Scortato dai lampeggianti della polizia, il pullman nero con gli specchietti rossi in fuori che sembrano le antenne di un insetto esce dal tunnel di fianco a Casa Milan. I tifosi scendono dalle banchine ai lati, all’inizio pochi, timidamente, poi il pullman con dentro la squadra rallenta e i tifosi sono sempre di più, finché si ferma del tutto. Dietro il vetro si fa avanti un giocatore, prende la coppa dorata della Serie A - con quella forma semplice e vagamente primitiva, da “coppa” in cui mettere il gelato, solo gigante - e la poggia sul cruscotto, si mette a saltare e a cantare i cori dei tifosi. Il pullman riparte, si muove lentamente tra la gente come una balena in un banco di sardine, e il giocatore resta lì, sulla ribalta, illuminato dalle lucine del tetto sopra e dai riflessi della coppa che tiene davanti.
Zlatan Ibrahimovic quest’anno ha giocato appena undici partite da titolare in campionato, tutte nella prima parte di stagione, quando ha segnato i suoi otto gol. Dalla fine di gennaio non è mai stato nell’undici di partenza e ha realizzato solo un assist. Eppure è lui che,più tardi scenderà dal pullman per primo, sempre con il trofeo in mano. Ed è stato lui che, prima, nello spogliatoio ha fatto il discorso della vittoria alla squadra. «Tranquilli», ha detto chiedendo silenzio, «non smetto». Era una precisazione doverosa: a ottobre compirà 41 anni e il suo contratto è in scadenza. Eppure, appunto, è un leader indiscusso di questa squadra. Ogni giocatore ha un aneddoto su di lui o ne racconta impressionato il carisma. «Quando Zlatan parla, noi ascoltiamo» ha detto qualche tempo fa Theo Hernandez. «È un po’ come un fratello maggiore. Persino per me», ha detto invece Giroud, che di Zlatan è quasi coetaneo.
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Il modo in cui Zlatan Ibrahimovich sta invecchiando non è privo di significati. Anzitutto per come lui stesso si è raccontato in questi anni, un Benjamin Button che più passa il tempo ringiovanisce, migliora; una retorica che continuava a portare avanti sui propri social, con post in cui calciava in porta e commentava : «Decido io quando smettere», o in cui sotto una foto presa mentre correva scriveva: «Io fermo il tempo», post che, va da sé, contrastavano con il semplice fatto che in quello stesso periodo non stesse giocando o quasi. E che, come ha confessato solo dopo lo Scudetto vinto, sono sei mesi che sta giocando «senza un legamento».
Certo sarebbe ingenuo prendere alla lettera quello che dice Zlatan il personaggio, o se preferite Zlatan il brand; più sinceramente, nel podcast di ESPN Gab & Juls, quando Gabriele Marcotti gli ha chiesto se stava pensando al “prossimo capitolo”, Zlatan ha ammesso di «avere un po’ paura» del momento in cui smetterà. «Sto cercando di spingere la linea del traguardo il più lontano possibile», ha detto, aggiungendo però che deve stare bene se vuole continuare a giocare: «Non ha senso giocare se soffri troppo».
Ancora più in profondità, però, c’è il tema del ricordo. Cosa rimarrà di Zlatan Ibrahimovic? Quale sarà la sua eredità sportiva? Che si tratta di uno degli individui più eccezionali che abbiano mai giocato a calcio è ormai un’opinione piuttosto condivisa. Io stesso, in un libro pubblicato un anno fa, riflettevo che non sarebbe cambiato niente di importante vincendo il trentaquattresimo titolo della sua carriera - che adesso ha vinto - ogni sua nuova realizzazione servirebbe solo a renderlo un po’ più eccezionale di quanto già non lo sia. Che di fatto, per noi, si tratta solo di continuare a vederlo il più a lungo possibile, sperando che possa ancora avere un momento dei suoi. Per Zlatan però non sembra fermarsi qui la questione.
Dopo la vittoria di questo Scudetto, gli è stato ovviamente ricordato quello del 2011. L’ultimo vinto dal Milan, con Ibrahimovic in campo. Per lui era stata una vittoria fondamentale per rimettersi dalla delusione del Barcellona e dimostrare a tutti di essere un giocatore decisivo, che le squadre in cui giocava lui vincevano quasi automaticamente. Prima di Parigi e dell’infortunio di Manchester, prima di volare a Los Angeles per diventare un’icona mondiale. Confrontando i due momenti, Zlatan dice di essere cambiato, di avere più esperienza, e soprattutto che stavolta non lo ha fatto - cioè non ha vinto - per se stesso. «Due anni e mezzo fa sono arrivato qua e ho lasciato la mia famiglia in Svezia, ero molto oggettivo (sic, sinceramente non ho capito cosa intendesse dire), per aiutare il Milan, la squadra, il Mister e per portare gioia ai tifosi». E poi: «Tutto questo per altri, non per il mio ego. Ho portato zero ego in questa avventura».
Anni fa Ibrahimovic diceva che «non puoi vincere venti trofei se sei egocentrico», adesso sembra ammettere un minimo cambiamento. D’altra parte il confine tra quello che una persona fa per se e quello che fa per gli altri, quando quella persona è anche un simbolo, quando rappresenta qualcosa di più grande di se stesso per chi lo guarda, non è così netto. Nel 2014 Zlatan rifletteva su una leggenda del calcio svedese, Henke Larsson, che è stata anche una leggenda del calcio scozzese, vincendo quattro campionati e segnando 242 gol con la maglia dei Celtic Glasgow. Intervistato dallo Scotsman, Ibrahimovic aveva detto di capire perché Larsson, pur avendo avuto la possibilità di giocare in campionati più prestigiosi, fosse rimasto così a lungo nei Celtic, e che ogni calciatore avrebbe voluto finire la carriera davanti a quel pubblico.
Che per Ibrahimovic esistessero le altre persone era una cosa che, quasi dieci anni fa, quando era universalmente visto come il modello del calciatore egoista, che si considera più grande delle squadre in cui gioca, suonava di per sé strana. E suona meno strana oggi, dopo averlo visto per una stagione intera a bordocampo. A scaldarsi come un T-Rex di ricambio nel caso in cui ci fosse un buco di sceneggiatura nell’ultimo Jurassic Park.
Nella preparazione della partita con la Fiorentina - pochi giorni dopo la sconfitta dell’Inter a Bologna, quindi decisiva per prendersi quella testa della classifica che il Milan poi non avrebbe più mollato e che ho avuto la fortuna di vedere a San Siro - Zlatan era fermo al limite dell’area a restituire i passaggi ai compagni che dovevano provare i tiri. Non c’era un passaggio normale, comodo, sembrava che si divertisse a mettere i propri compagni in difficoltà, e che al tempo stesso fosse impossibile per lui fare una cosa normale, rendere davvero un servizio agli altri. O magari, mi chiedo anche, quello era il suo modo per tenere alta la «pressione», come ha più volte detto in stagione, forse voleva mettere i propri compagni davanti agli imprevisti che poi avrebbero trovato in partita?
Ibrahimovic resterà per noi un mistero insolubile. Il calciatore più individualista degli ultimi anni, col talento più irriducibile a qualsiasi compromesso tattico, che in una manciata di stagioni si è trasformato in un uomo squadra. Non gliene fregava un cazzo della storia del club dove era finito, o della città, della tradizione calcistica francese, della storia della MLS. Gliene fregava solo della sua storia. Era troppe cose per trovare interesse al di fuori di sé. Un giocoliere, un buffone, un bullo, un sicario, la Gioconda, un videogioco, un survivalista con un’isola tutta sua e animali da cacciare, laghi ghiacciati in cui immergersi. Si pensava sarebbe tornato in Svezia, al Malmoe che aveva lasciato all’improvviso da giovanissimo, gli avevano persino costruito una statua fuori dallo stadio del club, poi però ha comprato una squadra rivale la sua statua è stata abbattuta, fatta a pezzi, mutilata forse per scopi apotropaici, per allontanare la sua influenza maligna.
Ibrahimovic sta invecchiando per sottrazione. Gli è stata tolta l’esplosività e la forza muscolare che bruciava gli avversari sul posto, che lo rendeva troppo spigoloso e grosso per chiunque, un’auto in corsa lanciata contro la vetrina di un negozio di ceramiche, ed è diventato (lo scorso anno e nella parte finale del 2020) un punto di riferimento statico e un finalizzatore da area piccola, un cowboy con la mano sempre sulla fondina, sempre pronto al duello finale. Era poco, rispetto a quello che è stato, ma gli bastava per poter guardare negli 50mila persone e sfidarle senza nessuna paura. Poi gli è stata tolto anche questo, la capacità di dominare anche se da fermo e addirittura di restare in campo, di giocare «divertendosi», come ha detto lui a ESPN.
È miracoloso, in questo contesto, riguardare l’assist per Tonali nella partita con la Lazio, il modo in cui si flette per deviare la palla di testa in direzione del compagno, saltando appena, vedendo oggi una fragilità di cui allora - ad aprile - non sospettavamo neanche. Gli è stato tolto un legamento, la possibilità di allenarsi sul serio, di dormire come si deve (a causa del dolore), e comunque è rimasto Zlatan Ibrahimovic.
Difficile dire chi o cosa sia oggi Zlatan. Sembra più un dirigente di un calciatore ma non mi stupirei se tra un anno - dopo l’operazione subita a Lione e i sette/otto mesi di cui si parla oggi come periodo di riabilitazione - avesse risolto i problemi fisici e tornasse davvero dominante. Certo non avrei voluto vederlo dare l’addio; voglio, come tutti, che ci provi fino all’ultimo, proprio come lo vuole lui. E sarebbe assurdo se non lo facesse con il Milan, adesso che ha trovato davvero un posto in cui sentirsi a casa.
Se posso azzardare un paragone con un altro calciatore che ho amato profondamente, e che da simbolo di egoismo, eccentricità e alienazione, questa coda finale di carriera di Zlatan mi fa pensare agli ultimi anni di Cantona con lo United. Con le dovute proporzioni, certo, ma anche Cantona ha capito tardi (dopo aver pensato di andare a giocare in Giappone per quanto il suo rapporto con il calcio francese era compromesso) cosa significava fare qualcosa "per gli altri" e, dopo la squalifica di otto mesi per il calcio volante al tifoso del Crystal Palace, ha avuto un'influenza ridotta in campo e sempre più grande fuori. Al punto da diventare un simbolo immateriale tanto che Ken Loach, nel film Il Mio Amico Eric, fa di lui un'apparizione mistica che emerge dal subconscio di un tifoso per aiutarlo a migliorare la propria vita. Anche Ibrahimovic ormai va oltre quello che può realisticamente fare, anche Ibrahimovic ormai in un certo senso esiste al di fuori di se stesso.
La sua ultima giocata, per ora, l’ultima palla che ha toccato, l’ha spedita a fondo campo di esterno, provando un lancio profondo per Leao da trequarti di campo. Leao non ci sarebbe arrivato neanche con un motorino con la marmitta rigirata sotto al sedere, ma ha comunque rivolto un gesto di scuse al compagno di squadra. Quindi Zlatan, il motivatore spietato, che fissa lo standard di qualità sul suo talento sovrannaturale, è diventato il compagno a cui l’MVP del campionato e il giocatore più decisivo del finale di stagione, non fa pesare l’errore?
Nello discorso fatto nello spogliatoio Ibrahimovic si è un po’ perso e il suo italiano non proprio fluente sembrava sul punto di tradirlo quando ha trovato una chiusura delle sue: «Festeggiate come campioni perché Milano non è il Milan… Italia è il Milan!». Ruggendo e ribaltando in modo teatrale il tavolino da campeggio che aveva davanti, facendo esplodere lo spogliatoio. E poco più tardi, davanti a Casa Milan, ha ripetuto quello stesso concetto, infuocando ancora di più la folla. Quella frase se l’era preparata in anticipo? Gli era stata suggerita da qualcuno? E cosa vuol dire con «Italia è Milan», che l’Italia è del Milan? Ma poi, importa qualcosa?
È uscita da lui così improvvisamente ed era così nel personaggio che Zlatan sembra uno di quegli attori così bravi da essere in grado di fingere smarrimento in scena, come se avessero dimenticato le battute, mandando nel panico i colleghi fino a un attimo prima di tornare nei panni che vestono e dire quello che dovevano dire. Ma se guardate il sorriso che ha quando parla dall’alto del suo piccolo podio, guardando i tifosi, vi accorgerete che la cosa che più importa è aver trovato finalmente il suo pubblico.
Zlatan è ancora Zlatan e, probabilmente, continuerà ad esserlo anche dopo la linea del traguardo. Anche senza giocare, giocando poco, male, senza un ginocchio. Oppure tornando in forma e schiacciando di nuovo i suoi avversari come un bambino annoiato fa con le formiche. Che cambia? La cosa davvero importante è che finalmente Zlatan Ibrahimovic - il calciatore, il personaggio, e non solo il padre di famiglia che ha avuto intorno molte persone che lo hanno amato in questi anni - non è più solo. Ha trovato la sua gente. Quello che farà, qualsiasi cosa sia, non sarà solo per se stesso. Era così anche da prima, ma solo adesso ce ne rendiamo conto fino in fondo.