commentando la diretta su Facebook e su Twitter. Ma quello non era un sorriso: era una smorfia di fatica. Il keniota è uno degli atleti con la migliore economia di corsa che si possano trovare sulla Terra ed è difficile intercettare i segnali che manda il suo corpo. Ha retto fino in fondo, ma a quel punto si trattava solo di non cedere troppo spazio al muro delle due ore. Al quarantesimo chilometro è passato in 1:54’04’’: nonostante fosse in crisi, un ritmo più elevato di quello necessario per battere il record di Kimetto.

Ha chiuso in 2:00’25’’, tra gli applausi del poco pubblico presente e delle lepri che lo avevano accompagnato. Rispetto al suo primato, 2:03’05’’, si è migliorato di 2’40’’. Praticamente un’era geologica.

Se volete riguardare la corsa.

Un campione

Eliud Kipchoge ha sfiorato l’impresa, ma l’ha presa con filosofia: «La corsa è andata bene – ha detto poco dopo aver concluso le sue fatiche. «È stata dura: sette mesi buoni di dedizione e di preparazione di ogni cosa. Ma sono felice di averlo fatto e penso che questa sia già storia in materia di sport». Una storia a cui, in ogni caso, vuole scrivere un altro capitolo: «Ora so quanto valgo. Sarà per la prossima volta. Con l’allenamento adeguato ora so che si può fare».

Eliud Kipchoge non è un atleta qualunque: è uno dei più grandi corridori di lunga lena degli ultimi due decenni. Ha 32 anni e mezzo e una carriera lunghissima alle spalle, che già l’aveva proiettato nel gotha del mezzofondo prolungato quando ancora non aveva vent’anni. Nel 2003, a Parigi, fu capace di vincere la finale mondiale dei 5.000 metri battendo due mostri sacri: con una volata mozzafiato precedette di quattro centesimi il marocchino Hicham El Guerrouj, probabilmente il migliore del dopoguerra sui 1.500 metri, mentre a pochi decimi arrivava l’etiope Kenenisa Bekele, che all’epoca iniziava la sua epoca di dominazione della distanza. L’anno successivo è arrivato alle loro spalle alle Olimpiadi di Atene. Nel 2007 e nel 2008 si è arreso, sempre sulla stessa distanza, solo all’etiope, che all’epoca era inavvicinabile.

Dopo, complice qualche sconfitta, ha capito che il suo tempo nei 5.000 era finito e ha saputo reinventarsi sulla strada. Ha vinto dappertutto: A Berlino (2013 e 2015), a Chicago (2014), a Londra (2015 e 2016, quando ha concluso in 2:03’05’’ a soli otto secondi dal record del mondo). Nel 2016 ha fatto l’impresa della vita, conquistando l’oro olimpico a Rio de Janeiro. E, con quello, la consacrazione come uno dei grandi degli ultimi anni insieme a Bekele, ad El Guerrouj, all’etiope Haile Gebrselassie, al britannico Mo Farah. In questo quintetto, ciascuno ha qualche ragione più o meno fondata per sostenere di essere stato più grande degli altri: il numero di vittorie (Mo Farah), la capacità di elevarsi a simbolo e di segnare un’epoca (Gebrselassie), l’attitudine al record (Bekele), un mix delle tre cose (El Guerrouj). Kipchoge è stato il più duttile e, finora, il più longevo.

Gli manca un record del mondo. Per ora non gli è andata bene, ma bisogna ricordare che il suo personale l’ha fatto a Londra e non è escluso che a Berlino, dove sono stati fatti tutti i primati degli ultimi quattordici anni, riesca a limarlo ulteriormente. Non aveva bisogno di far parte del programma della Nike per entrare nella storia, ma la possibilità di essere il primo uomo, nella storia dell’umanità, a violare il muro non è una cosa di poco conto. Così come non lo è il compenso: fattore non indifferente, per qualunque professionista in qualunque sport.

Parigi 2003: il trionfo di Kipchoge

Il valore di Monza

Quando si è diffusa la notizia della decisione di Nike di provare il 6 maggio (o il 7, o l’8: c’era una finestra di tre giorni nel caso che le condizioni climatiche non fossero perfette), più di un osservatore ha avuto il dubbio che l’evento progettato dall’azienda fosse organizzato esclusivamente a fini di marketing, con il muro delle due ore agitato come chimera pur sapendo che non c’era nessuna possibilità di abbatterlo ora. Farcela al primo colpo era pura fantascienza, ma che un tempo migliore del record del mondo fosse alla portata, invece, era dato per scontato visto il numero di vantaggi di cui gli atleti godevano.

Sotto questo aspetto, gli organizzatori hanno vinto ai punti: Kipchoge ha avuto serie possibilità di farcela fino a una decina di chilometri dalla fine, e ha avuto qualche speranza residua fino a cinque chilometri dall’arrivo. Rispetto a Kimetto, il detentore del record mondiale, ha corso 2’32’’ più veloce. Kimetto a sua volta aveva migliorato di 2’41’’ il record del mondo dell’americano Khalid Khannouchi del 2002 (2:05’38’’), ben dodici anni dopo. Adesso, appena 3 anni dopo quel record, un nuovo passaggio sembra a portata di mano, ma non è detto che farcela in gara sia così semplice. Vale la pena ricordare di nuovo sulle condizioni di Monza, che come detto erano perfette, o il più perfette possibile.

In quelle due ore e venticinque secondi, Kipchoge ha dimostrato una volta in più, casomai ce ne fosse bisogno, il livello a cui si trova attualmente, ma è difficile capire se e quanto sia superiore rispetto ai suoi rivali proprio perché nessuno di loro ha gareggiato nelle sue stesse condizioni - e lui non ha gareggiato nelle loro di recente. Forse, al suo posto, Kimetto o Bekele sarebbero scesi sotto le due ore. O magari anche loro avrebbero ceduto negli ultimi chilometri: resta il dubbio. In questo senso va letto un commento come quello dell’olimpionico di Atene Stefano Baldini: «Prendete un fenomeno in grado di correre in 2 ore e 3’. Depurate la sua fatica dalla tensione dell’uomo contro uomo, dategli il miglior asfalto del mondo, un raggio laser che scandisca il ritmo, una macchina che taglia l’aria: ecco il 2% di miglioramento che porta alle due ore. Un bel test per la scienza, ma né io né lui scambieremmo i nostri ori olimpici per una cosa simile». Per Baldini, insomma, il miglioramento è dovuto alle condizioni ambientali oltre che al talento di Kipchoge. Ma la sua grandezza sportiva e umana si misura in gara, quando c’è da vincere.

La maratona di Londra 2017 ha dato vita a un grande duello tra Daniel Wanjiru e Bekele.

Resta il fatto che il keniota ha dimostrato di essere in una condizione di forma strepitosa. Questo ha permesso per due ore e venticinque secondi di godere, a chi l’abbia seguito, dello spettacolo di una corsa ai limiti della perfezione, in condizioni che gli permettevano di essere ancora più stilisticamente apprezzabile di quanto non sia già normalmente. Il tutto, mentre portava avanti un confronto emozionante. D’altra parte, però, questo tentativo porta un grande rammarico tra chi, come me, preferisce di gran lunga le gare vere ai record, soprattutto a quelli non omologabili.

Poche settimane fa, a Londra, si è disputata la maratona cittadina. C’è stato un appassionante duello tra il keniota Daniel Wanjiru e Bekele. Si puntava al record del mondo, proposito abortito quando si è levato il sole. L’etiope è andato in crisi, mentre Wanjiru si involava verso la vittoria. Poi, con uno scatto d’orgoglio, Bekele si è ripreso e ha rimontato uno per uno i suoi avversari. Ha passato gli ultimi chilometri a braccare Wanjiru, che però ha sempre mantenuto un esile vantaggio fino alla fine. Una gara emozionante, con un finale ricco di tensione. E in questo senso resta la curiosità di sapere come sarebbe andata con Kipchoge in corsa: ci sarebbe stato il record? Ci sarebbe stato un testa a testa con Wanjiru? I ritmi alti avrebbero avuto affaticato il gruppo di testa, permettendo a Bekele di rientrare in corsa più agevolmente e di ribaltare la situazione? Non lo sapremo mai e per chi vuole vedere i migliori uomini competere tra loro, più che contro record simbolici e immaginari, è un peccato.

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