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Daniele Manusia
Gli ultimi folli minuti di Atletico e Tottenham
27 ott 2022
27 ott 2022
Tra VAR e reazioni degli allenatori ieri è successo di tutto.
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Daniele Manusia
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Ci deve essere una regola da qualche parte, nei libri di economia, di sociologia, o forse c’entra con la termodinamica, secondo cui se provi a mettere mano su un aspetto specifico di un sistema complesso, se provi a controllare una parte del tutto, cioè, crei inevitabilmente uno scompenso che non ti aspetti da qualche altra parte. Come in quei cartoni animati di una volta in cui un personaggio prova a tappare un buco sulla carena di una nave e l’acqua sprizza da un altro buco, lui mette la mano sul primo buco e l’acqua lo schizza in faccia dal secondo. Di sicuro è una regola valida per il calcio che stiamo vedendo in questi anni; calcio a cui forse spetta (come un tempo spettava al teatro, alla letteratura e alla scienza, ma oggi spetta al calcio come ambito su cui noi umani concentriamo la maggior parte delle nostre attenzioni) il compito di rappresentare l’eterno conflitto tra ordine e caos. Tra gli sforzi umani per comprendere e controllare razionalmente gli eventi naturali e la più naturale capacità che hanno gli uomini stessi di incasinare ogni cosa a portata di mano. Tipo, il VAR. A che serve aggiornare i propri metodi di allenamento, fare un mercato il più possibile efficace basandosi su dati oggettivi, motivare i giocatori portandoli a teatro o, che ne so, facendogli guardare degli oggetti personali che gli ricordano perché scendono in campo, e poi preparare le partite sugli avversari, studiare video di ogni giocatore avversario, prendere un numero di accorgimenti pari alle possibili difficoltà che prevedi di affrontare, preparare strategie alternative e i cambi da fare a partita in corso, se poi tutto si risolve nella verifica rallentata di un’azione che nessuno ha visto, in un rigore fischiato addirittura dopo che l’arbitro ha già fischiato la fine della partita o in un gol annullato quando mancano dieci secondi per un fuorigioco così controintuitivo che viene voglia di mettere la televisione in verticale per provare a vedere meglio?Atletico Madrid - Bayer Leverkusen e Tottenham - Sporting Clube, due partite giocate in contemporanea in due stadi diversi, hanno avuto una coda finale talmente assurda che verrebbe quasi voglia di mettere tutto insieme, di raccontarle come fossero una partita sola. Una sorta di uber-partita in cui la mano invisibile e malvagia del VAR si oppone a ogni nostro tentativo di dare un senso narrativo alle cose e gioca con il flusso delle nostre emozioni. L’Atletico doveva per forza vincere per sperare di poter passare il turno, in un girone in cui, qualche mese fa, anche solo non immaginarlo primo in classifica sarebbe stato strano. E invece con la sconfitta del Brugge, sorprendente capolista, per mano del Porto diventava fondamentale battere il Leverkusen di Xabi Alonso. Ma l’Atletico è in un momentaccio, forse a fine ciclo. E va sotto 1-0, pareggia ma va di nuovo sotto 2-1. Pareggia ancora all’inizio del secondo tempo, con un grande gol di Rodrigo De Paul da fuori area, e si costruisce qualche altra occasione per pareggiare, ma arriva nei minuti di recupero ancora sul 2-2. Una di quelle partite che finiscono con il portiere, Oblak, nell’area di rigore avversaria a saltare di testa sull’ultimo calcio d’angolo.

L’esultanza composta di Xabi Alonso dopo uno dei gol del suo Leverkusen. Giusto per confrontarla, poco più avanti, con lo stile del Cholo.

“È stata la serata più dura da quando sono seduto su questa panchina”, ha commentato Simeone, e se davvero questa sarà una delle partite che ricorderemo come l’inizio della fine della sua era, quel rigore finale sembra quasi uno scherzo fatto apposta contro di lui. Simeone il re del caos, che controllava la tensione di una partita come il batterista di una band metal si perde e al tempo stesso controlla ritmi demoniaci, alimentando quella tensione e nutrendosene, perché è proprio in quel nervosismo, in quell’idea di calcio testosteronica e da fine del mondo, che i suoi uomini avrebbero trovato l’atto decisivo. Simeone che si prende in mano le palle come se stesse chiamando uno schema (forse ci sono davvero degli schemi che Simeone chiama ai suoi giocatori con il gesto di prendersi le palle in mano, chissà).

Questa stagione è solo la seconda, delle ultime dieci, in cui l’Atletico Madrid non si qualifica per gli ottavi di finale di Champions League. E il modo in cui lo ha fatto sembra un paradosso talmente grande che ha davvero il profumo di fine impero, di caduta dell’élite, di bunker e cianuro (che non ha profumo ma, come ha fatto appena in tempo a scrivere uno scienziato che si è sacrificato assaggiandolo, ha un sapore amaro). La partita era già finita, i tifosi colchoneros che sulla delusione hanno costruito la loro identità erano già stati delusi da questa partita. Ma l’arbitro ha ricevuto la chiamata dal VAR, proprio come i santi ricevevano quella del Signore, si è portato la mano all’orecchio e a quel punto la partita si è riaperta. Sono seguite scene francamente un po’ ridicole di giocatori dell’Atletico e di Simeone stesso che gesticolavano chiedendo un fallo di mano che non avevano visto (forse solo De Paul lo aveva chiesto prima dell’intervento della regia arbitrale), con l’illusione che le cose effettivamente avvenissero ancora lì dove si trovavano loro e non su un piano trascendente - quello del VAR, appunto. Si creano capannelli senza senso di giocatori, De Paul spinge Bakker, Amiri spinge De Paul, Witsel li separa, come se qualcuno di loro avesse minimamente il potere di influire sulla decisione dell’arbitro prima ancora che potesse rivedere l’azione al replay. Sembra che lo scopo di tutti sia non far andare l’arbitro allo schermo a bordocampo, risolverla lì tra di loro, parlando. Il replay è un casino, quasi come l’azione a velocità naturale. Oblak scivola prima ancora di provare a saltare (forse su di lui ci potrebbe essere un fallo di Andrich che allarga la gamba) e la palla viene deviata da Kondogbia sul difensore del Leverkusen, Kossounou, che poveraccio prova anche a togliere il braccio ma difficilmente potrebbe togliersi la spalla. O forse il tocco penalizzato è di Hincapié, con la mano sinistra, un tocco ancora più impercettibile, ammesso che ci sia stato, e che in ogni caso non avrebbe cambiato l’esito del cross, dato che l’unico giocatore dell’Atletico dietro di lui era Oblak in caduta libera. Ma che importa, il VAR ha trovato un tocco quasi impercettibile tra una parte del corpo illegale di un difendente, uno qualsiasi,e tanto basta.

Prima del rigore, Simeone sembra parlare da solo guardando in terra. Forse prova a parlare con quelle divinità oscure con cui era in contatto fino a non molto tempo fa.

E dato che se provi a controllare una zona così grigia crei uno sbilancio in qualche altra parte della trama del destino, il rigore che nasce da una situazione così caotica non farà altro che prendere quel caos e moltiplicarlo. I giocatori continuano a litigare perché ormai non hanno più certezza di niente. Chi comanda davvero, chi controlla una partita di calcio? Non è più una partita, ma un sabba demoniaco. De Paul indica il punto di battuta del rigore, Hincapié gli contesta anche quello. L’arbitro parla con Hradecky, il portiere, perché non sia mai che muova un piede dalla riga di porta costringendo il VAR a farlo ripetere, a quel punto forse il Wanda Metropolitano brucerebbe per autocombustione spontanea dei tifosi. Quindi Carrasco - che mette la palla sul dischetto con la cerimoniosità di un prete che alza l’ostia al cielo ma poi sporge la lingua sul lato destro della bocca, dando una chiara indicazione dell’angolo in cui calcerà - se lo fa parare, e sulla ribattuta Saul prende la traversa, la palla arriva sui piedi di Mandava che calcia quasi a colpo sicuro ma colpisce proprio Carrasco. Mitchel Bakker, difensore olandese già del PSG, non si trattiene ed esulta ballando intorno a Carrasco come fosse una strega legata al palo, gridando a un centimetro dalla faccia di Carrasco, che in qualche modo riesce a fare finta di niente.

Mentre l’Atletico Madrid falliva il rigore che avrebbe tenuto in vita la sua qualificazione dopo che la partita era già finita, il Tottenham cercava di segnare il gol del 2-1 allo Sporting Clube, al termine di una partita dominata per lunghi tratti e che, dopo il pareggio di Bentancur (su cui i difensori avversari hanno provato a protestare, perché in fin dei conti non si sa mai che può vedere il VAR), era diventata uno scherzo ai danni di Antonio Conte. Conte l’ossessivo, sempre a duemila, che dà della testa di cazzo a un suo giocatore per motivarlo, che riempie l’area di cross e di corpi in cerca della deviazione giusta, che prova a mandare la palla in porta con la forza della propria voce, a spingerla in rete con l’aria che esce dai suoi polmoni. Conte, tra l’altro, a cui faceva da contraltare Ruben Amorim. Vestito con una felpa grigia e le Dunk, con un’aria normale, positiva, quasi allegra, ancora a un quarto d’ora dalla fine. Sa di essere la figura in cui la squadra deve rispecchiarsi: quando i suoi uomini gettano uno sguardo alla panchina lui deve farsi trovare attivo, ottimista, carico. E così è.

Poi però succede qualcosa, e cioè che Flavio Nazinho sbaglia due gol strani da sbagliare. Non esistono persone più paranoiche degli allenatori. La loro ansia ha affinato dei sensi supplementari, per cui sembrano riuscire a prevedere la sventura nell’aria. Così, quando il Tottenham ha un calcio d’angolo, Amorim crolla. Lo Sporting è ancora avanti 1-0, ma è quello il momento in cui il tecnico intuisce che sta per succedere qualcosa di brutto. Non vuole nemmeno guardarlo il calcio d’angolo, la sua faccia piomba verso terra.

È rimasto così fino a dopo che la palla è entrata in porta. Come faceva a saperlo?

Negli ultimi dieci minuti il Tottenham ha avuto due occasioni incredibili, con due colpi di testa di Eric Dier, il secondo dei quali mandato al lato colpendo da dentro l’area piccola di porta. Antonio Conte era sempre più incredulo, disperato, con le mani sulle ginocchia, con una mano in fronte come se sentisse che gli stava salendo la febbre. Amorim, da parte sua, ormai guardava la partita inginocchiato. Anzi, non guardava la partita inginocchiato, i suoi occhi erano fissi a terra, come se in campo stesse avvenendo qualcosa di troppo duro da guardare.

Qui in occasione della seconda occasione di Dier, all’89esimo, Amorim non alza lo sguardo finché la palla non scivola oltre la riga di fondo, al lato del palo.

A quel punto il gol del 2-1 di Harry Kane sembra al tempo stesso una ricompensa per lo stress provato da Conte e la conferma di qualcosa che Amorim sapeva dovesse accadere. Un’azione strana, una sponda sul secondo palo di Emerson Royal (gran nome) deviato da un difensore e che finisce proprio davanti a Kane. Conte esulta dando tutto quello che gli era rimasto in corpo, salta sui suoi collaboratori, salta sui suoi giocatori. Ma insomma, dico io, non hanno ancora imparato a contenere le proprie emozioni finché il VAR non approva la giocata, finché dall'alto gli viene dato il permesso di esultare? A sua parziale giustificazione possiamo dire che era un’azione su cui, a prima vista, era difficile anche solo pensare di controllare il fuorigioco dato che la sponda di Emerson Royal sembrava andare - e in effetti andava - all’indietro. Senza deviazione del difensore, la palla non sarebbe mai arrivata a Harry Kane. Si tratta quindi di un fuorigioco cervellotico, che penalizza di fatto un passaggio sbagliato; questione di centimetri, della punta del piede, dell’unghia nera del pollicione di Harry Kane; ma da regolamento, appunto, sempre di fuorigioco si tratta. Anche in questo caso, mentre il VAR si prende il suo tempo (3 minuti) i giocatori in campo litigano tra di loro e discutono con l’arbitro, cercano di fargli cambiare idea anche se forse farebbero meglio a prendergli il microfono a lanciare messaggi direttamente al VAR, come i matti che parlano nei cestini della spazzatura pensando che ci sia dentro una microspia della CIA. L’arbitro all’inizio prova a spiegare qualcosa, mima dei gesti, ma i calciatori non capiscono. Non possono capire. Conte esplode di nuovo, la carotide gli sta per esplodere mentre gesticola in direzione dell’arbitro, che lo espelle dopo due secondi, come se l’espulsione di Conte fosse una conseguenza diretta del gol annullato e non di qualcosa che Conte ha fatto o detto (che poi magari abbia fatto o detto qualcosa meritevole del cartellino rosso è un altro discorso).

Una carrellata delle emozioni di Conte, in senso temporale inverso: dalla collera per il gol annullato all'incredulità e alla disperazione per le occasioni di Dier.La partita riprende per finta, mancavano così pochi secondi che il portiere dello Sporting, Antonio Adan, rinvia lungo e l’arbitro fischia subito la fine. Conte ha messo in dubbio “l’onestà” di quel fuorigioco, ha parlato dei “danni” del VAR all’interno di un discorso confuso in cui ha detto che a loro capitano cose che non capiterebbero a “grandi squadre in partite importanti”. Amorim, al contrario, ha detto che il VAR gli piace perché “giusto”. In ogni caso, questo è il calcio oggi. Parte umano, parte no, un cyborg che ha acquisito libero arbitrio e si è rivoltato contro i suoi creatori. Personalmente ormai guardo le partite come guardo i film dell’orrore. Non mi piacciono, i film dell’orrore, sia chiaro. Mi alzano i battiti e ogni volta per calmarmi mi dico che magari non succederà niente di male. Che quel bambino o quella ragazza non verrano massacrati brutalmente. Poi però ricordo che sto guardando un film dell’orrore: qualcosa di brutto deve succedere per forza, altrimenti sarebbe una commedia o un dramma su una famiglia che si annoia in una casa isolata vicino a un lago. Allo stesso modo, mentre guardo una partita di questo tipo so già che prima o poi succederà qualcosa di tremendo, che il VAR si farà messaggero di sventura a un certo punto. Non è una critica allo strumento - che poi sarebbero più strumenti: il normalissimo replay nel caso dell’Atletico, la tecnologia per tirare le linee del fuorigioco in quello del Tottenham - quanto una constatazione di come il VAR sia ormai un veicolo di emozioni esogeno, che provengono dall’esterno, da un punto situato fuori dal campo di calcio. Bisogna fare i conti col VAR come si fa con i migliori cattivi dei film horror, sempre dietro l’angolo che non ti aspetti.

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