Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Dario Saltari
L'Arabia Saudita ha fatto l'impossibile
23 nov 2022
23 nov 2022
Come Hervé Renard ha portato la sua squadra a una vittoria impensabile.
(di)
Dario Saltari
(foto)
Dovgan/UK Sports Pics
(foto) Dovgan/UK Sports Pics
Dark mode
(ON)

Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche, in questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.

Non sono passati nemmeno 80 minuti del quinto Mondiale di Lionel Messi e l’Argentina è già sull’orlo del baratro. Con disperazione un'intera Nazionale, un'intera Nazione, guarda al suo numero dieci, che si è sistemato la palla sulla sua mattonella poco fuori l’area di rigore, per una punizione che sembra perfetta per il suo sinistro. Non so se è un’impressione mia, ma è una situazione che ciclicamente si ripropone a ogni Mondiale da ormai 16 anni, da quando fece il suo esordio con l’Albiceleste in Germania. Forse è per questo che Messi non sembra particolarmente preoccupato, ha solo il sopracciglio destro alzato come un investigatore che sta per capire che c’è qualcosa che non quadra. È anche vero che Messi non sembra mai veramente preoccupato. “La storia di Messi ai Mondiali è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani, e mano a mano che attraversa un Mondiale, un’eliminazione, un altro Mondiale, un’altra eliminazione, si ripete «fino a qui, tutto bene»”, ha scritto Fabrizio Gabrielli pochi giorni fa. In confronto a lui il portiere saudita Mohammed Al-Owais, THE GOAT secondo qualcuno che ha modificato la sua pagina Wikipedia subito dopo la partita, sembra agitato come un cameriere di un ristorante all’ora di punta. Gli occhi spiritati, ciuffi di capelli attaccati alla fronte impiastricciata di sudore. Come lui anche tutti gli altri giocatori sauditi sembrano sicuri che stia succedendo qualcosa di terribile. Hatten Bahebri per il nervoso ha un diverbio con la finta barriera che l’Argentina ha composto accanto a quella vera per disturbare la visuale del portiere.

Alla fine Messi tira, ma il pallone finisce altissimo sopra la traversa. Al-Owais, per non lasciare nulla di intentato si aggrappa al sette. Shahrani si affretta a congratularsi con lui porgendogli i pugnetti. Nel frattempo Messi si scorre le mani tra la barba senza alcuna disperazione, più come se stesse riflettendo. Con grande tempismo la regia internazionale subito dopo stacca su un tifoso argentino intento nello stesso identico gesto, ma con gli occhi di chi sta guardando il proprio criceto finire in un frullatore acceso.

La imperturbabilità ieratica del viso di Messi mentre intorno il mondo brucia è un’icona che potrebbe rappresentare l’esperienza dell’Argentina ai Mondiali negli anni 2000. Una squadra che aspetta che il suo profeta finalmente si riveli tale alzando la coppa più importante, e che lo fa in senso letterale. Rimane ferma ad aspettare cioè, anche se la terra gli sta crollando sotto i piedi o un enorme pianoforte gli sta cadendo sulla testa, con il sudore freddo che gli cala sulla fronte. È qualcosa che persino nelle opere di finzione diventa irrealistico se ripetuto troppe volte, come nella criminale Rings of Power in cui c’è sempre qualcuno a terra, sfinito, che aspetta la morte da un orchetto che viene trafitto alle spalle sempre nell’ultimo momento possibile. Come fa l’Argentina a crederci sempre? Forse è l’hype che ogni volta la precede. In questo caso la vittoria della Copa America, il trionfo debordante a Wembley contro l’Italia, il buon cammino in fase di qualificazione, infine la leggenda del cinco de copas, il video rispuntato chissà da quale meandro della memoria collettiva che mostra Maradona mettere a terra la stessa carta che ormai per la superstizione ha permesso a Messi di vincere il suo primo trofeo con l’Albiceleste, il cinque di coppe per l’appunto.

Eppure la squadra di Scaloni era sembrata riuscire a mettere a bada l’attesa intorno a sé per tutto il primo tempo. Giocare quasi con esperienza, soprattutto dopo che il rigore nei minuti iniziali gli aveva regalato l'1-0 che sembrava aver messo tutto in discesa. Aveva iniziato controllando il pallone senza fretta, la sua percentuale di possesso arriverà oltre il 63% dopo i primi 51 minuti di gioco. Una conseguenza inevitabile del centrocampo estremamente tecnico scelto da Scaloni, con due mezzali come Gomez e De Paul che seppur con caratteristiche diverse sono di fatto due trequartisti, ma anche dell’atteggiamento apparentemente naïf della sua avversaria. L’Arabia Saudita si difendeva in maniera molto ambiziosa, con due linee strettissime e molto alte sul campo, ma inizialmente anche ingenua, dimenticandosi di alzare la pressione sui portatori di palla - nel caso specifico, almeno per sei undicesimi, artisti del gioco in grado di mettere un compagno di fronte alla porta anche bendati.

In questo modo per la Nazionale di Hervé Renard era impossibile difendere la densità che l’Argentina faceva a destra, dove Messi e Di Maria rendevano impossibile la vita al povero terzino sinistro Shahrani e al centrale da quel lato, Bulayhi. Per la verità gli era impossibile difendere quasi ogni palla scoperta. Per via del baricentro altissimo e delle linee strette dell'Arabia Saudita, l'Argentina veniva invitata a cercare immediatamente la profondità alle spalle della linea difensiva. In questo modo nei primi 45 minuti l’Albiceleste ha messo per tre volte un proprio giocatore davanti al portiere avversario. Prima con un lancio in profondità del “Papu” Gomez direttamente per Messi, scattato proprio tra Shahrani e Bulayhi. Poi con un filtrante dalla trequarti, ancora di Gomez, per Lautaro, questa volta con un taglio tra i due centrali. Infine con un suggerimento di Messi per Lautaro, a seguito di una palla recuperata a destra ancora una volta da Di Maria. Per tre volte l’Argentina ha messo la palla in rete, per tre volte il fuorigioco ha cancellato il 2-0 che forse avrebbe inclinato definitivamente la partita dalla parte degli uomini di Scaloni. Quanto hanno pesato sulla tranquillità della Nazionale di Scaloni questi tre gol annullati?

Per l’Arabia Saudita, al contrario, devono essere stati un messaggio che la strada che stava seguendo fosse quella giusta, e infatti ha continuato a giocare in questo modo come se fino a quel momento non fosse sembrato completamente suicida. La sua strategia però aveva anche un senso più razionale, meno inconscio. Con un fuorigioco semiautomatico in grado di individuare anche un omero oltre la linea difensiva avversaria, come quello di Lautaro nel secondo gol annullato all’Argentina, è ancora più probabile che difendere molto in alto e con un atteggiamento iper-aggressivo paghi. Oltre alle tre che abbiamo già detto, gli uomini Scaloni finiranno in fuorigioco per altre cinque volte nei 54 minuti che hanno permesso all’Arabia Saudita di ribaltare il punteggio (e altre sette alla fine della partita).

Si va negli spogliatoi con l’impressione che la partita possa scivolare via così, tant’è che ricomincia esattamente da dove era iniziata. Dopo nemmeno due minuti dall’inizio del secondo tempo, Paredes prende palla dalla difesa e lancia per l’ennesima volta a destra, dove Di Maria sta scattando e Shahrani sta avendo il giorno di lavoro più stressante della sua vita. È un’altra volta fuorigioco, e a quel punto qualcosa fa click. L’Arabia Saudita diventa più intensa in mezzo al campo, più dura nei contrasti. Su una palla contesa a centrocampo, su cui il gigantesco Tambakti si mangia Messi, Malki si inventa un lancio in profondità da potrero argentino. La partita improvvisamente prende una velocità diversa ma, come detto, l’Argentina aspetta. La palla a mezza altezza viene sporcata da Brikan, ma Romero è incredibilmente in ritardo, e si fa superare in velocità da Shehri, otto gol in 46 presenze all’Al-Hilal, che segnando con un tiro a incrociare precisissimo si è appena trasformato in un’ira di Dio. Da dove viene tutta questa energia, che sta facendo invocare tutti i nomi del divino ai telecronisti arabi?

Il fuorigioco da cui nasce il gol dell'1-1 dell'Arabia Saudita dice quasi tutto sull'atteggiamento tattico delle due squadre. Le linee strette e altissime della squadra di Renard, Shahrani preso tra Di Maria e Messi, il centrocampo dell'Argentina completamente svuotato, la ricerca diretta della profondità.

In panchina è impossibile non guardare Hervé Renard, la mascella disegnata con lo scalpello, i capelli ordinatamente spettinati, lo sguardo piacione. È arrivato in Arabia Saudita dopo aver inspiegabilmente fallito i Mondiali del 2018 con il Marocco, eliminato per la verità in un girone di ferro con Iran, Spagna e Portogallo. In una recente intervista al sito della FIFA ha dato la colpa di quella eliminazione al VAR, per un gol subito nato da un corner battuto dal lato sbagliato. Hervé Renard è l’unico allenatore ad aver vinto due Coppe d’Africa con due Nazionali diverse, e il suo mito è nato nel modo più mistico possibile. La vittoria con lo Zambia nel 2012 è impossibile da spiegare solo in termini sportivi, in patria lo ricollegano al tragico disastro aereo che fece sparire la Nazionale del Paese solo 19 anni prima. La finale contro la Costa d’Avorio si gioca in Gabon, a pochi chilometri dove cadde quell’aereo. «È stato qualcosa di molto spirituale», ha ammesso Renard pochi giorni fa.

Da quel giorno il suo rapporto speciale con le Nazionali ha a che fare con l’aspetto intangibile del calcio. In un ritratto di qualche anno fa, Fabrizio Gabrielli lo ha definito uno sciamano. Lui cerca di spiegarla in maniera più prosaica, ma non per questo più razionale. «Le Nazionali sono speciali, sono l’identità di un Paese. Quando i giocatori rappresentano le proprie Nazionali lo fanno sempre con passione, ci mettono il cuore. Questo è il motivo per cui amo allenarle». Persino la sua iconica camicia bianca, che sembra sgualcita sempre allo stesso modo, ha una storia metafisica, una spiegazione superstiziosa. Dice che nel 2010, dopo una sconfitta in Coppa d’Africa contro il Camerun, ha deciso di cambiare la sua solita camicia blu con una bianca, e dopo quella scelta ha vinto il girone di fronte agli avversari contro cui aveva perso. «Ovviamente ho perso delle partite da quel giorno, ma ne ho anche vinte tante. Mi piace ma devo dire che il clima deve venirmi incontro. Quando allenavo in Inghilterra a dicembre la camicia bianca non era possibile. O forse era proprio questo il motivo per cui non ho avuto successo in Inghilterra». Da quelle parti, però, qualcuno ha ancora buoni ricordi di lui. John Ruddy, portiere che ha allenato al Cambridge, per esempio ha ricordato al Daily Mail i suoi estenuanti ritiri estivi, il fatto che si allenasse in palestra più duramente di quanto richiedesse ai suoi giocatori. «Hervé sapeva come farti sentire bravo a sufficienza».

Come ogni allenatore superstizioso che si rispetti, prima della partita con l’Argentina ha fatto appello al potere della lacrima. Renard ha dichiarato che non credeva di poter passare il turno. Adesso sappiamo che era un bluff, e a posteriori lo si capisce da parole che fanno intravedere quel sorriso malizioso di chi ne sa una in più del diavolo. «Ci piace molto il fatto di essere dimenticati da tutti, di non essere considerati».

Cosa ha detto, quindi, tra il primo e il secondo tempo un allenatore costretto a parlare alla squadra con l’aiuto di un traduttore? È il carisma a parlare per lui? Le rughe della sua faccia che sembra fatta da carta velina accartocciata? Dopo la partita esce un video del suo discorso alla squadra negli spogliatoi, esattamente come ce l’aspettiamo: ci sono pugni che battono sui palmi, urla, la richiesta di spingere, alzare i giri. Al-Malki, esaltato, lo definisce “un pazzo”: «Nel discorso pre-partita, vi giuro su Dio, mi sono messo a piangere. Ci ha motivato talmente tanto che non vedevamo l’ora che la partita iniziasse».

Dopo il primo gol l’Arabia Saudita entra in connessione con l’energia dello stadio e ha momenti di dominio assoluto. Se Renard è uno stregone, questo è il suo incantesimo. La sua squadra ci mette una manciata di secondi a tornare dentro l’area avversaria, dove l’Argentina aspetta ancora. Un tiro di Al-Abid sul palo più lontano viene alzato di testa da Romero e quando il pallone torna sulla terra scopriamo l’esistenza di Al-Dawsari. Tra i pochi dei suoi ad aver giocato in Europa, al Villarreal nel 2018, Al-Dawsari dice di essere migliorato dopo l’unica partita giocata contro il Real Madrid durante quell’esperienza. Sulla palla messa giù ha un po’ di fortuna sul rimpallo, ma nel modo in cui si ritaglia lo spazio per il tiro tra tre giocatori avversari la sua tecnica emana le vibrazioni delle grandi prestazioni della storia del Mondiale.

Dopo l’1-2 la partita diventa ancora più dura, ancora più sporca. Ad ogni cambio nelle file dell’Arabia Saudita si aggiunge un difensore. Nei minuti finali, con l’Argentina all’arrembaggio, diventeranno otto, ma ordinatamente disposti in linea, ancora incredibilmente alta nonostante il centrocampo ormai del tutto svuotato. C’è un’intensità fisica che non si vede spesso in una partita dei gironi, ma anche una mancanza di rispetto strana per dei giocatori che dovrebbero provare almeno un minimo di reverenza nei confronti di Messi. In un video circolato dopo la partita si vede uno dei due centrali, Bulayhi, percuoterlo alle spalle, avvicinarsi a quella distanza che di solito prelude una rissa. È possibile che i giocatori dell’Argentina abbiano avuto paura?

Difficile spiegarsi altrimenti l’incredibile occasione buttata via pochi minuti dopo il gol dello svantaggio. La palla fatta camminare ai limiti dell’area piccola da un cross al volo di Otamendi, il tiro facile ciancicato prima da Lisandro Martinez, corretto poi con la coscia da Tagliafico, ma non abbastanza per ingannare il ragno Al-Owais. Un’occasione che rappresenta una buona fetta (0.68) dei 1.7 xG creati dalla Nazionale di Scaloni. Con questa produzione offensiva in una partita normale una squadra avrebbe potuto portare a casa tre, quattro gol. Ma questa, purtroppo per l'Argentina, non è una partita normale. Questa è la partita in cui ad ogni occasione fallita la carica emotiva dell'Arabia Saudita cresce.

Nei minuti finali la tensione evocata da Renard tra primo e secondo tempo diventa insostenibile, anche per gli stessi giocatori sauditi. Al 91esimo, Al-Owais viene caricato su una prese alta e ne nasce una mischia in area, spunta Julian Alvarez che batte sicuro a rete ma il pallone proprio sulla linea di porta trova la testa di Alamri. L’arbitro finalmente interrompe il gioco e i giocatori sauditi devono fermare il portiere di Renard dal commettere una follia. Al 95esimo l’azione che può riassumere la partita: sull’ennesima palla dal cielo nell’area avversaria, Al-Owais esce con le ginocchia alte e colpisce in pieno viso un suo compagno che stava correndo in direzione opposta, Al-Shahrani. La palla in qualche modo arriva appena fuori area a Messi, che ha l’occasione di tirare praticamente a porta vuota, se non fosse che tre giocatori di Renard si sono già piazzati sull’ultima linea. Il numero 10 argentino fa una prima finta, preferisce entrare nel labirinto di uomini dell’area avversaria, finisce per perdersi. Nel frattempo Al-Shahrani è ancora steso a terra, forse ha perso i sensi. L’arbitro sembra sopraffatto anche lui, ci mette un po’ a capire che la situazione è più grave del previsto e che il gioco va fermato. Siamo nel limbo del limbo: a metà degli otto minuti di recupero concessi sembra già passata un’altra partita. Appena l’arbitro fischia Al-Owais si mette le mani tra i capelli, disperato, sembra un uomo che si è appena reso conto di aver soffocato qualcuno a mani nude in un raptus omicida. L’interruzione del flusso della partita fa ricadere sul campo tutto il peso emotivo che i giocatori di Renard stavano portando senza rendersene conto. Al-Owais guarda in basso e grida, sembra fuori di sé, poi si siede a terra, la nuca tra le mani, e scoppia a piangere. Dopo qualche minuto, per fortuna, Al-Shahrani dà segni di vita.

La vana rincorsa finale, di fronte alla catarsi di questo momento, perde d’impeto, anche se la partita sembra non finire mai. Dopo il triplice fischio dell’arbitro rimane la gioia dei giocatori sauditi, più grande per la partita che hanno appena vissuto che per la storia che hanno appena scritto. Per l’Arabia Saudita è appena la quarta vittoria in un Mondiale, per Hervé Renard addirittura la prima. Per l’Argentina la lista di record storici è ancora più incredibile, e di fronte ad essa l’interruzione della striscia positiva di 36 partite sembra la minore delle sciagure. Per la Nazionale sudamericana è la prima sconfitta nella partita inaugurale dal 1990, la prima sconfitta dopo essere stata in vantaggio alla fine del primo tempo dal 1930. Forse è anche la prima volta nella storia del calcio che una Nazionale batte il suo ambassador per il turismo. Com’è potuto succedere?

Per l’Argentina è solo il primo turno del girone, teoricamente ci sarebbe tutto il tempo per recuperare, eppure questa sconfitta è stata talmente incomprensibile che è difficile pensare che non possa lasciare scorie. È bastato davvero poco, appena una partita andata storta, per trasformare l’hype della vigilia in panico. Nel mostrare i limiti delle scelte di Scaloni, aggrappato ad un gruppo che sembra più grande di qualsiasi CT. È giusto mettere in discussione il lavoro di un allenatore dopo una partita in cui l'avversario ha segnato due gol tirando tre volte? Eppure il Mondiale è così, il tempo è poco, e sarà inevitabile chiedersi se è davvero sostenibile, contro squadre intense, un centrocampo Paredes-Gomez-De Paul, se è davvero impossibile nel 2022 trovare un terzino sinistro migliore di Tagliafico.

Sabato l’Argentina torna in campo con il Messico e il tempo per non far deragliare tutto si sarà ridotto a 180 minuti. Ancora una volta l’Albiceleste aspetterà che Messi si riveli nella sua natura divina, mentre lui continua ad osservare con la più divina delle espressioni, quella apparentemente senza emozioni. Nella caduta libera della sua esperienza mondiale, il numero dieci argentino è passato per un’altra delusione. Il suolo adesso è pericolosamente vicino.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura