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Il posto di Westbrook nella storia
05 apr 2017
05 apr 2017
Realizzare 41 triple doppie in una stagione non dovrebbe essere possibile nella NBA contemporanea.
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Se i Fenici, quando hanno inventato i numeri, hanno sottovalutato l’ipotesi che poi potessero nascere gli americani (cit.), quando il leggendario Harvey Pollack all’inizio degli anni ’80 ha coniato il termine “tripla doppia” ha sottovalutato la possibilità che alla fine della decade potesse nascere uno come Russell Westbrook.

In realtà non è chiaro se sia stato il leggendario “Octopus” di Philadelphia a inventare quella definizione o se sia stato Bruce Jolesch, lo storico addetto alle PR dei Los Angeles Lakers (credo dipenda a quale costa degli Stati Uniti lo si chieda). Quello che è certo è che entrambi utilizzarono quelle due parole per cercare di incapsulare la grandezza di Magic Johnson, il primo playmaker in grado di cambiare il gioco della pallacanestro dai suoi due metri d’altezza, capace di segnare, andare a rimbalzo e distribuire assist in doppia cifra per 138 partite nella sua carriera. Ma per usare il paragone utilizzato da J.A. Adande ai tempi in cui scriveva per il Los Angeles Times, «Magic è per le triple doppie ciò che Elvis Presley è stato per il rock ’n’ roll: lo ha reso popolare, ma non è colui che ha dato origine allo stile».

Quel titolo appartiene di diritto a Oscar Robertson, che nel corso della storica stagione che va a concludersi avrete ormai sentito nominare centinaia di volte. A lui appartiene infatti «una delle cose più incredibili che io abbia mai sentito insieme ai 100 punti di Wilt» (Magic dixit), ovvero una stagione in tripla doppia di media, grazie a 41 partite (su 79 disputate) con almeno 10 punti, 10 rimbalzi e 10 assist. Una stagione, quella del 1961-62, che rappresenta un glitch nella storia della pallacanestro: solo in quell’anno Oscar fece quello che fece; Wilt, oltre a segnare i già citati 100, viaggiò a 50.4 punti e 25.6 rimbalzi di media al suo terzo anno di NBA; Elgin Baylor coi Los Angeles Lakers ne segnò 38.3 a partita con 18.6 rimbalzi mentre era in servizio militare nello stato di Washington (quindi poteva giocare solo nei weekend quando aveva il permesso), arrivando fino alle Finali NBA dove in gara-5 ne segnò 61 (ancora oggi record per le finali) con 25 rimbalzi. In tutto questo, a vincere il premio di MVP di quella stagione fu Bill Russell con quasi 19 punti e 23.6 rimbalzi di media (è sempre bene ricordare che le stoppate non venivano conteggiate, altrimenti è lecito pensare che anche lui e Wilt avrebbero potuto viaggiare in tripla doppia di media).

Ovviamente era una NBA completamente diversa rispetto a quella di oggi, basti pensare che le squadre erano solamente nove — i Chicago Packers di Walt Bellamy, 31.6 punti e 19 rimbalzi di media, erano al loro esordio — e Chamberlain poteva permettersi di non allenarsi praticamente mai, fare la notte in piedi per locali a New York, prendere un treno in tarda mattinata, presentarsi al palazzo in Pennsylvania e metterne C-E-N-T-O semplicemente perché quel giorno gli entravano i tiri liberi. Inoltre si giocavano uno sproposito di minuti (il leader di questa stagione, Kyle Lowry a 37.7 di media, entrerebbe a malapena nella top-15) e di possessi (107.7 tiri a partita di media, oggi sono 85.4) con percentuali rivedibili (42.6% contro l’attuale 45.7%, tutti dati dell’incommensurabile Basketball-Reference). Logico che in un ambiente del genere giocatori di valore straordinario come Oscar, Wilt, Elgin, Russell e Jerry West (che sarebbero fenomeni in tutte le decadi) dominassero contro un bacino di talento ristretto a poco più di un centinaio di avversari che probabilmente conoscevano per nome, e che mettere assieme cinque o sei di giocatori di alto livello dava la possibilità di vincere undici titoli in tredici anni come fecero i leggendari Boston Celtics in quei decenni.

Per oltre cinquant’anni si è pensato, a ragione, che certe cose non fossero replicabili nella NBA contemporanea: il numero di squadre è triplicato, il talento — tecnico, tattico e fisico — si è alzato a dismisura ed ha aperto i confini a tutti i giocatori del mondo, i metodi di allenamento e di prevenzione degli infortuni sono a un altissimo livello di professionismo, e così via. Insomma siamo letteralmente a un paio di universi di distanza rispetto a quello che era il contesto dei primi anni ’60. Per questo e per tantissimi altri motivi, quello che ha fatto Russell Westbrook stanotte — vale a dire eguagliare il record di triple doppie in singola stagione di Oscar Robertson a quota 41 — non appartiene a questo mondo. Non dovrebbe essere concepibile una cosa del genere. È una cosa di cui forse potremo capire il senso tra un paio di decenni, perché il continuo bombardamento “24/7” delle notizie che arrivano direttamente sui nostri smartphone hanno finito per far diventare ordinario — o, peggio ancora, sospetto — ciò che invece è per definizione straordinario.

Svegliarsi alla mattina e sorprendersi quando Russell Westbrook non fa una tripla doppia non è normale e quello che ha fatto non dovrebbe essere dato per scontato, mai. Basterebbe parlare con un qualsiasi giocatore NBA per capire quanto sia difficile arrivare a farne anche solo una, figuriamoci quarantuno. Il tutto riuscendo, al contempo, a trascinare alla vittoria una squadra che non avrebbe neanche lontanamente un record vicino a quello che ha ora con un rimpiazzo di medio livello (la statistica che prova a quantificare questo apporto, chiamata Value Over Replacement Player, indica che Westbrook è primissimo in NBA a quota 11.5, tre punti in più di James Harden).

Rimbalzo e assist del record a inizio terzo quarto.

Il contesto di squadra

Per qualche motivo — forse per la stanchezza di parlare sempre bene di un giocatore, o perché le cose belle ma sempre uguali tendono a stufarci dopo poco? — in alcuni angoli del web si è sparsa la convinzione che le triple doppie di Westbrook siano fini a se stesse, che siano solo numeri che non portano alle vittorie, o che siano uno sfoggio di egoismo di un giocatore che — qualunque cosa faccia, anche vestirsi — non riesce ad essere del tutto apprezzato da una parte degli appassionati di NBA, nonostante abbia una “fedina penale” infinitamente più pulita rispetto a tante altre superstar. A tal proposito, basterebbe citare una singola statistica (per di più non ha nemmeno il demonizzato aggettivo “avanzata”, così può essere compresa da chiunque): quando Westbrook va in tripla doppia, gli Oklahoma City Thunder vincono il SETTANTOTTO PERCENTO delle partite (32-9 il record); quando non ci riesce, il record crolla al 33.3% (12-24). Sulla base di questo semplicissimo assunto, come si fa ancora a sostenere che le sue triple doppie danneggino gli Oklahoma City Thunder?

Oltretutto non stiamo nemmeno parlando della versione dei Thunder con Kevin Durant e nemmeno quella che poteva contare anche su James Harden, per le quali (forse, magari, con un po’ di impegno e sforzandosi) si poteva sostenere che la sua grandezza individuale togliesse spazio e possibilità ai suoi talentuosi compagni. Ma con questa? Quando Westbrook non è in campo la situazione dei Thunder si fa drammatica (-9.2 di differenziale su 100 possessi, sarebbe ben peggio dei Lakers su base stagionale) mentre quando c’è i suoi compagni possono vivere di luce riflessa (+3.5 di Net Rating) e sopperire alle loro innegabili mancanze nella basilare capacità di mettere la palla nel canestro da soli. Il contesto attuale dei Thunder — una squadra dall’anima fortemente difensiva che si affida al suo genio per sopravvivere in attacco — ha certamente aiutato Westbrook ad accumulare le “counting stats” che servono per realizzare una stagione in tripla doppia di media, visto anche lo spropositato Usage Rate di quest’anno (con il 38.37% dei possessi utilizzati mentre è in campo è secondo solo al Kobe Bryant del 2005-06 nella storia della NBA). Ma la proporzione tra i meriti di Russ e l’influenza del contesto in cui gioca non può che essere nell’ordine dell’80-20 a star larghi. In altre parole: è indiscutibilmente Westbrook ad aver reso grandi i Thunder e non il contrario.

A volte è capitato che i compagni gli abbiano lasciato via libera per raccogliere rimbalzi difensivi senza che nessuno lo contestasse, ma i Thunder vanno meglio a rimbalzo quando c’è lui rispetto a quando non c’è e, soprattutto, se lui raccoglie il rimbalzo difensivo significa andare automaticamente in transizione, un must assoluto per una squadra con scarso talento offensivo (anche se l’efficienza si ferma al 24° percentile). Ovviamente è successo che restasse in campo per raggiungere i 10 assist necessari all’ennesima tripla doppia prima di uscire dal campo (molto spesso perché la partita era già stata vinta, come stanotte). E di sicuro è capitato che, dopo aver raggiunto la doppia cifra negli assist, Westbrook iniziasse a ragionare solo per conto suo attaccando a testa bassa, rendendo difficile trovare il giusto equilibrio tra la sua prolificità individuale e i giusti meccanismi di squadra. Ma la domanda basilare rimane: cosa avrebbe potuto fare di diverso per portare la sua squadra a vincere in maniera maggiore?

La verità è che le triple doppie di Westbrook sono state la trama principale di questa stagione di OKC, che senza di esse — o con un record perdente — i Thunder avrebbero passato fin troppo tempo a leccarsi le ferite e a cercare di rimettere assieme i cocci dopo l’addio di Durant, rimuginando su cosa-sarebbe-potuto-essere-e-invece-non-è-stato. La grandezza di Westbrook ha impedito che tutto questo succedesse, come quell’amico in grado di metterti un braccio attorno alle spalle e farti distrarre quando più ne hai bisogno. Così come qualche settimana fa i Phoenix Suns hanno festeggiato i 70 punti di Devin Booker nonostante la sconfitta perché era importante avere anche solo qualcosa di cui essere felici, Westbrook con la sua forza di volontà, la sua voglia di vincere e la sua inesauribile fonte di energia è stato il monolite a cui tutto lo stato dell’Oklahoma si è aggrappato per non scomparire sullo sfondo. Perché senza lui l’esistenza stessa della pallacanestro professionistica a OKC potrebbe essere in pericolo. E quanto valore ha questo, al di là del campo da pallacanestro o dei titoli di MVP?

Volontà di potenza su parquet.

Il contesto della lega

Così come il 1961-62 è stato un glitch nella storia della NBA, anche questa stagione con ogni probabilità passerà agli annali come un’annata fuori da ogni logica. E non solo per la corsa all’MVP più tirata da tempo immemore (e di cui parleremo settimana prossima), ma anche per le incredibili prestazioni individuali che ci sono state: basti pensare che il record di 78 triple doppie in una stagione è stato battuto a inizio marzo (al momento siamo a quota 110) e che LeBron James con 12 ha realizzato la sua miglior prestazione della carriera — ma solamente la terza di quest’anno.

In questa stagione la lega sta attraversando un’esplosione senza precedenti, con attacchi sempre più efficienti — sono ben cinque sopra i 110 punti su 100 possessi, una soglia superata solo gli Warriors delle 73 vittorie nella scorsa stagione mentre l’anno prima non è riuscito a nessuno — che sembrano ormai aver preso un passo di vantaggio sulle difese, complici volumi di tiri da tre sempre maggiori. Dal 2011-12 in poi la NBA è passata gradualmente da 18.4 triple tentate a partita alle attuali 26.9, quasi tre in più rispetto allo scorso anno. Il campo così aperto rende difficile coprire distanze così lunghe anche alle migliori difese, e porta a contesti in cui è possibile avere nove giocatori sopra i 50 punti nella stessa stagione (anche questo un record nella storia della NBA) e tutte le triple doppie a cui abbiamo assistito. È la geometria stessa del gioco ad essere cambiata, e in un ambiente così aperto una belva atletica e mentale come Westbrook (che per la verità gioca nella terz’ultima squadra nel tiro da tre per percentuali) trova terreno fertile per imporre la sua dittatura.

Quello che non deve andare perso, al di là dei numeri e del secondo titolo di capocannoniere in arrivo, è il modo in cui la stella dei Thunder riesce a piegare il gioco secondo la sua volontà, riuscendo ripetutamente nella cosa più difficile in assoluto nella NBA: prendere in mano una partita e deciderla da solo nei finali di gara, gli stessi che fino all’anno scorso erano il suo più grande difetto. A testimoniare la sua assoluta padronanza del contesto vengono alla mente i 14 punti in trasferta a Washington a inizio stagione, il parziale solitario di 14-0 agli Utah Jazz, dieci dei dodici finali a Dallas o la rimonta da -21 a Orlando, suggellata all’overtime da 57 punti (massimo di sempre con una tripla doppia). E si potrebbe andare avanti citando l’altra tripla doppia ai 51 realizzata contro Phoenix, la tripla doppia senza errori al tiro contro Philadelphia, o anche il fatto che solamente due squadre — Chicago (per un rimbalzo) e Portland (contro cui però ha realizzato il massimo in carriera da 58) — non abbiano subito il Trattamento Tripla Doppia By Russell Westbrook.

Altri record sparsi, in attesa che nei prossimi giorni superi e si lasci alle spalle Robertson come ormai appare inevitabile: con la tripla doppia contro Milwaukee ha raggiunto Wilt Chamberlain al quarto posto della classifica-all time a quota 78 (quindi era a 37 prima di questa stagione…); ha una striscia aperta — la seconda stagionale — di 7 triple doppie consecutive, come solo Jordan era riuscito a fare in epoca contemporanea (ma solo una volta), e il record di Chamberlain a nove è alla portata; il totale di quest’anno sarebbe, da solo, nella top-10 delle carriere NBA (LeBron mantiene le distanze con 54); Westbrook è il primo giocatore attorno all’1.90 di altezza (almeno ufficiale, anche se pare generoso) a chiudere una stagione a 10 rimbalzi a partita; per la matematica certezza della tripla doppia di media mancano solo 16 assist, quota che lui ha raggiunto già sette volte quest’anno (tra cui il career-high da 22).

Tutti questi, per alcuni, potranno anche essere solo numeri, e di certo non aiuteranno le possibilità dei Thunder ai playoff quando con ogni probabilità dovranno affrontare gli Houston Rockets e James Harden, con i quali c’è una rivalità sotterranea solamente esacerbata dallo scontro tra i due per il titolo di MVP e che si propone come la serie di primo turno più interessante, almeno sulla carta. Ma indipendentemente da come andrà a finire, quello che ha già fatto Westbrook è pura e semplice leggenda: replicare (o superare) nella NBA del 2016-17 un record che non veniva avvicinato da oltre cinquant’anni è fuori da ogni logica. E che vinca o non vinca il premio di Most Valuable Player, come ci insegna il fatto che ancora oggi stiamo parlando di Oscar Robertson, conta solo fino a un certo punto.

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