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La Nazionale che si è qualificata ai Mondiali senza giocare mai in casa
25 nov 2025
Breve storia della qualificazione di Haiti.
(articolo)
15 min
(copertina)
CONCACAF
(copertina) CONCACAF
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Le esplosioni, i crepitii degli spari, le grida sono il naturale sottofondo musicale di ogni serata e di ogni notte di Port-au-Prince, ad Haiti. Hanno lo stesso ritmo incalzante delle percussioni, la stessa ombra inquietante dei flauti della rara, la musica tipica dell’isola: sono rumori che evocano i complotti e le rivolte di inizio Ottocento, ma che si rispecchiano anche nello stesso tumultuoso stato d’assedio che Haiti vive nel presente, sospesa com’è da quattro anni in un limbo anarchico, schiava delle lotte tra gang che hanno acuito una crisi dalle origini lontane, facendo di Haiti, già Paese più povero delle Americhe, un luogo ancora più povero.

Ma stanotte le urla sono di giubilo, le esplosioni quelle dei fuochi d’artificio, i crepitii degli spari quelli dei festeggiamenti: si sventolano le bandiere, si inneggia ai "Grenadiers" perché la nazionale di Haiti, contro ogni pronostico, contro l’evidenza e anche un po’ contro la logica, si è appena qualificata per i Mondiali del 2026.

La partecipazione di una Nazionale caraibica a un Mondiale è sempre, in qualche modo, percepita come un’intrusione del calcio minore, che immaginiamo gioioso e spensierato e tutt’affatto pretenzioso, nel Grande Palcoscenico Del Calcio, dove invece tutto si fa serissimo. Giamaica, Cuba, Trinidad e Tobago, le uniche che finora c’erano riuscite oltre ad Haiti, hanno portato connaturata in loro una sfumatura di variopinto tropicanismo. Ma i tropici, lo diceva pure Levi-Strauss, sanno anche essere tristi.

I caroselli passano anche di fronte a dove, prima che il terremoto del 2010 lo distruggesse, si trovava un murale molto famoso: vi erano ritratti Jean-Jacques Dessalines, il primo re di Haiti; Che Guevara, Fidel Castro, e poi Manno Sanon, l’eroe calcistico dell’isola. L’uomo che per primo aveva condotto i caraibici ai Mondiali, nel 1974. Quello che poi, al Mondiale, aveva fatto gol all’Italia, ponendo fine all’imbattibilità di Zoff che durava da un sacco di tempo, e che nessuno si immaginava potesse essere deflorata da un haitiano.

A quest’aura da realismo magico, da romanzi di Alejo Carpentier, Haiti però contrappone oggi – come lo aveva fatto nel ‘74, stretta nella morsa dittatoriale di "Papa Doc" Duvalier – una patina tragica, travagliata, che suona non tanto come rivalsa dalla propria condanna, ma, questo sì, come sollievo momentaneo. Un tirare il fiato emotivo, una tregua, un tacito armistizio grazie al quale si può scendere in strada – non si potrebbe, nella normalità, se si ha cara la vita, quantomeno – e dimenticare, per un attimo, la guerra che sta dilaniando il Paese dall’interno.

«La gente scappa, tutto è chiuso, la violenza è folle», ha detto in un’intervista, prima delle ultime due partite di novembre, Louicius Don Deedson, l’attaccante che avrebbe poi firmato il gol decisivo per la qualificazione. Oggi a Port-au-Prince non c’è neanche più uno stadio, che a partire dal 2021 – cioè da quando la situazione è precipitata – è stato occupato prima dall’esercito, poi dalle bande criminali che hanno fatto di Haiti la capitale mondiale degli omicidi, degli stupri, dei saccheggi, dei rapimenti. È per questo che Haiti, dal 2021, gioca tutte le sue partite casalinghe fuori casa – nel caso delle qualificazioni ai Mondiali del 2026 a Curaçao, che a quanto pare deve essere baciata dagli dei, ultimamente (chissà che la FIGC non stia facendo un pensierino a Willemsted per i playoff di marzo).

«Ieri stavo parlando con uno», ha detto nel discorso prima dell’ultimo match contro Nicaragua, quello decisivo, Duckes Nazon ai compagni: «Voi non immaginate cosa sia la realtà là. La gente non ha niente, nelle tasche hanno 1000 gourdes [7 euro, ndr], contano solo su di noi. Facciamoli felici, facciamoli piangere di gioia».

Il Consiglio Elettorale Provvisorio, l’organo politico che tecnicamente dovrebbe guidare il Paese, ha rilasciato un comunicato stampa parlando della forza di unità e di resilienza che rappresenta la squadra. Avrebbe potuto sottolineare anche la forza dirompente dell’impensabile: affinché Haiti si qualificasse c’era bisogno che né Honduras né Costa Rica vincessero (si affrontavano direttamente), e infatti si sono inchiodate sullo 0-0, spalancando agli haitiani le porte del Valhalla.

In strada, per festeggiare, è stato fotografato anche Jimmy Chérizier detto “Barbecue”, il leader di Viv Ansanm, “Vivere Insieme”, una delle gang predominanti dell’isola, considerato da molti l’uomo più potente di Haiti al momento. Solo tre giorni prima aveva annunciato la sua intenzione di sfidare la polizia, esortando i cittadini a rimanere chiusi nelle loro case.

ESILIO PERENNE
Non è facile identificare un momento preciso in cui ad Haiti la povertà diffusa e l’instabilità politica hanno sceso un ulteriore gradino, quello sotto il quale si trova l’inferno in terra. Uno degli eventi più importanti, però, è stato l’assassinio di Jovenel Moise, nel 2021, mentre era presidente in carica. Nel vuoto istituzionale si è insinuata, violentemente, la malavita organizzata. Secondo le Nazioni Unite, oggi il 90% del territorio della capitale Port-au-Prince è nelle mani delle gang, che in un solo semestre, tra luglio 2024 e febbraio 2025, hanno mietuto più di quattromila vittime, oltre a distruggere scuole e ospedali, e a praticare rapimenti e violenze di massa per terrorizzare l’intera comunità. Far parte di una gang, ad Haiti, oggi, è l’unica maniera che ti resta per non essere rapito, violentato o ucciso da una gang.

Stiamo parlando di un Paese invivibile, in qualche maniera. Sicuramente impenetrabile: i voli internazionali sono sospesi, chi è nel Paese è destinato a rimanerci e chi vive fuori non può rientrarci. Quando nel 2023 la Nazionale haitiana femminile si è qualificata al Mondiale, la FIFA ha incluso l’isola tra i Paesi per i quali il trofeo sarebbe dovuto passare, in parata. Ad Haiti la cerimonia è stata umile, quasi clandestina, e il trofeo ha lasciato il paese subito dopo, in massima sicurezza. Eppure, paradossalmente ma non troppo, è stato proprio questo stadio d’assedio – conseguenza di una storia lunga e tribolata, che parte dalla sanguinosa indipendenza dalla Francia e passa per un ventennio di dominazione statunitense e un periodo altrettanto lungo di dittatura a cavallo tra gli anni Sessanta e Ottanta – a fomentare negli haitiani la fiducia nel calcio come strumento di affermazione, se non internamente all’isola, sul proscenio mondiale.

Haiti ha giocato l’ultima partita sull’isola nel giugno 2021, contro il Canada, una gara per le qualificazioni al Mondiale di Qatar. E già all’epoca si parlò dell’eventualità di giocarla, quella partita, dato che tre mesi prima il pullman su cui viaggiava la Nazionale del Belize era stato fermato e sequestrato da una banda di uomini armati, costringendo i due Paesi a una trattativa diplomatica delicatissima.

Da quel momento è iniziato un lungo esilio. I calciatori, tutti ovviamente impegnati in campionati esteri, molti in Europa, qualcuno sparso per il mondo, hanno cominciato ad allenarsi, riunirsi e giocare lontani dalla loro terra, senza garanzie di organizzazione: proprio per questo, però, si è cementato un senso di unità, di voglia di farcela, reso possibile anche dal nuovo formato che ha messo sul piatto delle qualificazioni tre posti ulteriori nella CONCACAF. «Qualificarci al Mondiale sarebbe un immenso motivo d’orgoglio per una nazione intera», ha detto il capitano Johny Placide all’inizio del percorso. «E non solo per noi giocatori. Per i giovani. Darebbe loro nuove prospettive».

REDENZIONE
Quando Sebastien Migné ha accettato a inizio 2024 l’incarico di guidare Haiti sapeva che avrebbe dovuto fare di questo senso d’appartenenza il propellente principale. Ha iniziato a coinvolgere, ad agglutinare nel progetto, i figli della diaspora haitiana. L’ala Josué Casimir del Le Havre, il belga Hannes Delcroix del Burnley (una presenza nella nazionale dei "Diavoli Rossi"), il talentuoso Jean-Ricner Bellegarde del Wolverhampton.

Sapeva che non avrebbe mai messo piede nell’isola. Né lui, né i suoi giocatori. Ma anche che avrebbe potuto tenere alto il nome del paese proprio in virtù di questo esilio imposto.

Migné conosce bene i meccanismi dell’identificazione, il ruolo di collante che può esercitare una Nazionale. Allievo di Claude Le Roy, che lo ha preso sotto la sua ala dopo che Hervé Renard ha spiccato il volo da sé, Migné è stato viceallenatore in Oman, in Togo, in Congo, in Repubblica Democratica del Congo. In ognuno di questi posti (e poi in Kenya, e in Guinea Equatoriale, dove è stato titolare della panchina) ha capito che per guidare al meglio una Nazionale bisogna vivere sul posto, entrare nella loro quotidianità, seguire ogni aspetto. Essere pronti a salire su un aereo ogni volta che ce n’è bisogno. Haiti gli ha insegnato qualcosa di nuovo, o meglio una maniera nuova di declinare un concetto già conosciuto. Immergersi nella quotidianità di guidare les Granadiers ha significato coordinare tutto da remoto. Ricevere e fornire indicazioni telefonicamente. Guidare gli allenamenti, e le partite, e le convocazioni, e le valutazioni, a distanza.

Degli undici titolari scesi in campo nel match decisivo contro Nicaragua, la metà sono nati ad Haiti e sono stati adolescenti, o ragazzini, nel 2010, quando un terremoto di magnitudo 7.0 ha devastato il Paese, radendo quasi al suolo Port-au-Prince, uccidendo più di duecentomila persone e gettando sotto la soglia di povertà tre milioni e mezzo di abitanti.

Gli altri sono nati e cresciuti negli Stati Uniti, oppure in Francia: per loro Haiti è stata la Itaca alla quale sapevano di non poter tornare, prigionieri coscienti e accondiscendenti di Circe.

Uno di questi expat è Duckens Nazon. Nato a Parigi, classe 1994, Nazon è entrato a far parte del progetto di Migné come l’attaccante esperto da mettere in campo a partita in corso, una specie di grimaldello. Nell’esordio del terzo turno di qualificazioni, contro Honduras, Migné lo ha fatto entrare solo a un quarto d’ora dalla fine. E anche contro Costa Rica, a San José, lo ha fatto partire dalla panchina.

Al trentacinquesimo "les Granadiers" erano sotto di due reti. Migné si deve esser detto che tentar non costava nulla. Nazon ha fatto il suo ingresso in campo, e nel giro di tre minuti, a cavallo tra il cinquantacinquesimo e il cinquattottesimo, ha pareggiato il conto, segnando probabilmente uno dei suoi migliori gol in carriera, in rovesciata.

Le reti sono poi diventate tre a cinque minuti dalla fine: un potenziale comeback devastante, reso meno pesante solo dal pareggio del costaricense Vargas nei minuti di recupero. Se c’è un momento in cui Haiti ha realizzato che la qualificazione poteva non essere soltanto un sogno, di certo è successo a San José.

Oggi Duckens Nazon gioca in Iran, con l’Esteghlal di Sa Pinto, dopo una carriera che l’ha portato in giro per India, Inghilterra, Belgio, Olanda, Bulgaria e Turchia. Nel 2018, vestendo la maglia della Nazionale, ha segnato cinque gol nella stessa partita, contro Sint Marteen. Si porta dietro l’aura del marron, quegli schiavi affrancati che si rifugiavano sulle colline in fuga dalle piantagioni di canna da zucchero e scendevano furtivi in città per umiliare i corpi di spedizione di Napoleone e i creoli francesi. È il massimo cannoniere della storia del calcio haitiano con 44 gol. «Con il calcio possiamo cambiare molte cose nel nostro Paese», dice «La gente ne ha bisogno».

Dire che sia stato sempre amato dagli appassionati haitiani è una bugia: spesso è invece stato al centro delle critiche dal momento che su Snapchat ha spesso dispensato lamentele sulla disorganizzazione della Nazionale, sui pullman scalcagnati, sugli orari sballati. Di lui si è detto che sia un «doganiere dell’ego», mammasantissima e intoccabile dello spogliatoio, monarca egemonico e dispotico, stella in decadenza.

Nessuno, prima dell’exploit in Costa Rica, pensava che sarebbe potuto diventare l’eroe della qualificazione. Ma in fondo nessuno avrebbe neppure mai detto che Henri Christophe, il miglior cuoco dell’isola di Hispaniola - quella che racchiude Haiti e la Repubblica Dominicana - un giorno sarebbe potuto diventare il primo monarca incoronato del Nuovo Mondo. Il primo re di Haiti.

TRUFFE E RISCATTI
Un altro protagonista indiscusso del cammino haitiano verso i Mondiali è stato Ricardo Adé. Cresciuto a Saint-Marc, esattamente a metà strada tra Cap-Haitien e Port-au-Prince, già ventitreenne Adé ha accettato di lasciare l’isola martoriata dal terremoto per trasferirsi in Thailandia. Giunto a Bangkok ha però realizzato che il procuratore che aveva curato il trasferimento lo aveva semplicemente truffato: non esisteva nessuna squadra, e ad Adé è toccato vivere per tre mesi per strada, fin quando un amico non gli ha trovato un posto al Miami United, e gli ha pagato il biglietto aereo per gli Stati Uniti.

Dopo una breve parentesi in Florida, Adé ha preso a girare per il Sudamerica: si è trasferito in Cile, dove ha giocato in seconda divisione e dove è stato vittima di brutti episodi di razzismo, con lanci di seggiolini in campo e minacce di morte; poi ha accettato l’offerta degli ecuadoregni del Muscuc Runa, ha vinto il campionato con gli Aucas e si è guadagnato, ormai trentatreenne, la chiamata della LDU de Quito, una delle squadre più forti e rappresentative del Paese. Proprio quando pensava che la sua carriera stesse volgendo al termine, ha vinto il primo trofeo internazionale, la Copa Sudamericana. «Porto sempre una bandiera haitiana con me», ha detto. «E da quando sono arrivato in Ecuador la mia missione è aprire una porta per altri haitiani. Ci sono un sacco di giocatori forti, ma il problema è che non possono uscire dal Paese. Il mio messaggio per loro è di non arrendersi, di continuare a lavorare, prima o poi qualcosa succederà».

Solo a ottobre scorso, che Haiti potesse qualificarsi sembrava difficile se non impossibile. La battuta d’arresto subita in Honduras, un severo 3-0, avrebbe sbriciolato le velleità di chiunque. Non di Haiti. "Les Granadiers" erano terzi, con poche chance anche di accesso al playoff. Bisognava vincere contro Costa Rica, e poi contro Nicaragua. Ci voleva un sacco di fiducia in se stessi. «Io non perdo mai», ha detto dopo quella sconfitta contro Honduras Migné in conferenza stampa «O vinco o imparo». E poi: «Il gruppo è unito. Siamo felici. Ora dobbiamo rendere felice un popolo, però».

Usare il calcio come strumento di pacificazione nazionale non è un escamotage inedito, ad Haiti. Nel 2004, pochi mesi dopo la destituzione del presidente Aristide, quando il Paese era già nella morsa di un’anarchia violenta, nell’isola era sbarcato il Brasile di Parreira, con una squadra che era uno strano mix di campioni e carneadi, con Ronaldo e Ronaldinho al fianco di Roger Flores (unica presenza con la Seleçao, due reti) e Pedrinho (altro debuttante in quella che sarebbe stata la sua sola partita in verdeoro).

Il Brasile era stato scortato, al suo arrivo allo stadio, dalle camionette delle forze di pace delle Nazioni Unite. Era stato messo in piedi un meccanismo di vendita dei biglietti per i quali si poteva pagare, oltre che in dollari, anche consegnando armi.

Sono passati vent’anni da quel giorno, Haiti è sempre nella morsa della violenza. Ai posti di blocco non sai mai se davanti ti trovi la polizia o una gang. Per far sì che il calcio assumesse il ruolo di volano della speranza serviva davvero qualcosa di clamoroso.

La sfida decisiva, quella in cui Haiti ha strappato il biglietto per i Mondiali, si è giocata il 18 novembre: un giorno che non si può proprio definire uno qualsiasi, se si crede nelle sincronicità junghiane e nel peso della storia. Il 18 novembre è infatti la data in cui, nel 1803, si è tenuta la battaglia di Vertières, uno dei momenti decisivi della lotta di indipendenza haitiana dalla Francia.

A molti haitiani il trionfo sul campo ha rievocato l’eco dei tamburi dell’oungan Boukman (uno dei leader della rivoluzione), le arringhe del condottiero Toussaint Louverture, i primi sventolii della bandiera ideata da Jean-Jacques Dessalines, “il Napoleone nero”, che di lì a poco sarebbe diventato governatore generale prima, e imperatore col nome di Giacomo I poi, della prima repubblica nera della storia, del secondo stato indipendente in America dopo gli Stati Uniti.

Il 18 novembre, insomma, era un giorno perfetto per fare la storia: per celebrare coraggio, resilienza, speranza. Dopo le reti di Louicius Don Deedson (che nel 2010 era uno dei ragazzini che si è fatto fotografare con Leo Messi, allo stadio di Port-au-Prince, durante un viaggio di beneficienza dell’argentino dopo il terremoto che ha distrutto buona parte del paese) e Ruben Providence, l’intera squadra si è raccolta per ascoltare le ultime notizie provenienti da Honduras - Costa Rica probabilmente nella stessa maniera in cui i marrons sulle colline di Hispaniola hanno prestato l’orecchio ai tamburi, al ritmo sincopato delle percussioni, per cogliere l’attimo in cui far divampare l’assalto finale che avrebbe portato alla libertà, alla gioia, al trionfo.

E al fischio finale dell’altra gara, la gioia è deflagrata, tanto a Willemstad quanto a Port-au-Prince.

Eppure questa qualificazione ottenuta con le unghie e con i denti, con un po’ di fiducia nelle forze superiori e nonostante una situazione politica gravissima, rischia di rimanere una gioia a metà, perché – almeno per ora – nessun haitiano potrà viaggiare verso gli Stati Uniti – dove vivono più di 850mila migranti haitiani, metà dei quali in Florida – per sostenere i "Grenadiers" dal momento che l’isola è, insieme all’Iran, uno dei due Paesi rappresentati al Mondiale ai quali è precluso l’accesso sul suolo americano.

Nel giugno del 2024, infatti, Donald Trump ha incluso Haiti nella lista dei dodici Paesi ai quali è vietato l’ingresso negli Stati Uniti per motivi di sicurezza nazionale.

Quest’anno, forse subodorando che qualcuno di quei dodici Paesi avrebbe potuto qualificarsi, Infantino ha dichiarato che «l’America darà il benvenuto al mondo: chi vorrà venire per divertirsi e celebrare il gioco del calcio potrà farlo».

In fondo già nel 2017, un anno prima che gli Stati Uniti ottenessero l’organizzazione del Mondiale in coabitazione con Messico e Canada, lo stesso Infantino aveva detto: «È ovvio che quando una Nazionale si qualifica ai Mondiali deve poter avere il diritto di parteciparvi, con la squadra e con i suoi tifosi. Altrimento che Mondiale è?».

Per Haiti, che non ha avuto modo nel suo percorso di regalare gioia ai propri tifosi dal vivo, continuare a fronteggiare un divieto anche negli Stati Uniti sarebbe un contrappasso troppo immeritato. E poi un miracolo che non è condiviso, ma che miracolo è?

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