
Gregg Popovich entra in sala stampa con un passo che non è più quello che ci si ricordava, né quello che si aspettavano da lui. Cammina con attenzione, quasi calibrando il peso, come se anche il corpo, dopo trent’anni di resistenza, pretendesse ora di rallentare, di trattenersi. Sotto la giacca aperta, una maglietta nera: lettere bianche, maiuscole, dirette. “EL JEFE”. Il capo.
Immagini che hanno rimbalzato per il mondo, la conferenza stampa in cui ha confermato quello che avevamo capito già da un po’: Pop non sarà più l’allenatore dei San Antonio Spurs, dopo 29 stagioni memorabili. Lo dice così, senza patetismi, con quella voce roca che sembra sempre provenire da un luogo troppo vissuto per concedersi variazioni sentimentali. Lo annuncia con la stessa asciuttezza con cui, in altre conferenze stampa, ha definito Donald Trump «un codardo privo di anima», o ha raccontato il razzismo americano come «una ferita che si riapre ogni giorno senza che nessuno abbia il coraggio di guardarla davvero». Popovich ha sempre parlato così: duro e preciso. E ora che smette, non fa eccezione.
Accanto a lui, Mitch Johnson. Trentotto anni. Sguardo lucido, postura da figlio che non vuole sbagliare nulla davanti al padre. Johnson sarà il nuovo coach. Ma Popovich resta. Sale ancora, se possibile: presidente delle operazioni cestistiche, “supervisore della cultura”, come lo hanno definito a San Antonio, in quella città che ha trasformato in un laboratorio di convivenza e di pedagogia laica. Sotto la superficie dell’annuncio, emerge il lascito.
Davanti ai giornalisti anche Manu Ginóbili e Tim Duncan. Vestiti semplici e occhi pieni. Non parlano perché non serve. Sono lì a custodire il senso delle cose. Il legame tra chi Popovich è stato e cosa ha costruito, non ha bisogno di essere narrato. È scritto nei loro silenzi, nella loro scelta di esserci. Ci sono stati i titoli vinti, cinque, la finale persa con gli Heat nel 2013 e una lunghissima sequela di stagioni di livello alto quando non altissimo. Una dinastia multiculturale che ha cambiato il volto della NBA e che può essere vista come antenata nobile della lega attuale, dominata da un serbo, un greco, uno sloveno.
Popovich smette di allenare e in parte finisce il gesto politico che la sua figura rappresenta. La politica di Pop è sempre stata nei dettagli: nella scelta di un assistant coach donna, nel modo in cui ascoltava un giovane durante un allenamento di Summer League, nelle letture consigliate ai suoi giocatori (Coates, Baldwin, Zinn), nel modo in cui parlava di razzismo senza delegare.
IL MARMO DELLA DISCIPLINA
Popovich ha imparato prima a obbedire che a parlare. Lo ha fatto nei corridoi ordinati e silenziosi dell’Air Force Academy, dove si entra con la schiena dritta e si esce con una concezione della disciplina come marmo da lucidare ogni giorno. Se Popovich è riuscito negli anni a dare forma, attraverso il basket, alla sua coscienza civile, è perché ha conosciuto da dentro il linguaggio del potere. E lo ha decostruito, con pazienza, negli anni.
Quando entra all’Accademia, all’inizio degli anni ’60, è figlio di un operaio serbo e di una madre croata, nato a East Chicago, Indiana, in una comunità industriale di immigrati, cresciuto nel rispetto delle regole e nel timore del fallimento. Il basket arriva presto, ma non è il centro. Il centro, semmai, è il dovere.
Sono anni strani, quelli. L’America è attraversata dalla tensione crescente della Guerra Fredda. Nelle aule dell’Accademia, Popovich studia il russo, analizza i modelli sovietici, si forma su testi che parlano di totalitarismo e libertà, ma anche di costruzione collettiva e di lavoro. Approfondisce la dialettica, anche quella marxista. Vuole capire il nemico e per farlo deve entrare nel suo pensiero. Ma lì - in quelle letture obbligate e clandestinamente affascinanti - qualcosa si incrina.
Popovich non rinnegherà mai la formazione che ha come stella polare la gerarchia. Ma la piegherà al suo sentire, facendo del rigore una forma di apertura. Quando, anni dopo, parlerà di razzismo sistemico e di leadership moralmente vuota, lo farà con la voce di chi ha conosciuto il potere dall’interno e ha scelto di combatterlo non distruggendolo, ma sovvertendolo con le sue stesse armi.
Nel 1972, partecipa a un tour sportivo in Unione Sovietica con la squadra di basket delle Forze Armate statunitensi. È una delle sue prime esperienze diplomatiche, un viaggio che lo segna. Non parlerà mai molto di quell’episodio, ma chi lo ha conosciuto racconta che tornò diverso. Non convertito, ma di sicuro in qualche modo ideologizzato perché reso più critico dal dubbio. Allenare, capirà anni dopo, sarà proprio questo: un modo di interrogare il potere, di restare dentro l’istituzione per sabotarne i meccanismi di esclusione. Allenare sarà una forma di pedagogia. E la pedagogia, come sapevano i grandi educatori, è sempre, profondamente, un atto politico.
I detrattori di Pop – da sempre pochi, pochissimi ora che ha lasciato la panchina – potrebbero dire che il suo impianto teorico si è potuto concretizzare grazie a una serie di coincidenze favorevoli, prima tra tutte la pesca del numero uno al draft di Duncan: obiezione anche accettabile ma che non sottrae un grammo di valore al percorso di un coach che semplicemente ha scritto la storia della pallacanestro mondiale. Che gli allenatori siano legati a doppio filo alle qualità dei propri giocatori, del resto, è un argomento scontato e sempre valido, confermato da decenni di sport professionistico.
LA PANCHINA COME CATTEDRA
Popovich ha sempre parlato di basket con la serietà con cui si dovrebbe parlare di educazione. Se da una parte non ha mai detto che è solo un gioco, dall'altra ha evitato di nobilitarlo con retoriche spirituali (l'antitesi di Phil Jackson? Sì, abbastanza). Per lui, il campo è un luogo di lavoro, uno spazio in cui si forma un'idea di comunità e quindi servono principalmente senso di responsabilità e di ascolto. Allenare, in questo senso, non è comandare: è insegnare. E insegnare, per Popovich, è un modo per costruire soggetti critici. La panchina è una cattedra travestita da torre di controllo. Da lì, nel corso di tre decenni, ha provato a spiegare a centinaia di giocatori come si sta al mondo, almeno secondo lui.
I timeout dei suoi Spurs - quelli immortalati nei microfoni di ESPN e diventati virali - erano mini-lezioni di filosofia applicata: pochi secondi, parole precise, una voce ruvida ma non scomposta, e sempre un fondo etico, quasi silenzioso. «You’ve got to love passing the ball» disse una volta a Boris Diaw. Non «you have to pass», ma «devi amare il passaggio». Perché c'è una differenza non sottile tra suggerire l’azione corretta e la disposizione morale a metterla in atto. Una questione di educazione del desiderio.
https://youtu.be/UjVY_nuN-K4
Nei suoi discorsi - anche quelli pubblici davanti ai giornalisti - tornavano sempre le stesse parole: rispetto, disciplina, verità, empatia. Tuttavia Popovich non ha mai sopportato la retorica da “leader motivazionale”. Agli slogan ha sempre preferito proporre lenti processi di convincimento. Diciamo che non è il tipo di persona che ama quei reel in cui qualcuno fornisce una formula più o meno magica e veloce per cambiare la propria vita o quella degli altri.
Il coaching tree che porta il suo nome - da Steve Kerr a Mike Budenholzer, da Becky Hammon a Ime Udoka - è la mappa di un’eredità pedagogica. Ognuno di quei nomi ha imparato da lui un’idea precisa: che l’allenatore è, prima di tutto, un architetto della cultura di squadra. E che la cultura non è qualcosa che “c’è”, ma qualcosa che si fa giorno dopo giorno.
Quando Becky Hammon diventa la prima donna a sedersi da capo allenatrice in un match NBA, Popovich si limita a dire: «She’s the coach tonight». Un modo di dire che non c’era niente di speciale, perché tutto ciò che è giusto deve diventare normale. Eppure, proprio lì, in quella normalità senza clamore, si rivela la politica più profonda: la trasformazione silenziosa e inesorabile della realtà.
LE PRESE DI POSIZIONE
Per chi osservava il basket dalla distanza, Popovich è sempre stato l’allenatore severo, il comandante dello spogliatoio più disciplinato della NBA, quello che parlava poco e vinceva molto. In realtà bastava ascoltarlo dopo le partite sbagliate o nei giorni complicati per l’America, quando la cronaca varcava i confini del parquet e la politica diventava insostenibile da ignorare, per capire che quell'ex analista dell’intelligence era anche una delle voci più radicali della cultura sportiva statunitense. Radicali nel senso vero: che vanno alla radice delle cose.
Nel 2017, dopo l’ennesimo episodio di violenza verbale di Donald Trump verso atleti afroamericani, Popovich chiamò personalmente un giornalista per dire ciò che molti pensavano ma nessuno, nel suo ruolo, aveva ancora detto. “A soulless coward”. Un codardo senza anima. Aggiunse che il presidente era pericoloso perché privo di empatia e incapace di compassione. Lo disse in tono secco, come se si trattasse di un’ovvietà.
Nel maggio del 2020, pochi giorni dopo la morte di George Floyd, registrò un video seduto davanti a una webcam. I capelli lunghi, la voce ferma. Disse che l’America era costruita sopra una ferita non guarita e che il presidente Trump stava solo peggiorando tutto. Disse: «Distrugge tutto ciò che tocca». E poi: «Non può dire ‘Black Lives Matter’ perché il suo ego glielo impedisce». Pop parlava da uomo bianco che ha capito che la neutralità, in certi momenti, è complicità.
Ma parlava anche quando nessuno lo stava guardando. Ha voluto che i suoi giocatori vedessero 13th, il documentario di Ava DuVernay sul sistema carcerario americano. Ha invitato la regista a discuterne con la squadra. Ha voluto che i suoi ragazzi facessero domande, che si interrogassero su cosa significa crescere in un Paese che punisce i corpi neri più di quanto li protegga. «Non possiamo allenare ragazzi che non conosciamo», disse una volta. «E non possiamo conoscerli se non capiamo da dove vengono».
Nel 2014 ha assunto Becky Hammon, rompendo un tabù di cui la Lega fingeva di non conoscere l’esistenza. Quando gli chiesero se fosse una scelta politica, rispose: «Lei è una donna. Punto». Come a dire che il genere era un falso problema da smettere di considerare.
E ancora, quando è esploso il caso Morey-Cina, con la NBA presa in mezzo tra libertà di espressione e interessi economici, Popovich è stato tra i pochissimi a difendere il diritto di parola. Quando la guerra in Ucraina ha rimesso al centro la questione dell’autoritarismo globale, ha detto: «Putin è un criminale di guerra. Non serve aggiungere altro. Chi lo giustifica partecipa al crimine».
LA DEMOCRAZIA COSTRUITA A SAN ANTONIO
San Antonio è una città di mezzo, per geografia e identità. Un luogo che guarda al Messico più che agli Stati Uniti e che ha sempre dovuto costruire la propria narrazione partendo dal margine. Forse è per questo che Popovich l’ha scelta. O, meglio, l’ha abitata davvero. San Antonio, come lui, ha bisogno prima di tutto di funzionare e non di gridare o di mettersi addosso lustrini.
Per trent’anni, gli Spurs sono stati un progetto culturale, una forma embrionale di comunità democratica in cui la diversità era condizione di partenza. Non si trattava di “integrare” - parola da chi amministra le differenze - ma di convivere. Tony Parker, francese. Manu Ginóbili, argentino. Tim Duncan, caraibico. Boris Diaw, nativo della Guadalupa. Patty Mills, aborigeno australiano. Una squadra senza accento.
Popovich, lontano anni luce dal romanticismo di un melting pot di maniera, li metteva insieme perché credeva che il talento non si esprima da solo. Ha sempre pensato che l’intelligenza tecnica, come quella sociale, emerga solo dentro un contesto stabile. Per questo il sistema Spurs non è mai stato rigido. C'era libertà incanalata, certo, ma non imposta. Dennis Rodman in una delle sue autobiografie parlò malissimo dell'esperienza a San Antonio ai tempi in cui Popovich era general manager. Di contro, non troverete mai una parola negativa di Pop su Rodman. Il “Verme” non si integrò nel sistema, è capitato anche ad altri giocatori: nulla di strano, a San Antonio nessuno ha mai avuto la pretesa di stravolgere gli esseri umani: è sempre stato offerto loro qualcosa di diverso rispetto al modello dominante nella NBA, quello sì.
Popovich ha capito con il tempo che l’alternativa all’autoritarismo non è l’anarchia, ma la responsabilità condivisa; e basandosi su questo assunto ha costruito a San Antonio una democrazia operativa, imperfetta ma reale, in cui l’unità di intenti è la stella polare e le vittorie la prova tangibile con cui convincere ogni singolo giocatore a ridimensionare il proprio ego. Nella storia dello sport professionistico mondiale gli esempi simili si contano sulle dita di una mano e difficilmente sono stati longevi e vincenti come il sistema di Pop.