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29 mag 2017
29 mag 2017
La vittoria morale nascosta sotto la sconfitta in finale di Europa League.
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A un certo punto del primo tempo, mentre Davinson Sanchez avanzava dalla difesa senza la minima idea di cosa fare col pallone, è sembrato chiaro: si sarebbe potuto continuare a giocare per altre quattro ore, ma l’Ajax non sarebbe mai riuscito a penetrare il muro di gomma alzato dal Manchester UTD di Josè Mourinho.

È stata una partita brutale in cui la squadra più costosa al mondo ha scelto una strategia reattiva, preoccupandosi solo di distruggere il gioco veloce ed esuberante di una formazione di ventenni. Non è stata solo una finale dalla grande tradizione storica, ma anche uno scontro tra filosofie e modi profondi di interpretare il calcio: l’intelligenza cinica di Mourinho contro la sfrontatezza di Peter Bosz che si è affidato al suo solito piano gara con cieco ottimismo; il potere economico del Manchester UTD, che acquista i migliori giocatori al mondo, contro la progettualità pedagogica dell’Ajax, che alleva i talenti che poi saranno acquistati dalle squadre più forti.

Esistono le vittorie morali?

In questo senso, non era difficile interpretare la finale di Europa League come una lotta tra il bene e il male. A fine partita, Peter Bosz si è presentato davanti ai microfoni con l’aria di chi è sceso a patti con l’ingiustizia: «Siamo andati in svantaggio e sapevamo sarebbe stata difficile, abbiamo avuto poche opportunità, ma anche loro: hanno giocato a palle lunghe, non siamo riusciti a creare occasioni. Credo sia stata una partita noiosa. Bisogna dare credito allo United, sono stati bravi in difesa, han difeso con tutti i giocatori ed è stato difficile trovare spazi».

In un contesto senza spazi e senza ritmo, il Manchester ha vinto sfruttando due piccole occasioni, approfittando dell’ingenuità dell’Ajax con la freddezza chirurgica tipica dei villain dei fumetti. Qualcuno si è lamentato di questo totale disinteresse verso la dimensione del piacere in qualcosa che, in fondo, dovrebbe essere un gioco. “I poeti non vincono i titoli” ha risposto Josè Mourinho, con il cinismo che lo ha reso Cristo in Italia e Anti-Cristo in Spagna.

Nel mondo di Bosz, che è il mondo dell’Ajax, esiste un ordine morale diverso. La partita ha indicato un vincitore e uno sconfitto, ma si può davvero dire che qualcuno abbia vinto al termine di una partita così brutta? È la solita dicotomia morale tra estetica e risultati che non sembra mai trovare un compromesso nella storia del calcio.

Due settimane prima della finale fuori dall’Amsterdam Arena c’erano 5mila persone a cantare per i giocatori dell’Ajax reduci dalla vittoria per 4 a 1 contro il Lione. I giocatori dell’Ajax si affacciavano dalla balconata dirigendo i cori con l’imbarazzo tipico dei ventenni. È il tipo di celebrazione che si riserva di solito ai trofei vinti e non alle semifinali, per quanto importanti, ma nell’universo dell’Ajax la partita contro il Lione ha assunto dei significati che vanno ben oltre il semplice risultato, che hanno a che fare con l’orgoglio, l’identità e il senso del ritorno.

Dopo tanti anni l’Ajax aveva finalmente offerto una grande prestazione europea, e lo aveva fatto rispettando la propria identità profonda. Con una squadra zeppa di giovani talenti e una proposta di gioco offensiva e sfrontata. Quella sera l’Ajax aveva già ottenuto la propria vittoria: ricollocarsi sulla mappa d’Europa, ridare colore alla propria autorità morale sfiorita sul calcio Europeo. Un tipo di vittoria che la sconfitta in finale non ha certo cancellato.

Il topos del ritorno - inteso in senso profondo, di ritorno alle proprie origini - è stato molto usato dall’Ajax per la narrazione di questa finale europea. Lo ritroviamo, ad esempio, nel commovente video promozionale che i social dell’Ajax hanno fatto circolare prima della partita, ma anche nelle magliette con la scritta “Guess who’s back” e la faccia divisa a metà tra Patrick e Justin Kluivert.

Nel video si spinge molto tra la riunione virtuosa tra passato e presente, tradizione e innovazione. Mentre scorrono le immagini di Cruyff e van Gaal si racconta l’orgoglio di una tradizione illuminista, che nella sua storia non si è accontentata di giocare a calcio ma di “reinventarlo”. Qualcosa che fa parte non solo dell’identità culturale dell’Ajax, ma forse dell’Olanda più in generale.

«Non ci interessa l’età; non ci interessa lo status: ci interessa la creatività, il coraggio. (…) Giochiamo con le stelle di domani, creando la storia con il futuro. Siamo l’Ajax. E siamo tornati».

Ossessione identitaria

Eppure, spingere così tanto sul topos del ritorno può suonare paradossale per una squadra che era comunque riuscita a vincere 4 Eredivisie negli ultimi 7 anni, stabilendo peraltro il record di quattro successi consecutivi tra il 2010 e il 2014, e che proprio quest’anno non l’ha vinta. Il fatto è che nella narrazione dell’Ajax nel vincere il come pesa molto di più del quanto: l’Olanda del 1974 ha dimostrato che le rivoluzioni si fanno con le idee, non con i trofei.

Nell’era de Boer il dominio casalingo era stato delegittimato dalle figuracce europee: i biancorossi si erano costruiti la fama di squadra cinica, brava ad approfittare delle debolezze strutturale dei propri avversari, incapace di una visione.

Dal 2010 a al 2016 l’Ajax è sempre uscito ai gironi di Champions League, finendo poi subito eliminato ai sedicesimi di Europa League - ad eccezione degli ottavi del 2014-15. Il finale della scorsa stagione, quando l’Ajax si è lasciato rimontare all’ultima giornata perdendo il titolo con il PSV, è stata solo la pietra tombale su un periodo fatto più di bassi che di alti, indispensabile per capire il senso di riscatto attuale.

A dir la verità, quando a maggio dello scorso anno l’Ajax ha annunciato Peter Bosz come nuovo tecnico, sembrava una scelta di basso profilo: Bosz ha 54 anni, viene da una gavetta minore - De Graafschap, Heracles, Vitesse, Maccabi Tel Aviv - e da una storia da calciatore legata soprattutto al Feyenoord: non il miglior curriculum per allenare un club sempre molto attento a scegliere tecnici di grande purezza ideologica e d’appartenenza. Nonostante una carriera lontana da Amsterdam, Bosz è cresciuto assorbendo proprio le idee di calcio dell’Ajax di Rinus Michels e Johan Cruyff: «Quella squadra giocava un calcio molto bello che faceva divertire tutti, e che ha davvero influenzato il mio attuale modo di vedere il calcio».

Attorno a lui, in ogni allenamento, il club ha messo attorno una colonia di leggende dell’Ajax. Edwin van Der Sar è spesso sul prato verde, nonostante il suo ruolo di CEO dovrebbe portarlo più fuori che dentro il campo; Marc Overmars fa il direttore tecnico mentre Dennis Bergkamp si preoccupa degli attaccanti, con una cura speciale sulla tecnica individuale. Van Der Sar ha descritto questo “gruppo di lavoro” così: «Non è sempre facile, ma parliamo come una voce sola. Abbiamo una specie di cuore tecnico». L’idea di mettere insieme un gruppo di ex giocatori provenienti all’ultima epoca d’oro dell’Ajax, quella degli anni ’90, è stata di Johann Cruyff, uno degli ultimi lasciti della sua sconfinata eredità.

La rivoluzione di Bosz

L’idea di Bosz è stata da subito creare uno stile di gioco estremamente riconoscibile per i suoi caratteri offensivi. La sua è una genuina ossessione per l’identità tattica, prima della finale contro il Manchester UTD aveva ribadito il concetto per l’ennesima volta: «L’unico modo che abbiamo di vincere è giocare a modo nostro. Nel modo dell’Ajax».

La profondità del cambiamento tattico portato da Bosz ha messo la squadra in difficoltà, almeno inizialmente. Nei primi mesi l’Ajax ha subìto una deprimente eliminazione nei preliminari di Champions League con il Rostov (perdendo 4-1 in Russia…), poi ha accumulato uno svantaggio in Eredivisie che alla fine si è rivelato decisivo. Ma, come si dice, per fare una frittata bisogna rompere delle uova.

Anzitutto, Bosz ha riplasmato tutta la struttura posizionale dell’Ajax di de Boer. Quella ereditata era una squadra che cercava in maniera compulsiva il controllo del pallone, che amava attaccare su un campo lungo e allargato in ampiezza dalle ali; le grandi distanze tra i giocatori rendevano problematica la riconquista del pallone, con la squadra che faticava a pressare in avanti coi tempi giusti. Bosz ha accorciato tutte le distanze, mettendo la squadra su quaranta metri: in questo modo si è aumentata la velocità del possesso, la densità in zona palla e quindi la facilità della sua riconquista.

Il Lione ricomincia l’azione all’indietro e l’Ajax sale con grande compattezza, raccogliendosi in pochi metri e lasciando pochi spazi tra un reparto e l’altro.

Il principio profondo rivoluzionato da Bosz è stato quello del ritmo. Il suo Ajax ha raddoppiato la propria intensità di gioco, rifiutando di adagiarsi sui duelli individuali in fascia e puntando di più sulla qualità del proprio fraseggio centrale. Cercando poi di usare anche la riaggressione come arma offensiva.

In una recente intervista al Guardian Bosz ha messo l’accento sulla sua ossessione per la fase di gegenpressing: «Esiste la regola dei cinque secondi: se perdi palla quei cinque secondi sono il momento migliore per riconquistarla perché gli avversari devono ancora riposizionarsi. Il Barcellona aveva abbassato la regola a tre secondi ma noi non siamo il Barcellona, così l’ho abbassata a due».

È stata questa nuova arma a pagare dividendi soprattutto nel contesto europeo, dove all’Ajax non viene concessa la possibilità di controllare il pallone all’infinito come in Eredivisie. Qui sotto il secondo gol segnato al Lione nella partita d’andata, partito da una pressione feroce sulla fascia che ha portato a una palla riconquistata da Traoré di testa.

Per dare organicità a questo atteggiamento offensivo è stata importante la scelta dei due difensori centrali. Bosz ha puntato sempre su coppie di giocatori bravi ed esuberanti a difendere in avanti, che accorciassero quindi le distanze verso il centrocampo senza paura. Per questa ragione Veltman e Riedewald sono stati impiegati principalmente come terzini: bravi tecnicamente ma senza le doti atletiche per difendere con aggressività in avanti e velocità all’indietro. Matthijs De Ligt - 17 anni, più giovane finalista europeo della storia - e Davinson Sanchez - campione della Libertadores con l’Atletico Nacional lo scorso anno - sono entrambi difensori che amano difendere con un’alta intensità fisica e mentale.

Il grande atto di coraggio tattico di Bosz va cercato soprattutto nell’utilizzo del triangolo di centrocampo. Se con de Boer ad alternarsi c’erano sempre almeno un paio di mediani muscolari come Bazoer e Gudelj, Bosz ha puntato solo su giocatori tecnici e dall’attitudine offensiva, senza compromessi.

Lasse Schone, un ex trequartista poco atletico ma dalle grandi geometrie, è stato sistemato davanti la difesa. Vicino a lui hanno giocato il capitano Davy Klaassen, giocatore squisito nella sua perfezione tattica, e Hakim Ziyech, un trequartista arretrato da mezzala. Bosz ha scelto di concentrarsi sulla difesa in avanti, e quindi sulla parte della fase difensiva che confina più direttamente con quella offensiva. L’Ajax è la squadra della Eredivisie con più anticipi a partita: circa 17.

È un atto di fede molto forte, che dice molto sull’intransigenza quasi astratta di Bosz: su un piano puramente ideale, una perfetta difesa in avanti non renderà neanche necessaria una difesa all’indietro (che non è altro che un tentativo di rimediare a un errore). «Abbiamo giocatori giovani, quindi quando perdono palla il loro primo pensiero è scappare all’indietro. Il mio modo di pensare è invece di spingerci subito tutti in avanti per riprenderci il pallone indietro» ha detto Bosz sempre al Guardian.

Non deve stupire quindi la sofferenza di quest’anno dell’Ajax nelle transizioni difensive: basta perdere un paio di duelli individuali durante il gegenpressing per lanciare gli avversari verso la propria porta.

Muscoli e creatività

Hakim Ziyech, comprato in estate per 12 milioni di euro, è l’acquisto più costoso della storia del club, oltre che l’esempio più luminoso del cambio di rotta dell’Ajax. Il marocchino si era messo in mostra lo scorso anno con la maglia del Twente, con cui aveva messo insieme 17 gol e 10 assist: è un giocatore delicato, con il baricentro alto e le gambe lunghe e fini, quando corre sembra potersi polverizzare nell’aria come un corpo celeste. Nel calcio di qualche anno fa, che sembrava aver scelto una strada esclusivamente muscolare, sarebbe stato difficile immaginarselo giocare a questi livelli. Invece Bosz lo ha addirittura arretrato in posizione di mezzala, nel cuore del proprio sistema, aggiungendo un centro creativo centrale in una squadra che lo scorso anno si affidava con troppa pigrizia al capitano Klaassen.

Se quest’ultimo è un giocatore cerebrale, accademico nella scelta dei tempi e nelle letture di gioco, Ziyech è un talento più appariscente. Nel corso dei mesi ha assunto un’influenza sempre maggiore nel gioco dell’Ajax, chiudendo la stagione con una media di 50 palloni toccati a partita, 4 dei quali li trasformati in key pass. Numeri che, sommati ai 9 gol e agli 11 assist, danno le proporzioni di una delle migliori mezzali creative oggi in Europa.

In un calcio in cui lo spazio è diventato merce sempre più preziosa, i giocatori che riescono a far crescere fiori in caselle di campo strette e claustrofobiche valgono oro. Ziyech ha una creatività così spiccata che riesce a produrre situazioni pericolose a partire da qualsiasi contesto di gioco.

Anche l’altro acquisto offensivo dell’Ajax, Bertrand Traoré, è uno degli esempi più interessanti del cambiamento dell’Ajax. Traoré aveva giocato due anni fa con Bosz a Vitesse, dove era in prestito dal Chelsea. Il tecnico ha deciso di portarselo dietro dopo un anno sbiadito a Londra, riuscendo a farlo convivere con l’altro gioiello offensivo, Kasper Dolberg (scovato in Danimarca dallo stesso osservatore che aveva trovato Eriksen, Fischer e Ibrahimovic).

Traoré è stato utilizzato da centravanti quando Bosz aveva bisogno di maggiore fisicità nel gioco spalle alla porta e un maggiore lavoro di ripiegamento offensivo. Altrimenti, con Dolberg in campo, ha giocato da esterno destro, una posizione in cui poteva fare la differenza sia con la palla che senza. Traoré riesce a giocare a una grande intensità quando deve difendere in avanti o ripiegare all’indietro; è devastante quando parte in conduzione col pallone anche per molti metri, ed è pericoloso quando può attaccare l’area dal lato debole, sfruttando il grande lavoro tecnico di Younes sull’altro lato.

Non cambierà

Il sistema creato da Bosz ha creato un contesto che ha permesso a dei ventenni di giocare un calcio esuberante, fatto di grande corsa e una certa dose di libertà nella ricerca delle giocate individuali. Un calcio che, d’altra parte, richiede un grande dispendio di energie, fisiche e mentali, e che si è prestato a quei piccoli cali di tensioni che sono poi costate i trofei.

Non è semplicissimo capire dove finiscono i meriti di questo sistema tattico e inizia il talento puro dei giocatori dell’Ajax. La maggior parte di loro sembrano contesi dai club europei di prima fascia, nel rispetto della classica dinamica darwinista del calcio moderno, e Bosz ha dichiarato che sarebbe bello tenere questo gruppo di giocatori per ancora un anno o due, ma che se non succedesse non ci sarebbe problema. Hanno già una nuova generazione di giovani pronti a sostituire i partenti: van Der Beek, de Jong, Justin Kluivert, David Neres.

Nell’Ajax è tornata la fiducia verso qualcosa di più profondo e persistente dei singoli giocatori e delle coppe. Quest’anno non hanno vinto trofei, e sarebbe facile interpretarla come l’ennesima impossibilità di conciliare bel gioco e successi, gioventù e risultati. Ma sarebbe la lente sbagliata dentro cui guardare a questa stagione.

La storia del calcio olandese è soprattutto una storia del pensiero, dove le idee contano più dei trofei. Una visione illuminista in cui più che nella concretezza degli albi, si cerca di essere ricordati attraverso i lunghi e lenti giri delle rivoluzioni di idee. Cambiare il modo di pensare è una vittoria più sottile e intangibile, ma anche più profonda e radicale.

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