Se esiste una massima che, a Houston più che altrove, ogni appassionato di basket conosce bene, è quel “Mai sottovalutare il cuore di un campione” coniato da coach Rudy Tomjanovich dopo il secondo titolo consecutivo vinto alla guida dei Rockets di Hakeem Olajuwon. E quella massima, divenuta negli anni un mantra in giro per la NBA, è risuonata ancora una volta sugli spalti del Toyota Center, dove il pubblico di casa ha dovuto incassare l’ennesima, bruciante delusione. Come l’anno scorso e come in quattro degli ultimi cinque anni, ma se possibile in maniera ancora più bruciante, perché a questo giro la sorte aveva elargito a Harden e compagni un’offerta impossibile da rifiutare: prendersi la rivincita sui rivali privi del loro miglior giocatore, Kevin Durant.
Arrivano i rinforzi
Per ironia della sorte, in una serie di playoff memorabile con sei futuri Hall Of Famer in campo e due a guidarli in panchina, le speranze dei campioni in carica erano riposte nelle cosiddette riserve. Senza Durant, e volendo vedere anche senza DeMarcus Cousins, coach Steve Kerr si è giocoforza dovuto affidare a giocatori che fino a quel momento avevano avuto un ruolo marginale, se non addirittura nullo, nelle sfide precedenti. E la prima parte di gara, caratterizzata dalle molte palle perse da entrambe le parti, ha vissuto proprio sull’apporto della second unit degli Warriors.
A inizio secondo quarto Kerr ha già fatto assaggiare il parquet a undici dei dodici giocatori a disposizione, tra cui Quinn Cook che, giusto per intendersi, contro Houston aveva collezionato fin lì 19 secondi totali. Ai Rockets è sembrata mancare la determinazione feroce mostrata durante i due episodi precedenti in Texas: i primi due quarti si sono risolti in una sfida tra Thompson (21 punti) e Harden (19) che ha mandato le squadre negli spogliatoi in perfetta parità sul 57-57 - un enorme affare per gli ospiti, che hanno avuto dai 12 minuti sul parquet di Steph Curry gli stessi identici punti di Kevin Durant (zero).
Senza KD e con Curry assente, nel primo tempo gli Warriors hanno rispolverato i ritmi frenetici e la circolazione di palla tipici del biennio 2014-16: penetrazione sulla linea di fondo, cambio di lato e tripla per Klay Thompson, fondamentale per rimanere a galla.
Draymond & Dracarys
La panchina di Golden State, che nei primi due quarti ha segnato quanto nelle due sfide precedenti messe assieme (20 punti), ha cominciato ad andare in difficoltà nella ripresa, quando gli Warriors sono rimasti in partita grazie alle triple di Iguodala (5/8 da tre per il suo massimo ai playoff da 17 punti), bravo a sfruttare gli spazi concessi dalla difesa avversaria in perenne raddoppio sugli Splash Brothers. Quando Draymond Green, anima difensiva della squadra, ha commesso il suo quarto fallo con poco meno di 5 minuti sul cronometro del terzo quarto, però, la gara era sembrata andare in direzione dei padroni di casa. Un Chris Paul in grande spolvero (10 punti nel terzo quarto) stava sfruttando bene gli accoppiamenti con Cook e Looney, e solo gli inconsueti errori dalla lunetta di Harden (chiuderà con 7/12 ai liberi) hanno frenato la fuga dei Rockets.
Paul porta a scuola Cook e Looney: per lui una gara vintage fa 27 punti, 11 rimbalzi e 6 assist alla sua possibile ultima chance di andare in Finale NBA.
Senza Green, gravato dai falli, e Iguodala, in panchina a rifiatare, Houston ha giustamente raddoppiato Thompson e Curry in maniera sistematica. Quest’ultimo si è scrollato di dosso la pessima serata al tiro con un terzo quarto da 10 punti, segnando la prima tripla a 2:14 dal termine del terzo parziale che si è comunque chiuso con Houston avanti di cinque lunghezze.
Esattamente come in gara-5 e in generale nella serie, Curry è sembrato a lunghi tratti in evidente difficoltà. Quella contro i Rockets è per distacco la sua peggior serie di playoff in carriera (chiusa con il 40% dal campo e il 28% da tre), e il dito medio della mano sinistra lussato in gara-2 è sembrato limitarlo parecchio nel trattamento della palla - lanciando pessimi segnali a Steve Kerr. Poi, allo scoccare dell’ultimo quarto come la mezzanotte per Cenerentola, è successo qualcosa. Seduta in prima fila c’era Emilia Clarke, alias Daenerys Targaryen, e anche se non è chiaro per chi faccia il tifo appare legittimo a posteriori sospettare che durante l’intervallo abbia sussurrato la parola d’ordine ‘Dracarys’ all’orecchio del due volte MVP.
Il 4° quarto di Steph è stato semplicemente surreale, materia per l’appunto più da saga fantasy che da contesa sportiva. Dopo aver chiuso la prima parte della gara con zero alla voce punti sul tabellino, Curry ha preso in mano la partita segnando 23 punti nella frazione finale, con 6/8 dal campo, 3/5 da tre e 8/8 ai liberi.
Tutta la classe di Curry e la sua espressione trasfigurata dalla stanchezza nel dopo-gara: 16 punti sono arrivati negli ultimi cinque minuti.
I Rockets non hanno potuto fare altro che assistere basiti alla sua performance: pur rispettando il loro piano difensivo e raddoppiandolo anche a metà campo, non sono riusciti a evitare che i suoi giochi a due con Draymond Green (situazione di gioco quasi finita nel dimenticatoio nell’era Durant, ma ancora ben presente nelle memorie muscolari dei protagonisti, come testimoniano i 19 punti prodotti in 10 possessi) li facessero a fette. Il solo Harden ha provato ad opporre resistenza chiudendo con 12 dei suoi 35 punti nell’ultimo quarto ma non è bastato, perché sulle ali di quello che rimane il loro giocatore-simbolo di questa dinastia gli Warriors sono volati in finale di Conference per il quinto anno consecutivo. E anche se entrambe le squadre hanno lasciato il campo stremate, lo hanno fatto con prospettive ben diverse.
Rimpianti e rimorsi
Per Houston quella in arrivo sarà un’estate in cui saggiare la sottile differenza tra rimpianto e rimorso. Se un anno fa l’infortunio a Chris Paul aveva rappresentato il cardine attorno a cui ricomporre il crollo di Houston nel momento decisivo delle finali di Conference, quello occorso a Kevin Durant in gara-5 ha all’improvviso dischiuso le inferriate verso la gloria per Harden e compagni. I Rockets, peraltro, il loro posto al cospetto dei cancelli dorati oltre cui s’intravede la sagoma del Larry O’Brien Trophy se l’erano guadagnati, recuperando dopo le prime due sconfitte con tenacia pari o forse superiore al loro talento. Ma, come insegna un altro adagio ormai entrato nel linguaggio comune “you come at the king, you best not miss”, quando hai il bersaglio grosso nel mirino, non puoi sbagliare.
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Lo sa bene Daryl Morey, che ha concesso l’onore delle armi agli avversari proprio citando The Wire.
I ragazzi di coach D’Antoni, invece, hanno proprio mancato il colpo proprio quando il forfait di Durant sembrava aver spostato l’inerzia della serie verso il Texas, dando loro un’opportunità probabilmente irripetibile di spodestare gli Warriors dal loro trono. Ora, nell’attesa di capire cosa succederà al resto della Western Conference durante il mercato estivo, il futuro della squadra assemblata da Morey si prospetta complicato. I contratti concessi ad Harden e Paul, e in parte anche quello di Capela, bloccano qualsiasi manovra di ristrutturazione del roster, così come il fattore anagrafico appare intralcio difficile da superare. I Rockets, squadra con l’età media più alta dell’intera lega, erano costruiti per vincere qui e ora. Il destino gli ha servito un’occasione gigantesca: difficile immaginare che la concomitanza perfetta di eventi possa ripetersi nei prossimi anni.
Endgame
Golden State è invece riuscita a venire a capo di una serie intricata, in cui l’equilibrio è andato persino oltre quanto espresso in maniera più che evidente dai numeri (lo scarto medio tra vincenti e sconfitti è stato di 4.8, dato più basso mai registrato nella storia dei playoff NBA). Sei partite che dal punto di vista emotivo sono state una lunga corsa senza sosta sulle montagne russe: dopo le prime due gare la vittoria dei campioni in carica sembrava ineluttabile; poi Houston ha rimesso in pari la contesa grazie ad una reazione inaspettata; quindi è arrivato il colpo di scena dell’infortunio a Kevin Durant a invertire l’inerzia, cambio di prospettiva (da favoriti a sfavoriti) che gli Warriors hanno usato come pungolo motivazionale per ritrovare una combattività che sembrava essersi diluita nel mare di talento a disposizione.
La missione, però, non è ancora compiuta. Come in Avengers: Endgame, Steph e compagni si sono sbarazzati del cattivo di turno con largo anticipo rispetto alla fine del film. E come nell’ultimo capitolo della saga a firma Marvel, il cattivo è destinato a tornare presto in scena. Risulta difficile immaginare Jokic o Lillard nei panni di Thanos, anche se il confronto con una tra Nuggets e Blazers nasconde rischi da non sottovalutare a livello di tenuta atletica e accoppiamenti. Al passo successivo, più credibile nel ruolo di titano onnipotente, ci sarà Giannis oppure Kawhi o ancora Embiid, tutti protagonisti di momenti in cui è risultato lecito sospettare che il guanto con le gemme dell’infinito fosse piombato tra il Wisconsin, l’Ontario e la Pennsylvania.
Improbabili paralleli cinematografici a parte, sulle concrete possibilità di vincere il quarto titolo in cinque anni (impresa riuscita solo ai Boston Celtics di Bill Russell più di mezzo secolo fa) pesa un logorio fisico già evidente in avvio di playoff e acuitosi durante le sfide contro i Rockets, oltre all’incertezza su tempi e modalità di recupero di Kevin Durant. A dire il vero, però, se c’è una cosa che la serie con Houston dovrebbe aver insegnato agli Warriors è che il loro nemico più pericoloso risiede proprio sulla Baia e si chiama arroganza. È una lezione di cui tutti, dalla proprietà a Kerr fino ai giocatori, dovranno tenere conto se vorranno davvero scrivere la Storia con la esse maiuscola. Magari facendo facendo leva su quel senso di urgenza visto ieri notte che caratterizza chi è appena scampato a una possibile tragedia, fortunatamente in questo caso solo sportiva.
Gli Warriors, ancora una volta, sono sopravvissuti e il loro viaggio continua. E tutto sommato è un privilegio essere presenti per poterlo testimoniare, perché quella appena vista è l’ennesima conferma che ci troviamo di fronte a una squadra irripetibile.