Esattamente un anno fa Marco D’Ottavi si interrogava sul senso di questo premio, e si rispondeva «è il senso dei calciatori che resistono, non così scarsi da potersi arrendere all’inevitabile discesa nelle serie minori, ma neanche così forti da meritare attenzioni particolari fino alla fine delle loro carriere».
Quest’anno avrebbe potuto vincerlo Goran Pandev, uno di quei giocatori che confonde la percezione della continuità temporale. Gioca da sempre ma chissà da quanto, e chissà per quanto ancora, e chissà quanto tempo è passato realmente da quella doppietta al Real Madrid: sembra ieri, sembra passata un’eternità. Avrebbe anche potuto vincerlo Mariano Izco, uno di quei giocatori che è passato inosservato per anni, riempitivo di formazioni ignorate e custode di misteri indecifrabili, del tipo come è possibile che sia rimasto al Catania per otto anni di fila, e che lungo questo periodo il Catania abbia sempre giocato in Serie A.
Oppure avrebbe potuto vincerlo Bacary Sagna, uno di quei giocatori di cui si attende l’esplosione per una vita, poi la vita scorre e così anche loro, senza fare rumore: un giorno li vedi giocare gli ottavi di Champions, un anno dopo giocarsi la salvezza con il Benevento, dopo aver trascorso sei mesi senza squadra. Sagna è stato votato meno degli altri candidati, forse perché il suo passaggio dal Manchester City di Guardiola al Benevento di De Zerbi è stato troppo clamoroso, e il ricordo della finale degli Europei da titolare troppo fresco. Questo premio vuol essere anche un omaggio a una particolare forma di illusionismo, la capacità di sparire dalla memoria collettiva.
Cossu non è stato apprezzato abbastanza
Oltre che discreto illusionista in termini di controllo e protezione del pallone, Andrea Cossu è sempre stato bravo a nascondersi. Non è stata soltanto colpa dell’indole riservata e schiva, che pure si percepisce limpidamente quando parla, come quando nel 2010 rispose «per me sarebbe davvero difficile lasciare il Cagliari» a una domanda su un presunto interesse del Barcellona.
Non sapremo mai se viviamo davvero in un mondo in cui il Barcellona ha messo un occhio su Cossu, ma per quel che vale qualche anno dopo gli hanno chiesto se avesse mai ricevuto offerte per lasciare il Cagliari, e ha risposto: «ci sono state, soprattutto nel 2010, anche importanti, ma a me non è mai interessato».
Cossu ha messo insieme parecchi assist nella sua carriera, questo è l’ultimo.
In quel periodo Cossu aveva appena compiuto trent’anni, uno dei tanti paradossi di una carriera in cui è successo tutto sempre troppo tardi.
Anche il ritorno nella città natale è arrivato relativamente tardi, per un cagliaritano, innamorato di Cagliari, tifoso del Cagliari, e dotato di un grande talento per il gioco del calcio. Le strade si sono incrociate nuovamente nel gennaio 2008, mentre Cossu era disperso nelle categorie minori del calcio italiano, aveva appena rescisso il contratto con il Verona e non aveva più speranze di diventare un calciatore di alto livello.
Il Cagliari era ultimo in classifica, dopo aver chiuso il girone di andata a dieci punti, e provava una di quelle cose disperate che si provano a gennaio quando va tutto male, richiamare il talento di casa inesploso. La vita di Cossu subì una svolta inattesa: «una domenica giocavo con il Verona ultimo in classifica in C1 in casa della Pro Sesto, due settimane dopo ero il trequartista del Cagliari a Torino contro la Juventus».
Seguirono tre stagioni consecutive in doppia cifra di assist, 47 in 101 partite. Al termine della seconda, venne tagliato all’ultima scrematura dalla lista dei convocati al Mondiale sudafricano, a cui avrebbe meritato di partecipare, quantomeno a posteriori. Secondo le cronache dell’epoca, Lippi gli preferì all’ultimo Camoranesi.
Poi il tempo tornò a presentare il suo conto, e il declino fu lento e inesorabile. Quando ha abbandonato il Cagliari nel 2015, dopo una dolorosa retrocessione, i tifosi gli hanno acceso fumogeni sotto casa per omaggiarlo e hanno soffocato insieme la sensazione di non esserselo goduto abbastanza.
In quel momento Cossu era ancora un giocatore di visibile talento, per quanto faticasse a stare in piedi ai ritmi della massima categoria. È andato a giocare con l’Olbia in Serie D e ha conquistato subito una promozione. Si è sistemato davanti alla difesa e si è divertito a disegnare lanci morbidissimi verso l’area di rigore avversaria. Nei pochi reperti video disponibili sul canale Youtube dell’Olbia Calcio, si intuisce come si muova con un’eleganza e una sicurezza decisamente fuori contesto.
In estate è tornato a Cagliari per un’altra stagione, ma i dubbi su cosa sarebbe stata la sua carriera se fosse decollata per tempo non si sono sciolti.
Questo lancio preciso fa da premessa a un gol dell’Olbia.
Cossu non ha mai avuto fretta
Sulla carriera di Cossu prima del gennaio 2008 è avvolto un velo di mistero. Si sa che è stata divisa tra Verona, che ne deteneva il cartellino, Lumezzane, che del Verona era squadra satellite, e un paio di prestiti in Sardegna, dove tornava per spezzare la nostalgia. Quando aveva una domenica libera, andava a vedere il Cagliari in curva con gli Sconvolts, un gruppo ultras di cui si è tatuato lo stemma sul polpaccio destro.
I giornali lo notano quando ha già compiuto ventun anni. «È uno dei punti di forza della Primavera del Verona», scrivono. «Una pedina fondamentale, un giocatore che sembra pronto per fare il salto di qualità». In quel momento il Verona è settimo in Serie A, ma quando gli prospettano la possibilità di un trasferimento alla Torres, che fatica a restare in C1, risponde: «accetterei di corsa, sarebbe una grande opportunità». La carriera di Cossu riflette l’immagine di un professionista che non sente nessuna urgenza, se non quella di ricongiungersi il prima possibile con la propria terra d’origine.
Se il senso di questo premio è quello dei giocatori che resistono, Cossu lo merita anche solo per aver resistito (e chissà per quale motivo) tutti quegli anni a Verona, con la nostalgia di casa, parcheggiato a ventun anni nel campionato Primavera, contro avversari più piccoli e più scarsi di lui. Può darsi non fosse ancora quell’elegante regista offensivo che abbiamo ammirato anni dopo in Serie A, ma di sicuro era quel tipo di giocatore che il nostro calcio non è stato in grado di valorizzare durante gli ultimi anni di vacche grasse: molto tecnico, molto intelligente, poco fisico, poco presente in zona gol.
In quel periodo Verona era in preda alla frenesia, come molte altre piazze, e l’allenatore veniva sostituito di anno in anno, in attesa che qualcuno funzionasse, nonostante una serie di candidati autorevoli come Colomba, Malesani e Ventura. Nessuno di questi è riuscito a trovare un posto a Cossu. Prevalentemente è stato confinato nel ruolo di ala, isolato rispetto alle reti di circolazione della palla.
Dunque non è stata soltanto colpa dell’indole riservata e schiva, che pure lo ha portato ad accontentarsi, a farsi bastare quello che aveva, ad accettare la sua condizione. È stata anche colpa di un contesto penalizzante, che ha pagato tutta la generazione di calciatori italiani nati negli anni Ottanta, e poi allevati all’interno di giovanili disastrate, di una scuola tattica inaridita, di società dai conti in rosso e i bilanci truccati.
La lezione di Cossu
Questo campionato di Cossu è stato poco più che una passerella per permettergli di chiudere la carriera con il Cagliari: 11 presenze di cui soltanto 2 da titolare, e le restanti per poche manciate di minuti allo scadere delle partite. Ha giocato solo 236 minuti, ma ha trovato il tempo di firmare un assist contro l’Udinese, a posteriori decisivo, battendo un calcio d’angolo sulla testa di Ceppitelli.
Un Cossu di fine campionato, contro la Roma: nasconde la palla a Schick e scarica un fendente diretto in area di rigore, come ai vecchi tempi.
Nel complesso ha creato 1.9 occasioni ogni 90 minuti, una cifra dignitosa rispetto alla media del campionato, ma lontana dai livelli di eccellenza del 2010/2011, quando ne creava 4.2 p90. Ha passato il pallone con il 74% di precisione, anche questo un buon dato ma lontano dagli anni migliori in cui gravitava intorno all’80%.
Nelle immagini di quegli anni, Cossu ricorda molto Insigne: un fantasista brevilineo, con il baricentro basso, grande sensibilità in entrambi i piedi, eccellente visione di gioco, senso del ritmo e dei movimenti nello spazio, particolare predilezione per la giocata a rientrare verso l’interno del campo con cross sul secondo palo.
Persa la capacità di correre con il pallone incollato a uno dei due piedi, Cossu è diventato un giocatore dalle opzioni limitate, un ottimo passatore con poche possibilità di rendersi utile altrimenti. Può darsi che la carriera di Insigne seguirà un’evoluzione simile, ma quel che conta è che sia decollata ben prima dei 27 anni, quando Cossu ha avuto la sua prima occasione in Serie A.
Questo premio dovrebbe essere assegnato a un giocatore che per un periodo abbiamo conosciuto abbastanza da ricordarne il nome e poi è scivolato in un anonimato sereno, silenzioso, anche leggermente tardivo. Considerando la somma combinata di sfighe, eccessi di umiltà, ipotesi di ritiro anticipato, Cossu è un totem di questa categoria.
Come Pandev, ha avuto dei picchi di assoluta brillantezza in un passato sempre più remoto. Come Izco, ha trascorso anni nella mediocrità del centro-classifica prima di scivolare nell’oblio. Come Sagna, è risalito dagli inferi del semi-professionismo e ha saputo ricostruirsi una carriera che sembrava finita.
La storia di Cossu è quella di tanti altri trequartisti bassi e leggeri che non trovano spazio nel professionismo, solo un po’ migliore. Quegli anni persi nelle categorie inferiori sono l’esempio perfetto di come una certa retorica italiana sul calcio di provincia abbia troncato lo sviluppo del talento nei piccoli centri. Oggi potrebbe svernare tra i dilettanti e divertirsi con i lanci lunghi verso le punte, ma si è preso il diritto di lasciare il più tardi possibile quella Serie A che ha raggiunto più tardi del dovuto.