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Daniele V. Morrone
Fino a che punto ci si può permettere Draymond Green?
24 nov 2023
24 nov 2023
Gli anni passano, i difetti aumentano, ma la sua presenza rimane imprescindibile per Golden State.
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Daniele V. Morrone
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IMAGO / ZUMA Wire
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Una stagione di 82 partite diluisce nella sua lunghezza l’importanza della singola vittoria. Per questo la stagione regolare della NBA, soprattutto prima di Natale, non è certo dettata dall’agonismo. Non che le difese si disinteressino, ma rispetto ai playoff è quasi un altro sport in termini di fisicità e concentrazione. Lo sanno fin troppo bene i Golden State Warriors, una delle squadre che dell’accendere e dello spegnere l’interruttore dell'agonismo durante la stagione hanno fatto un’arte, soprattutto dopo la stagione delle 73 vittorie senza vincere l’anello nel 2015-16. Il giocatore deputato a spingere o meno l’interruttore dell’impegno è da sempre Draymond Green, l’altro leader emotivo della squadra accanto al giocatore franchigia Steph Curry. E tutto questo sarebbe anche normale, visto che si tratta del giocatore sul quale si basa il sistema difensivo di Kerr, se non fosse che Draymond Green è forse il giocatore meno adatto a gestire la propria emotività. Sappiamo già che Draymond Green entrerà nella Hall of Fame per tutto quello che ha rappresentato per una delle squadre più forti della storia del gioco. Non esistono i Golden State Warriors di Steve Kerr senza la sua intuizione di promuovere Green in quintetto e farne l’ancora e l’anima difensiva della squadra. Allo stesso modo, però, sappiamo benissimo che Green verrà ricordato anche per aver superato fin troppo spesso la sottile linea tra l’agonismo e la giocata sporca, o direttamente violenta. Una corda che Green tende così pericolosamente da renderlo un bersaglio facile per la parodia del giocatore mezzo matto, che utilizza ciclicamente i media (nel suo caso anche il suo stesso podcast) per chiedere scusa o giustificarsi. Lo ha dimostrato lo sketch del Saturday Night Live della scorsa settimana, in cui l'attore Davon Walker lo imita con un taccuino su cui scrive le persone con cui dovrà vendicarsi in futuro (tra cui il suo stesso allenatore). Insomma, forse sarebbe stato più semplice accettare di aver sbagliato, ma per l'appunto stiamo parlando di Draymond Green.

Draymond Green è stato coinvolto in alcune delle situazioni più problematiche della storia della franchigia e anche questo farà parte della sua legacy per sempre. Dal colpo alle parti basse di LeBron James che è costato una squalifica in gara-5 poi risultata decisiva alle Finali 2016 fino al confronto agitato in diretta TV con Kevin Durant che ha portato il numero 7 a lasciare la baracca a fine stagione e smontare la squadra più forte di sempre, fino al più recente pugno ripreso dalle camere durante il training camp al compagno Jordan Poole che ha fatto deragliare la scorsa stagione (che teoricamente sarebbe dovuta essere quella della difesa del titolo). C’è un aspetto razionale nell’apparente follia di Green, va detto. Non si tratta di un giocatore bipolare: si può provare a dare una spiegazione logica dietro molti dei suoi atteggiamenti apparentemente fuori di testa, e lui stesso riesce spesso ad avere la capacità di tappare il buco. Sì, la sua espulsione è costata la partita che ha portato alla rimonta di Cleveland, ma la gara-7 di Draymond Green è stata di un livello incredibile, forse la migliore partita della sua carriera anche se non ha portato alla vittoria. Sì, il suo screzio con Durant ha portato alla fine della dinastia, ma ha compattato il core della squadra attorno a Curry e permesso di avere le energie per tenere unito un gruppo apparentemente logoro fino al titolo del 2022. Forse per un giocatore con il suo fisico e il suo stile di gioco, vivere sempre e comunque sul limite tra l’aggressività e la violenza non è solo un vezzo, ma una necessità. Non avendo i centimetri per poter essere un deterrente sotto canestro di per sé e giocando in una fase storica in cui il pallone è molto lontano dal pitturato, a Green non basta più rimanere concentrato e anticipare cosa succederà. Green prova sempre più spesso a dominare mentalmente l’incontro, cercando di andare sotto pelle ai suoi avversari con l’utilizzo di ogni tattica a sua disposizione, lecita e non. Vale anche coi suoi compagni di squadra: non è semplice tenere sulle spine un gruppo pieno di giocatori dai caratteri peculiari come Curry e Thompson, e a volte anche fin troppo passivi come nel caso di Andrew Wiggins. La sua presenza li protegge e al tempo stesso li sprona a dare di più in termini di aggressività. A volte stare sempre lì a cercare di tenere alta l’asticella, però, inevitabilmente ti porta ad andare oltre. Al primo turno degli scorsi playoff, frustrato da una serie che si stava avviando verso il 2-0 per Sacramento, ha pensato bene di calpestare Domantas Sabonis finito a terra sotto di lui. Green è stato espulso dalla partita e sospeso per quella successiva, dove gli Warriors hanno giocato con la mentalità giusta riuscendo a rimettere la serie in carreggiata.

Quanto è stata follia del momento e quanta è stata premeditazione?

Il punteggio, l’atteggiamento dei compagni, il livello della sua prestazione: tutto questo contribuisce o meno a portarlo vicino al punto di ebollizione. Ogni singola partita che reputa importante può arrivare a quel punto e ogni singola volta non è certo lui quello che prova ad abbassare la temperatura – soprattutto se provocato, come nel caso recente con i Minnesota Timberwolves. Per capire bene cosa è successo bisogna fare un passo indietro. Nella partita precedente sempre contro i T’Wolves, il suo tentativo di trash talking gli si è ritorto contro: verso la fine della partita aveva fatto un fallo particolarmente duro su Anthony Edwards lanciato a canestro, per poi dirgli in faccia: «Pensavi che ti avrei lasciato un layup? Ma vattene». La risposta della stella di Minnesota però non è stata di andargli contro, ma di ignorare le provocazioni e di segnargli tre canestri in faccia di pura arroganza cestistica, come a dimostrargli che con le sue mattane non faceva più paura a nessuno. Non è la prima volta che succede ultimamente e dimostra come, con gli anni che passano, gli avversari hanno capito che giocare sull’emotività di Green è la risposta migliore per affrontare la difesa degli Warriors.

Al successivo incontro tra le due squadre, alla prima occasione buona Green è partito addosso a Rudy Gobert alzando il livello dello scontro dalle parole alle mani, beccandosi l'espulsione immediata.

Con una presa al collo degna di un incontro di wrestling, Green è sbucato dal nulla per andare a bloccare da dietro Gobert durante un accenno di rissa nato tra Klay Thompson e Jaden McDaniels, passando dalle frecciatine verbali allo scontro fisico tra i migliori difensori degli ultimi anni nella NBA. O meglio: uno allo scontro, l’altro a subirlo. Tanto che uno si è beccato la squalifica e l’altro no. Green questa volta il limite lo ha oltrepassato. Per mandare un segnale forte la NBA lo ha sospeso per 5 partite, citando quasi più la sua lunga lista di precedenti (come avvenuto dopo il pestone su Sabonis ai playoff) che l’azione in sé. Una sospensione che gli è costata anche 769mila dollari in stipendi mancati (perché parametrata sul suo salario annuale da 22.3 milioni) e che ha avuto un peso enorme sull’inizio di stagione degli Warriors, visto che ad oggi, nelle partite 10 senza di lui (ne ha saltate anche alcune a inizio anno per una distorsione alla caviglia) il record degli Warriors è di 2 vinte e 8 perse. Il record positivo iniziale è già stato bruciato, così come gli sforzi di Steph Curry, che sta provando a fare legna in attacco. Green si è andato a ficcare in una situazione che certamente non serviva alla sua squadra in questa fase della loro quasi decennale avventura con Kerr. Lo stesso allenatore questa volta non ha potuto esimersi dall’usare il bastone nei suoi confronti: «Il comportamento tenuto da Draymond è imperdonabile e lui deve trovare un modo di non varcare quella soglia. Non sto parlando del farsi espellere o del prendersi un tecnico. Mi riferisco a un atto di violenza fisica. Non ci sono scuse per quello. Deve comprendere la differenza che passa dall'essere un agonista incredibile, ciò che lui è da sempre che è anche il motivo per cui si trova dov'è, al varcare quella soglia che porta alla violenza fisica come ha fatto l'altra notte».Green, giocatore anacronisticoIl fatto che l’allenatore debba parlare così di un giocatore con la barba che accenna ad imbiancare fa pensare che siano parole al vento. Green probabilmente non andrà più a strozzare un giocatore che gli sta antipatico (oddio: non ci metterei la mano sul fuoco), ma troverà il modo di superare il limite altre volte perché è un giocatore, da questo punto di vista, anacronistico. Si vede che è figlio della NBA anni ‘90, quella degli enforcers, di giocatori che stavano in campo semplicemente perché dovevano rendere il pitturato una zona a traffico limitato, con le buone e fin troppo spesso con le cattive. Da Bill Laimbeer a Dennis Rodman a Detroit fino a Charles Oakley a New York, solo per citarne tre tra i più celebri. L’idea era che in ogni squadra serviva qualcuno che facesse da guardaspalla alla stella. Da una parte per proteggerlo fisicamente e dall’altra per mantenere alto il livello di aggressività difensiva. Il motto per l’enforcer era che se non puoi fermare l’avversario con le buone, hai carta bianca per provare con i falli più duri e le scorrettezze più basse, dalle gomitate sotto canestro ai piedi infilati sotto chi salta. E se l'avversario reagisce, ecco l’occasione buona per una bella rissa che mette in chiaro che l’enforcer è pronto ad alzare l’asticella della violenza fino anche a vedere il sangue. Il libro Sangue al Garden scritto da Chris Herring e uscito da poco in italiano lo spiega bene parlando dei Knicks anni ‘90, che sulla carta bianca agli enforcers basava la sua celebre difesa. Gli stessi "Bad Boys" di Detroit, la squadra dello stato in cui è cresciuto Draymond Green, basavano la loro difesa contro i Chicago Bulls di Michael Jordan sul fare di tutto per non farlo entrare nel pitturato con le famose Jordan Rules. Ecco come venivano riassunte da Chuck Daly: «Giocare duro, sfidarlo fisicamente e variare le difese per cercare di portarlo fuori dalla partita». Che significa fargli sentire il fisico in tutti i modi, per evitare che tiri in equilibrio vicino a canestro. Insomma: provare a frustrarlo con la violenza. Per fortuna questi tempi sembrano oggi far parte del passato. Con gli anni la NBA si è tutelata, complice anche la rissa tra gli Indiana Pacers e i Detroit Pistons di 20 anni fa come punto di svolta. Ora gli enforcers non sono più tollerati e per certi versi celebrati: ogni accenno di rissa viene spento sul nascere e perfino le scorrettezze più comuni in quegli anni vengono punite con l’espulsione dalla partita. Per uno che è cresciuto con i racconti delle Jordan Rules e si è formato nella Michigan State di Tom Izzo, come Draymond Green, essere l’ancora difensiva significa però utilizzare la violenza tanto quanto la tecnica nelle uscite, proprio come parte del dialogo con gli avversari. Da un certo punto di vista Green è stato un archetipo del futuro della lega, tanto da portare per anni le altre squadre a scegliere giocatori al Draft che potessero replicare le sue caratteristiche, senza davvero riuscirci. Green è diventato tanto unico quanto un coccodrillo rimasto in vita mentre i dinosauri si estinguevano e i mammiferi iniziavano a prendere il sopravvento.Per questo lo scontro con Gobert è tanto sentito dai due. Ugualmente antipatici agli avversari e spigolosi come caratteri, Gobert è un talento naturale in termini difensivi: un giocatore enorme e bravissimo a gestire il suo corpo per proteggere l’area. Green è un difensore costruito su un fisico con una bella stazza ma senza un'altezza straordinaria, e che deve fare al massimo dello sforzo fisico ogni cosa. Gobert come deterrente sotto canestro può permettersi cose che Green può solo sognarsi. Per esempio: giocare in modo “pulito” e la sua squadra avrà comunque un’ottima difesa interna, mentre Green non può permettersi di giocare a meno del suo 100% se non vuole che la sua squadra vada sotto contro i frontcourt più strutturati. E questo ancora di più alla luce della natura più pacata del compagno di reparto Kevon Looney, con cui si trovano a fare il più stereotipato dei “poliziotto buono poliziotto cattivo”. O forse meglio: poliziotto che fa il suo lavoro senza voler creare rogne e poliziotto che è sempre al limite della sospensione dal servizio.Probabilmente alla prossima puntata del suo podcast Green si scuserà per quanto fatto a Gobert, aggiungendo anche una spruzzata di giustificazione. Magari nelle prossime partite tornerà a mostrarsi più tranquillo, con quel sorriso serafico che mostra spesso nelle partite che non reputa importanti. Ma altrettanto probabilmente tra qualche mese ci sarà una partita frustrante e un suo fallo da flagrant 2 o un doppio tecnico, e il ciclo ricomincerà. Suo malgrado Green è quello che più di tutti nella NBA sembra ricalcare la vecchia storia della rana e dello scorpione, nella parte dell’aracnide: ti aiuta ad attraversare il fiume con piacere, ma ogni tanto fa partire il pungiglione che rischia di fare affondare tutta la baracca. Sembra facile concludere che questa è la natura di Draymond Green e che bisogna prendere o lasciare, considerando che le volte in cui le cose vanno come dovrebbero sono state di più di quelle in cui non è andata bene, e la sua carriera sembra dimostrare che sia proprio così. E la sua stessa franchigia, che aveva l’opportunità di tagliare i rapporti alla fine dello scorso anno lasciandolo andare via da free agent, alla fine ha deciso che averlo dalla propria parte era comunque meglio, rinnovandolo per altri quattro anni a 100 milioni di dollari complessivi.I titoli di Golden State non si spiegano senza la natura di Green, che allo stesso tempo però dà dei bei grattacapi alla sua franchigia. Green è fin troppo bravo a farsi odiare da tutti: compagni, staff, dirigenza, avversari, tifosi. È anche per questo però rimarrà uno dei giocatori più memorabili della sua generazione.

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