
A fine settembre a Bodo ci sono ancora 11 ore di luce. Il sole tramonta alle 18:30 e tre ore dopo, nella notte ancora non troppo fredda, Jens Petter Hauge segna una doppietta in Champions League. Segna contro il Tottenham, prima di destro e poi di sinistro. Segna col numero dieci sulle spalle. Segna dopo aver fatto slalom tra i difensori avversari, sterzando con rapidità e precisione tecnica. I capelli biondi pettinati alla Nick Carter rimangono perfettamente immobili sulla sua testa, mentre danza tra i difensori del Tottenham e bombarda gli angoli della porta difesa da Guglielmo Vicario.
Come l’avreste presa, se vi avessero descritto questa realtà quattro anni fa, quando Hauge lasciava il Milan a fari spenti? Un addio senza rimpianti, dopo una notte di sesso frettolosa e da dimenticare (facciamo finta di non esserci mai incontrati). Hauge pareva, appunto, un giocatore dimenticabile e come avreste preso il fatto che quattro anni anni dopo sarebbe stato capace di cose indimenticabili?

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L’acquisto di Hauge da parte del Milan aveva un sapore da Novecento. Un grande club incontra nei preliminari di una coppa una squadra alla periferia d’Europa. Dentro questa squadra gioca un’aletta secca e tutta dribbling capace di sciare tra gli avversari. È giovane, costa poco, e allora il grande club decide di acquistarla. In fondo cos’ha da perdere?
Hauge arriva così al Milan nel 2020 per 5 milioni di euro. Al giorno d’oggi per quella cifra non ci paghi manco una commissione. I tifosi lo guardano con l’atteggiamento che si riserva a un cibo esotico: curiosità ma consapevolezza che la delusione è dietro l’angolo. Non sarebbe nemmeno corretto dire che Hauge ha deluso al Milan; ha fatto piuttosto quello che ci si aspettava da lui: poco. Un paio di gol - contro Napoli e Sampdoria - una serie di presenze accumulate soprattutto dalla panchina. Un ragazzo serio e volenteroso: stop.
Uno così è pure divertente avercelo in squadra ma più per affetto che per altro. Uno così non sposta la competitività della squadra. Non ti fa vincere. Hauge può giocare quasi solo a sinistra a piede invertito e ripetere le sue azioni a convergere verso il centro come fosse in una catena di montaggio. Entra al posto di Rafael Leao e non sembrano manco appartenere alla stessa specie. Eppure è una stagione difficile per il portoghese e alla sua coda escono articoli che riletti ci suonano pazzeschi: “Leao-Hauge, ne resterà uno solo: chi verrà ceduto?”. Effettivamente in quel momento i due sembrano in ballottaggio e qualche tifoso preferirebbe pure cedere Leao, invece di Hauge. Chissà perché. Erano rimasti folgorati da questo gol segnato al Napoli in una partita già indirizzata?
Alla fine è stato ceduto Hauge, all’Eintracht Francoforte per 12 milioni. Una cifra ambigua: non alta, ma comunque più che raddoppiata dopo un anno al Milan. Un anno in cui - come detto - non che abbia combinato chissà cosa. All’Eintracht Hauge fuga ogni dubbio: non appartiene a quel livello di calcio. Combina poco pure in una squadra in cui negli ultimi anni hanno funzionato tutti. Va in prestito, al Gent, poi torna in Germania. Segna 2 gol in 3 anni, non è mai titolare. Manco al Gent.
E quindi nel 2024 torna al Bodo/Glimt: non solo la squadra che lo ha lanciato, ma la squadra della sua città. Uno dei progetti sportivi più unici del panorama internazionale. Una squadra al di sopra del circolo polare artico, che senza particolare tradizione ha iniziato a dominare in patria; e poi a costruirsi una solida reputazione in Europa.
Negli ultimi anni il Bodo/Glimt, tra Conference ed Europa League si è costruita la fama di una squadra dall’identità tattica entusiasmante e capace di competere con tutti pur con un budget risicato. Come le antiche squadre degli anni ’90 offre trasferte ostiche non solo a livello calcistico ma anche ambientale. Come il Tromso che accoglieva il Chelsea di Vialli su un campo ricoperto di neve, il Bodo offre uno stadio minuscolo, una tifoseria incandescente, un clima gelido e un prato sintetico che è diventato il terrore d’Europa. Mourinho lo ribattezzò «campo di plastica» e i giocatori temono di lasciarci muscoli e ossa. Di certo non ne leggono i rimbalzi.
Dentro queste peculiari condizioni ambientali, il Bodo pratica il suo rodatissimo gioco di posizione. Una squadra che quindi ci ricorda i processi di glocalizzazione in atto nel mondo: una squadra che mescola gioco ispano-olandese e condizioni ambientali iper-locali e specifiche - e che peraltro recluta i giocatori con una particolare attenzione al territorio del nord della Norvegia.
L’unicità delle condizioni del Bodo/Glimt sono quelle che permettono ad Hauge di esaltarsi, e una volta tornato è diventato il leader tecnico della squadra. È tornato a fare quello che faceva prima: partire da sinistra, tagliare verso il centro, dialogare con i compagni, cercare assist e tiri. Fa quello di prima, ma lo fa con ancora più velocità ed efficacia, migliorato dalle esperienze all’estero. L’erba sintetica lo assiste in questa idea di gioco tecnica e rasoterra. Hauge è il giocatore di maggior creatività del Bodo, quello che riesce a penetrare con più facilità le difese avversarie. Ovviamente lo fa associandosi con gli altri. In quest’azione che posto qui sotto potete vedere il gioco “buggato” del Bodo, che ci fa chiedere perché non tutte le squadre giocano così.
È un maestro dei rimbalzi sul sintetico, del modo in cui la palla scorre e la può addomesticare. L’anno scorso Hauge ha mandato al manicomio la difesa della Lazio, tra andata e ritorno.
È sembrato a tratti semplicemente immancabile.
Il gioco di Knutsen - l’allenatore del Bodo grande burattinaio di questa esperienza allucinante - lo esalta. Gli permette di ricevere sempre fronte alla porta, in uno contro uno, spesso in zone avanzate del campo. Hauge può ricevere sia nel mezzo spazio che con i piedi sulla riga laterale. Non è particolarmente atletico, creativo e quando calcia non sembra avere neanche davvero la forza per arrivare in porta.
Si muove come un giocatore da futsal: disciplina che ha continuato a praticare anche mentre giocava già con il Bodo/Glimt, durante la pausa invernale. È uno che sa gestire il gioco in spazi stretti pure se in modo molto semplice, gestendo bene la frequenza di passo e di tocco quando il campo si restringe. So che suona molto fumoso quello che sto dicendo, però guardate questo video, intitolato con un’enfasi che fa ridere associata ad Hauge. JENS PETTER HAUGE DISTRUGGE GRANDI DIFENSORI NEL 2025.
Ieri ha segnato due gol, uno col destro e uno col sinistro. Nel primo emerge il lavoro di squadra del Bodo, il tempismo e l’efficacia con cui gestiscono le catene di fascia, che ha mandato in tilt la difesa del Tottenham.
Nel secondo invece emerge il suo talento puro nel dribbling, nelle finte, nei cambi di direzione. Non è frequente vedere in una partita di quel livello un terzino lasciato così fermo come fermo è stato Pedro Porro nei confronti di Hauge.
Ho scritto questo pezzo perché mi fa ridere l’idea stessa di Hauge che nel 2025 segna una doppietta in Champions League, ma anche per ricordarci di una cosa che ci diciamo spesso, e cioè che il valore dei calciatori non è mai assoluto e il contesto lo può modificare radicalmente. Così radicalmente che un giocatore normale, mezzo inadeguato, come Hauge, che non giocava titolare nemmeno in Belgio, nelle peculiari condizioni offerte dal Bodo/Glimt può sembrare Neymar. E non è una questione di “livello” come si può pensare (un concetto che si usa sempre, anche se con una certa vaghezza), visto che Hauge i suoi dribbling e i suoi gol è capace di farli anche in Champions League, anche contro una difesa come quella del Tottenham, che per noi italiani rappresenta una pietra di paragone per “fisicità” e “intensità”. Hauge certe cose le può fare anche in un contesto di "livello alto", dunque.
La doppietta di Hauge, in parte vanificata dal pareggio degli “Spurs” ci restituisce l’idea di un calcio più vario, imprevedibile, capace di uscire dalle nostre categorie interpretative. Bello, no?