In occasione del 52esimo compleanno di Eric Cantona pubblichiamo questo estratto, tratto da “Cantona – Come è diventato leggenda”, di Daniele Manusia, che potete acquistare qui.
Nel Dvd ufficiale del Manchester United dal titolo Eric The King, con coypright 1994, c’è un capitoletto dedicato alla questione dell’«enfant terrible». Per tutta la durata dell’intervista Eric sta seduto su uno sgabello dall’aria scomoda, inquadrato frontalmente con una luce un po’ sparata e un fondo scuro. Sembra più uomo. Forse per via dei capelli corti tenuti all’indietro dal gel (con le righe lasciate dai denti del pettine) o perché porta la giacca (marrone chiaro, con sotto un gilet nero, camicia azzurra e cravatta violetta). In generale fa l’effetto del contadino ripulito ma parla con un tono calmo e sicuro (in francese, doppiato, ma a Manchester per le conferenze aveva un interprete).
Eric dice: «Il perfezionismo non si insegna, è un bisogno». Si chiede: «Cos’è l’arte?», e si risponde: «L’arte è spontaneità».
Fa l’esempio dell’attore che cerca di recitare una battuta come un bambino, del pittore che cerca la libertà del gesto, dello scrittore che assolutamente non deve tornare su quello che ha scritto, come facevano i surrealisti con la scrittura automatica.
Il calcio è la più bella delle arti, unisce alla spontaneità l’efficacia. Alla bellezza di un gol la sua importanza, la sua necessità e «se non sei spontaneo non puoi avere successo».
Vediamo un’entrata a forbice da dietro su un giocatore del Norwich, Jeremy Goss (peggiore di quella fatta su Der Zakarian, con i tacchetti orientati verso l’interno del ginocchio di Goss, e l’espressione rabbiosa di Cantona nel replay è abbastanza significativa nonostante i pochi pixel a disposizione). Lui commenta: «Non posso avere la passione che ho, una specie di fuoco che chiede di uscire, senza che questo fuoco a volte faccia danni. E danneggi me stesso. Sono consapevole di farmi del male e di farne agli altri. Sono consapevole di deludere quelli che non capiscono che non posso essere quello che sono senza questo lato della medaglia».
Qui interviene la voce di Ferguson: «Gliel’ho detto: non entrare in tackle, perché non sai farlo e ti fai ammonire».
Ferguson, con la felpa grigia con le iniziali AF e un’aria più umana di quella che ha adesso (aveva appena conosciuto il vero successo), dice che probabilmente il suo comportamento non è migliore dopo la partita, quando riprende i suoi giocatori negli spogliatoi (lo chiamavano «l’Asciugacapelli» per come gridava in faccia ai calciatori e nel 2003 nella foga di una sconfitta calcerà uno scarpino in faccia a Beckham ferendogli un sopracciglio).
Una scenetta istruttiva: Ian Culverhouse, giocatore del Norwich, un tipo belloccio dall’aria delicata, gli si aggrappa alla maglia da dietro e cadono entrambi in terra. Culverhouse si alza rapidamente e si rimette a correre verso la palla come se niente fosse. Cantona invece si gira frontalmente verso di lui e senza scomporsi gli dà un calcio colpendolo in mezzo alle gambe e mandandolo di nuovo a terra. Subito dopo Cantona e Culverhouse litigano per la palla. Il giocatore del Norwich, in un modo anche divertente, gliela allontana tenendola sotto braccio, scuote la testa e solleva il dito indice come farebbe un padre per riprendere il proprio figlio. Eric la smette e l’arbitro non l’ammonisce neanche.
«Le persone che amano vincere hanno tutte questo carattere, no? Non gli piace perdere, e ognuno reagisce in modo diverso di fronte alla sconfitta», dice Ferguson.
Eric non è infastidito a parlare di queste cose. «Non devo giustificare niente, non ho nessun rimorso. Sono quel che sono e non posso cancellare i brutti gesti perché sono una parte di me. Il problema è che devo restare me stesso e contemporaneamente eliminare questa parte di me. È difficile. Ci ho provato in passato, ma poi mi sono perso, ho perso il mio gioco. E non devo perderlo. Devo trovare una soluzione e credo di averla trovata».
Pausa. Adesso Cantona non sta più facendo il video per i suoi tifosi. Sta succedendo qualcosa di diverso. Giurerei che è cambiata la luce nei suoi occhi, anche se è solo il riflesso delle luci dello studio. «E credo di averla trovata. Voi non lo sapete ma ho trovato una soluzione.» Ride e ripete: «L’ho trovata, l’ho trovata…» Guarda in terra verso sinistra mentre pensa, ma quando parla si rivolge a qualcuno dietro la telecamera, vuole persuadere quella persona di fronte a lui, il livello di sincerità è altissimo e così finisce per persuadere me.
«Ma non…», continua Cantona, «non devo provare a spiegarlo. Non devo spiegarlo e non è una cosa da sapere. Si dovrà constatare. Perché non posso spiegarlo.»