
Iván Barton, un Mondiale, lo sa bene cos’è, anche se da salvadoregno non ha mai visto la sua Nazionale parteciparvi. Lui c’è stato, da arbitro: nel 2022, in Qatar, ha diretto tre partite, una del Brasile, una della Germania e una dell’Inghilterra, agli ottavi, ed è per questo che nella CONCACAF gode di un certo prestigio. È un’istituzione, uno di cui fidarsi, anche se spesso è stato controverso, come nella semifinale della CONCACAF Nations League del 2023 in cui ha diretto USA - Messico, non una partita facile, in cui ha preso decisioni non facili, come sventolare quattro cartellini rossi e interrompere la partita all’ennesimo "putooo" gridato dai tifosi messicani.
Jamaica – Curaçao, il match in cui c’è in ballo un posto al Mondiale dell’anno prossimo, sta per finire. I "Reggae Boyz", come viene chiamata la Nazionale giamaicana, per qualificarsi devono assolutamente vincere. Hanno spinto per tutto il tempo, colpito due pali, l’ultimo solo all’87, con Bailey Cadamarteri. Barton ha già annullato un gol ai curacensi, segnato da Jermey Antonisse, a un quarto d’ora dalla fine per fuorigioco.
Al 94', però, proprio Iván Barton indica il dischetto del rigore, dopo che Dujuan Richards, il giovane del Chelsea (ovviamente!) soprannominato Whisper, è andato giù in area.
Quando il VAR lo smentisce, l’atmosfera incandescente di Kingston subisce un’ibernazione istantanea. Cinque minuti d’agonia più tardi, al fischio finale, Curaçao può dire bon bini (cioè benvenuto in papamiento, la lingua creola parlata a Curaçao) a un obiettivo fino a soli 15 anni fa letteralmente impensabile.
Nel tessuto polemico-complottistico su cui rimbalza, ogni settimana, il meccanismo qualificatorio dei Mondiali del 2026, la presenza di Curaçao è uno schiaffo e una carezza allo stesso tempo. Ovvio, c’entra la facilitazione impressa dalla classificazione d’ufficio di Messico, Stati Uniti e Canada, che ha spalancato una voragine in CONCACAF all’interno della quale si sarebbero in ogni caso inserite tre squadre minori, tre nazioni che secondo una delle tesi imperanti non avrebbero diritto di partecipare per manifesta inferiorità.
Oltre a Curaçao si sono qualificate direttamente anche Panama e Haiti, infatti, ma forse non dovremmo dimenticare che in corsa c’erano Costa Rica, Honduras, El Salvador, ma ci arriviamo. E questo è lo schiaffo.
Però vedere la "The Blue Wave", come è soprannominata la Nazionale di Curaçao, strappare il suo biglietto aereo per la massima competizione mondiale, ecco, è anche in qualche modo dolce se decidiamo per un momento di abbracciare i principi di rappresentatività e, in maniera magari meno melensa, quelli di meritocrazia per una progettazione accurata, decennale.
Curaçao sarà la nazione in assoluto più piccola ad aver mai partecipato a un Mondiale: la sua popolazione entrerebbe tutta, all’interno dello stadio Azteca di Città del Messico, e in fondo come stato non esiste che da quindici anni, da quando cioè le Antille Olandesi si sono definitivamente frantumate in Curaçao, Aruba e Sint Maarten.
Sotto la patina scintillante della poesia e del romanticismo, però, c’è anche altro.
SOVVERTIRE LE GERARCHIE
Che Curaçao in sé non sia una fucina di talenti calcistici è un dato di fatto. In fondo non esiste un vero e proprio campionato professionistico, e se c’è qualcosa per cui questo punto blu al largo delle coste del Venezuela è famoso, piuttosto, è il baseball: Curaçao è il posto con il più alto tasso pro capite di giocatori MLB, e forse non è un caso che a raccontare la storicità della giornata, in limine alla sfida decisiva, sia stato proprio Andruw Jones - uno dei più forti centerfielder nella Major League Baseball a cavallo tra gli anni '90 e '00, di nazionalità olandese nato proprio a Curaçao.
La Nazionale di Curaçao è anche portatrice sana di un senso di benevolenza caraibica che in queste qualificazioni si è affermato scalzando prepotentemente dal gotha calcistico della confederazione mesoamericana i Paesi centroamericani dove invece il calcio è davvero una cosa seria, con una sua tradizione e un peso storico notevole (se avete letto Kapuscinski sapete di cosa stiamo parlando). E lo ha fatto con un percorso di crescita, di riconoscimento del sé e di autodeterminazione che avrebbe fatto felice Eduardo Galeano e tutti i terzomondisti decolonialisti di oggi. Ma non perché la crescita del calcio antillano, di Curaçao in particolar modo, sia una rivalsa: piuttosto, una declinazione in altri termini della grande eredità apportata dai colonizzatori in termini di aiuto alla crescita.
Dieci anni fa, di questi tempi, ero in Guadalupa. Sempre Antille, ma francesi. Nello stesso periodo, a Curaçao, stessa quintessenziale idea di Caraibi, spiagge bianche, palme, mare azzurrissimo, casette coloratissime in pieno stile coloniale, riso fritto e pollo arrosto, arrivava Patrick Kluivert. Io, in Guadalupa, ero in vacanza. Lui, a Curaçao, diventava l’allenatore della Nazionale, e se c’è un momento di svolta nella storia del calcio curacense non può essere che quello.
Kluivert era reduce da un Mondiale da assistente di Van Gaal, che lo aveva invitato a seguirlo a Manchester subito dopo. Ma Kluivert sentiva come di voler restituire qualcosa alla sua terra d’origine, oltre che provare a muovere i primi passi in proprio in un contesto meno asfissiante, lontano dai radar. Era certo che avrebbe potuto convincere alcuni giocatori di origine curacense, gente che magari aveva fatto le trafile nelle nazionali minori dell'Olanda, e che non avrebbe mai trovato spazio nella Nazionale maggiore, a costruire qualcosa insieme, da protagonisti.
Come potrete immaginare, sono isole in cui non ci sono strutture sportive adeguate per la crescita atletica, tecnica, tattica dei calciatori. Il perno attorno al quale Kluivert voleva far ruotare la propria rivoluzione copernicana era quella a cui prima o poi arrivano tutti: puntare sulla diaspora. Molti curacensi nati all'estero Curaçao l’hanno solo sentita evocare dai genitori, alcuni addirittura dai nonni. Sono nati, cresciuti, si sono sviluppati, anche e soprattutto sportivamente, altrove. Forse hanno anche sognato di affermarsi altrove. In parte ci sono anche riusciti. Ma vuoi mettere il fascino di essere il pesce più grande dello stagno nella terra d’origine, magari con l’obiettivo di qualcosa di grande?
In un’intervista di quegli anni un giocatore dice una cosa molto interessante: «Mia madre e mio padre sono entrambi nati qua: io sono nato in Europa solo per via delle circostanze che li hanno portati là, altrimenti sarei nato anche io qua».
Quel giocatore è Leandro Bacuna, terzino all’epoca in forza all’Aston Villa: aveva attraversato il ciclo delle nazionali olandesi minori senza destare troppo scalpore, qualche presenza in Under 19, un passaggio nell’Under 21: avrebbe mai potuto ambire alla Nazionale maggiore? Ma soprattutto: aveva mai pensato che il suo posto potesse essere altrove? Qualcuno non era neppure mai stato inserito nelle selezioni olandesi: Gino Van Kessel, che segnava gol a grappoli in Slovacchia dopo essere cresciuto all’Ajax, oppure Felitciano Zschusschen, o Cuco Martina, con una pur dignitosissima carriera in Premier League. Patrick Kluivert gli ha dato un’opportunità. Si è dato un’opportunità attraverso di loro. Poi, però, nel 2016, dopo essersi spinti fino all’ultimo round di qualificazioni per la Gold Cup, il torneo continentale della CONCACAF, ed aver conquistato la prima storica presenza, Kluivert ha ricevuto un’offerta dal PSG per diventare direttore sportivo. Al suo posto, sullo scranno di timoniere della Nazionale, è assurto il suo vice: Remko Bicentini.
Bicentini c’era dalla prima ora, da quando allo stadio gli spettatori non erano mai più di cinquecento. Ha deciso di puntare tutto sul divertimento. E ovviamente anche di continuare il lavoro di autodeterminazione, da una parte raccogliendo un’eredità storica, dall’altra cercando di costruirne una tutta nuova.
UN PICCOLO INTERMEZZO STORICO
Quando Curaçao, nel 2016, gioca la sua prima storica edizione di Gold Cup lo fa in occasione di due anniversari importanti nella storia fondativa del calcio dell'isola. Il primo: nel 1926 la prima rappresentativa, sotto il nome di Territori di Curaçao, aveva disputato i primi incontri internazionali contro altre isole dei Caraibi. Il secondo: nel 1946 quella che all’epoca si chiamavano Antille Olandesi avevano ospitato un torneo internazionale al quale avevano partecipato due protettorati del Regno dei Paesi Bassi come Aruba e Suriname, i colombiani dell’Atlético Junior e il Feyenoord.
Curaçao aveva spappolato tutti gli avversari, incluso il Feyenoord sconfitto per 4-0, un trionfo che gli era valso una tournée in giro per l’Olanda in cui si era messo in mostra soprattutto il portiere Ergilio Hato, soprannominato "pantera nera" ma anche "l’uomo elastico". Hato aveva ricevuto offerte dall’Ajax, dal Feyenoord, addirittura dal Real Madrid. Lui aveva deciso di non abbandonare l’isola, era tornato, aveva giocato per tutta la carriera a Curaçao e poi era diventato pilota aereo della compagnia delle Antille. Oggi lo stadio di Willemsted, la capitale, porta il suo nome.
Curaçao non ha mai smentito, men che meno rinnegato, le sue profondissime radici calcistiche olandesi. Bicentini, che di questo è sempre stato profondamente convinto, non ha mai pensato che la sua squadra dovesse giocare sulla difensiva, cercare di strappare pareggi, ma che dovesse proporre – imporre – il suo stile di gioco. Fare insomma dell’eredità storica la propria forza. Bacuna, sotto Bicentini, dice in un’intervista: «In fondo ogni giocatore qua ha un’esperienza nelle accademie giovanili olandesi. Siamo una specie di club olandese, onestamente. E Bicentini ci dice di portare quest’esperienza, di giocarcela, di essere creativi».
Bicentini fa ascoltare ai suoi calciatori, durante gli allenamenti, il reggaeton. Quando la Federazione gli propone degli autobus con l’aria condizionata per gli spostamenti verso lo stadio, lui rifiuta e sceglie di continuare ad usare i caratteristici bus gialli e blu scoperti. Alla fine propone ai giocatori una soluzione di decrescita volontaria: in un’epoca in cui si gioca tanto, tantissimo, perché non farlo in un contesto amichevole, stupendo, tropicale, familiare?
Nei primi ribollenti anni di Rinascimento calcistico, insomma, "The Blue Wave" inizia a diventare un hub di sviluppo non solo del talento calcistico, ma anche sociale, culturale, e perché no infrastrutturale. Si cominciano a impiantare nuovi terreni di gioco sintetici, a convincere giocatori ad abbracciare il progetto, a coinvolgere la popolazione. I tifosi iniziano a essere ben più di 500.
Uno degli aspetti che fa sembrare Bicentini un tipo ok, uno con delle belle idee, con una visione, è anche il fatto che nel 2021 abbia contattato Guus Hiddink per chiedergli di fare da supervisore al progetto. Sotto la sua guida Curaçao si è qualificata un’altra volta alla Gold Cup, nel 2019, portandola alla prima vittoria nel torneo e a una qualificazione alla fase a eliminazione diretta, dove è stata sconfitta – di misura – dagli Stati Uniti. Forse a suscitare tanta empatia è però soprattutto la maniera in cui, in qualche modo, Hiddink lo abbia tradito: sei mesi dopo quella richiesta telefonica lo storico allenatore olandese si è fatto fotografare con la maglia della Nazionale, lasciando intendere che stesse facendo le scarpe, come in effetti ha fatto, a Bicentini. Forse qualcuno, nella Federazione, aveva pensato che per crescere ancora, ancor di più, ci fosse bisogno di un nome altisonante. «Poteva telefonarmi e dirmelo che voleva il posto mio», avrebbe detto Bicentini, descrivendo il giorno in cui ha visto quella foto come «il peggiore della mia vita».
In piena pandemia COVID Curaçao gioca pochissimo, Hiddink contrae il virus, non è in panchina nella sfida fondamentale per la qualificazione ai Mondiali qatarioti persa contro Panama e a settembre 2021 decide di lasciare non solo la panchina di Curaçao, ma il calcio tout court.
Le cose, in un quinquennio, sono cambiate tantissimo. Cuco Martina, il giocatore più rappresentativo e capitano, dice: «Le prime volte che venivo qua [già dal 2011, ndr] non era una cosa seria, capito come? Non c’era niente di professionale: i campi, le divise… Ora è tutto diverso. Stiamo cresceendo, ed è qualcosa di speciale».
Quando sulla panchina - dopo una serie di interregni ancora di Kluivert, poi di Bicentini, poi di Dean Gorré - nel 2024 siede Dick Advocaat non c’è più dubbio che Curaçao stia facendo sul serio. L’allenatore che ha guidato l’Olanda all’ultimo Mondiale giocato sul suolo statunitense, nel 1994, ha la credibilità e la saggezza che servono per continuare a richiamare sempre più giocatori dalle origini curacensi che ora possono davvero fare la differenza.
Cominciano a rispondere allora alle convocazioni giovani talentuosi come Armando Obispo, centrale del PSV; la punta del Middlesbrough, Sontje Hansen; Jordi Paulina del Borussia Dortmund e soprattutto Tahith Chong, l’unico paradossalmente effettivamente nato a Willemstedt in una Nazionale composta esclusivamente da atleti nati in Olanda.
La fase finale delle qualificazioni, anziché vedere Curaçao soccombere di fronte alle più quotate Giamaica e Trinidad & Tobago, è un totale sovvertimento dell’ordine costituito. "L'Onda Blu" gioca un calcio divertente, sommerge di reti Bermuda, batte in casa la Giamaica con due gol segnati da Livano Comenencia, oggi a Zurigo ma passato dalla Juventus Next-Gen, e Kenji Gorre, figlio di Dean – allenatore ad interim e oggi direttore dello sviluppo calcistico curacense –, cresciuto nelle giovanili del Manchester United e oggi al Maccabi Haifa.
Advocaat nelle interviste continua a sostenere che «è solo fortuna», ma sa benissimo che quella di Curaçao è una storia di programmazione profonda, di entusiasmo crescente, di spettatori che da mille sono diventati tremila e cinquemila e oggi diecimila, un posto che vive la sua relazione con l’Olanda pacificamente, senza rancori sopiti né revanscismi almeno in apparenza.
In questi giorni, mentre montava l’attesa per la storia, per la qualificazione ai Mondiali, a Curaçao sono iniziate le festività di Sinterklaas che culmineranno il 6 Dicembre, giorno di San Nicola. Per le vie di Willemstadt, la capitale di Curaçao, hanno sfilato tanti Saint Niklaas, appunto, accompagnati dai loro Zwart Piet, i piccoli aiutanti, che nell’iconografia delle festività natalizie olandesi hanno abiti moreschi e la faccia tutta nera. Si tratta di una figura che negli anni, specie negli ultimi, ha sollevato in Olanda un vespaio di polemiche, accusata di essere razzista, tanto che c’è chi ha proposto di sfumare il colore del volto e ricondurlo alla fuliggine dei camini attraverso i quali si cala. A Willemstadt nessuno si cura di questo aspetto: indossare i panni di Zwart Piet, piuttosto, sembra sollevare un grande entusiasmo.
La gioia, a Curaçao, oggi è una cosa semplice. È blu come le maglie della Nazionale, come il liquore che si ottiene dalle arance amare caratteristiche dell’isola, che i marinai olandesi, un tempo, utilizzavano per curare lo scorbuto. Il calcio, spesso, arriva dove non arriva il resto. Guarisce tutti i mali. Curaçao, dopotutto, in portoghese, significa esattamente questo: guarigione.