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Michele Pelacci

Il Giro donne deve essere una notizia grossa

Il racconto della 32esima edizione della più importante corsa a tappe femminile.

Prima della sesta tappa del Giro donne, la Colico-Colico, accadono cose che spezzano la rigidità del programma delle presentazioni. Il cerimoniale è sempre uguale a se stesso: abbandonato il proprio quartier generale, cioè il coacervo di pullman, sedie e biciclette che ogni squadra riunisce nello stesso spazietto, le atlete devono fare qualche centinaio di metri, appoggiare le bici alle transenne, salire una scaletta di ferro con gli scomodissimi scarpini da bici, farsi annunciare nome per nome dallo stesso speaker per molti giorni di fila. Va così anche oggi, ma con due eccezioni.

 

Quando sale il Team DSM, a Floortje Mackaj viene consegnato un ricordino. Più che l’oggetto in sé (una di quelle sfere di vetro in cui sembra nevicare, raffigurante il lago di Como), è particolare la motivazione dietro tutto questo: i genitori di Mackaj vivono a Utrecht in via lago di Como e all’organizzazione è sembrato divertente che lei potesse portare ai suoi un souvenir dal vero lago di Como.

 

Il secondo evento peculiare avviene invece nel retro. Con la maglia di campionessa francese di Évita Muzic, scende dal palco tutta la FDJ. Qualcuno chiede un selfie a Marta Cavalli, forte scalatrice cremonese. Cecilie Uttrup Ludwig sta sgattaiolando via quando un tifoso la chiama a gran voce. Lui le porge qualcosa, lei strabuzza gli occhi. Li separa solo una transenna alta sì e no un metro. Cecilie scarta l’involucro beige, it’s so cool ripete euforica. Il regalo del tifoso è un primo piano di lei fatto a mano. Il ragazzo porterà il disegno al pullman della squadra: a breve inizia la tappa e una cornice 50×30 non dev’essere molto aerodinamica.

 

L’atleta più divertente di cui non avete mai sentito parlare.

 

Di fughe, volate e Olimpiadi

Tante squadre arrivano alla partenza all’ultimo momento, approfittando dei tempi morti per fare quante più foto possibili col lago di sfondo. La Ceratizit, per esempio, indispettisce una signora che sembra non si sia mai mossa da quella panchina vista lago. Per qualche secondo le è stata danneggiata la vista del lago ed è una cosa che non si deve fare a Colico.

 

Delle 144 atlete al via, se ne sono già ritirate una ventina. Completando la quarta tappa, la cronoscalata alle Cascate del Toce, ai 27 km/h di media, Anna van der Breggen ne ha mandate ben dodici fuori tempo massimo, tra cui quattro su sei della Bizkaia-Durango. Chi tiene molto alla tappa di oggi è Alice Gasparini, comasca di Bizzarone, i cui tifosi hanno portato striscioni e cartelli al via. Uno di loro si assicura che Gasparini sia a posto, che non le serva un po’ d’acqua né un gel né niente.

 

L’Anita – se al Giro uomini hanno il Garibaldi, al Giro donne la guida di oltre duecento pagine si chiama come la rivoluzionaria brasiliana – stima nei 38 km/h la velocità più alta che le atlete riusciranno a tenere nei 155 km di tappa. Rispetto alla più ottimistica previsione, arrivano sul traguardo con quaranta minuti d’anticipo.

 

Il giro del lago di Como, fatto in senso opposto rispetto al Giro U23 l’anno scorso, non presenta asperità e di vento non ne tira. La Jumbo-Visma ha l’accortezza di mettere sul manubrio una lucina, come quelle usate dagli ultra-ciclisti per vedere di notte, per illuminare le tante gallerie. Una volata a gruppo compatto è l’esito scritto, ma il tentativo di due fuoriclasse incolla tutti a radiocorsa: una è Elisa Longo Borghini, che è già uscita di classifica ma ha di recente vinto i campionati italiani sia in linea che a crono; l’altra è Ashleigh Moolman-Pasio, seconda in classifica generale.

 

 

Moolman-Pasio e Longo Borghini all’attacco. Arrivano ad avere quasi tre minuti sul gruppo, ma vengono riprese quando mancano una quindicina di chilometri. Moolman-Pasio si complimenta allora con la compagna di fuga, le dà una pacca sulla spalla, Longo Borghini sorride e ricambia. È stato bello provarci insieme, si dicono. (Credits: Eloise Mavian per tornanti_cc).

 

Ai -3 provano a evadere dal gruppo due australiane, Sarah Roy e Tiffany Cromwell, ma anche il loro tentativo si spegne presto. Sul traguardo di Carugate, il giorno prima, il treno del Team DSM si è rivelato fortissimo: Coryn Rivera ha lanciato Lorena Wiebes fino a 150 metri dal traguardo e per l’olandese classe ‘99 è stata una passeggiata fino al traguardo. Oggi è Wiebes a lavorare per Rivera. Marianne Vos sceglie la traiettoria esterna, vicino alle transenne; Marta Bastianelli non riesce a sbucare in tempo, la velocità di punta di Rivera non è altissima: la progressione brutale di Emma Norsgaard rivela al mondo delle ruote veloci un’altra ventiduenne fenomenale.

 

Oltre alla prima vittoria di sempre di una danese al Giro donne, fa notizia un’esclusione: il CT Dino Salvoldi a Tokyo non porterà Tatiana Guderzo, bensì la sua compagna di squadra Marta Bastianelli. Campionessa del mondo a Mendrisio ‘09, Guderzo dice ad Alessandro Brambilla di Tuttosport che delle quattro che andranno alle Olimpiadi (Longo Borghini, Cavalli, Paladin, Bastianelli) «almeno due vanno meno di me in questo periodo».

 

Sarebbe stata la quinta Olimpiade per Guderzo. Quando le chiedo, qualche tappa dopo, se le dà un minimo di sollievo il fatto che sia stata chiamata una sua compagna di squadra al posto suo, risponde con un secco: «No. Volevo andarci io». Mancano solo tre anni ai prossimi giochi olimpici. «Sei fuori di testa?» scherza Guderzo. A 34 anni, pensa che la sua carriera sia finita. È, sì, un po’ dispiaciuta («speravo di concludere con l’Olimpiade, così non è stato; vedremo cosa fare») ma tutto sommato va bene così.

 

Altra tappa, altro lago, stesso mostro

Alla “Trattoria alle trote” di Soprazzocco di Gavardo non c’è ancora nessuno. Sono le 9:15 e l’arrivo dei primi mezzi delle squadra avverrà circa un’ora dopo. La tappa di oggi, la settima di un Giro che si chiama “donne” da quest’anno, parte da qui: la trattoria ha un bel giardino sul retro, ma non gode esattamente dell’andirivieni davanti a Cracco in galleria Vittorio Emanuele.

 

Il parcheggio della trattoria è ampio per le esigenze di una trattoria di paese, ma decisamente troppo piccolo per tutti i mezzi delle 24 squadre. Tanti sono costretti a fermarsi sulla provinciale, allungando enormemente lo spazio da percorrere per chiunque volesse rimbalzare da un pullman all’altro.

 

Mezz’ora dopo, una coincidenza fortunata: nei pressi del palco Emily Newsom si attarda nel ritornare verso la partenza. Qualche giorno prima era circolato parecchio un video di lei che suona benissimo il pianoforte; mentre nella zona partenza sparano a tutto volume musica techno, Newsom mi dice che il suo compositore preferito è Sergei Prokofiev, che la sua compagna di squadra Lauren Stephens le ricorda Bach («pensa molto e cura tutto ciò che fa»), che il punto di contatto tra ciclismo e pianoforte sta nell’impegno da dedicare a queste attività ogni giorno.

 

Sul tetto di una casa lì vicino, alcuni ragazzi guardano la partenza da posizione privilegiata. Uscita dal parcheggio della trattoria, la corsa si snoda sulle strade – più o meno – della Coppa San Geo, la corsa in linea che ogni febbraio apre la stagione di Elite e U23. Dopo Polpenazze e San Felice del Benaco (al Giro donne i toponimi sono incredibili), le cicliste entrano in un circuito di una quindicina di chilometri, che ha nella salita di Puegnago del Garda (4% per 2 km) un GPM da ripetere sei volte, di cui l’ultima per la volata finale.

 

Non appena il gruppo prende il via, la carovana a seguito della corsa si muove verso l’arrivo. Mi inserisco tra i pullman di Trek Segafredo e Jumbo-Visma, ma un problema logistico frena tutti: l’autista della SD Worx (che è anche il massaggiatore di Demi Vollering in questo passaggio di The RunUp) scende sgommando via su un monopattino elettrico, piantando il bus in mezzo alla strada. Un cronista locale consiglia di parcheggiare pure lì, davanti a quel cancello, che tanto non esce mai nessuno.

 

Una cinquantina di metri prima del GPM è dove la maggior parte delle persone – fotografi, tifosi, staff – decide di assieparsi per guardare la corsa. Le chiome degli alberi sono state appena tagliate, mi piace pensare appositamente, cosicché da sopra si possano vedere le atlete risalire i tornanti. La fuga più significativa di oggi è quella di Lucinda Brand, che fa incetta di punti nella classifica di miglior scalatrice. Sull’asfalto qualcuno ha scritto «ci manchi» a Chiara Consonni, un’altra vittima della cronoscalata di van der Breggen.

 

L’asfalto moltiplica il caldo percepito e il rapido susseguirsi di salite e discese rende la corsa nervosa. La campionessa di Lettonia in carica, Lina Svarinska, perde contatto subito e alla fine viene quasi doppiata. Ai -2 si attacca per l’ultima volta l’ascesa a Puegnago e la situazione tattica è ottima per Marianne Vos: la tre volte campionessa del mondo ha vinto a Ovada, terza frazione, la sua ventinovesima tappa in dieci edizioni. Tutte la temono: troppo resistente per staccarla, troppo veloce per batterla allo sprint.

 


Quando Longo Borghini va in prima persona a chiudere un attacco di Tiffany Cromwell, Vos salta sulla sua ruota con facilità, per poi accendere i razzi negli ultimi trecento metri. Mark Cavendish scrive che la trentesima vittoria di Vos al Giro «DEVE essere una notizia grossa». Fanno duecentotrentacinque vittorie in carriera (su strada, poi ci sarebbero anche pista e ciclocross, discipline in cui è stata in tutto nove volte campionessa del mondo).

 

Fuarce Furlanis!

L’ottava tappa, da San Vendemiano a Mortegliano, è l’ultima in cui si può tirare il fiato. 130 km dal Veneto al Friuli del tutto pianeggianti, passando sotto Pordenone, sopra Portogruaro, attraverso il Tagliamento. Alla partenza mi costringo a parlare con quante più atlete possibili, oggi che l’altimetria permette una relativa tranquillità. Vado all’autobus della FDJ e chiedo di Cecilie Ludwig: è già in aeroporto, per riprendersi al meglio dopo la caduta sul ciottolato del primo chilometro della prima tappa, in vista delle Olimpiadi. Busso quindi alla porta della TIBCO, perché mi piacerebbe incontrare Kristen Faulkner, cresciuta tra i pescatori di Homer, Alaska. Dopo l’arrivo di Colico ha fatto un tuffo nel lago di Como e si divide tra ciclismo e venture capitalism nella Silicon Valley. Niente da fare, neanche lei partirà da San Vendemiano oggi.

 

Nei pressi della partenza, un ragazzo con un cappellino dei Cleveland Cavaliers e la mascherina del fan club di Soraya Paladin sembra spaesato. Non ha mai visto una corsa di biciclette in vita sua ed è qui con Moreno, il mental coach di Paladin. Dopo qualche minuto, si fa spazio accanto a noi il signor Mauro di San Vendemiano. Appoggia alle transenne una bici personalizzata coi colori della Roma, tutta gialla e rossa.

 

Ha un fortissimo accento veneto e una gran voglia di raccontare perché sul telaio c’è uno stemma della lupa sbiadito: «Quando, nel 1980, paulorobertofalcao è andato alla Roma, innamorato com’ero dei brasiliani… beh, ho iniziato a tifare Roma». E non ha ancora smesso: Mourinho non gli piace come persona, ma se «non fa tanta baraonda e vince qualcosa» potrebbe andargli bene. La conversazione rapidamente passa dalla situazione portieri della Roma alla sbilanciata concorrenza tra le bici Moro e Pinarello. La prima è una piccolissima casa produttrice, veneta come Pinarello, che invece è diventato un brand mondiale. Il signor Mauro non venderebbe la sua Moro personalizzata AS Roma per nulla al mondo, ma di recente è entrato in un punto vendita Pinarello per sentire cosa gli offrivano per quella bici: «Neanche cinquanta euro», la risposta.

 

Soraya Paladin, dicevamo. Il giorno prima incontro i genitori, Carmen e Lucio, mentre cercano di tenere a bada il cane Blue nel trambusto del traguardo di Puegnago e Lucio ricorda da dove arriva il nome Soraya: «Un giorno incontrai una ragazza che si chiamava così. Ci stringemmo la mano, lei mi disse qualcosa tipo “piacere, Soraya” e da lì mi sono innamorato di quel nome. Significa, se non ricordo male, il sole che sorge: è perfetto perché Soraya è sempre allegra».

 

È anche molto timida coi giornalisti, mi aveva avvisato il suo mental coach, ma quando le chiedo dei suoi tatuaggi diventa espansiva: «Il primo lo feci in viaggio di maturità, a Malta. È una libellula sulla caviglia. Poi ne ho fatti altri. Mi piace vederli sulle persone, conoscere le storie dietro ogni tatuaggio». Sull’avambraccio ha scritto, in inglese, “quando la strada sale, non ti puoi nascondere”, l’unico riferito al ciclismo: «È una frase che rappresenta sia il ciclismo che la vita in generale, perché quando ci sono dei problemi li devi affrontare».

 

Arrivando a Mortegliano, si notano chilometri e chilometri di strade addobbate a festa, con palloncini, striscioni, bici dipinte, lenzuola fuori dalla finestra. Tutto rosa. Per la prima volta, mi sembra un’accoglienza del tutto simile a quella che spesso viene riservata al Giro maschile. Una delle prime cose che si scorgono è il campanile, il più alto d’Italia, ma non posso perdermi in dettagli perché appena incontro Stefano Rizzato, telecronista Rai, sul traguardo, questi mi dice che gli hanno consigliato un museo del ciclismo che dobbiamo assolutamente visitare.

 

Un po’ di polvere, palloncini rosa sul pavimento, bici appese al soffitto e attrezzi ovunque: Renato Bulfon, collezionista locale, ci porta nel suo retrobottega. Le prime due cose che mostra sono la maglia rosa di Alessandro De Marchi, conquistata dal friulano all’ultimo Giro, e uno stendardo di una corsa del 1898. La maglia di Elena Cecchini, friulana presente al Giro donne con la SD Worx, è appesa a fianco di quella del suo fidanzato, Elia Viviani. E questo è solo l’antipasto che si trova sulle scale, sul pianerottolo.

 

«Questa maglia ha sfilato alle Olimpiadi di Melbourne nel ‘56» continua Bulfon, una volta entrato nella piccola stanza dove ha sistemato i cimeli più significativi, indicandoli uno per uno come se fossero figli suoi. «Appartenne a Virginio Pizzali, morteglianese».

 

Un paio di Bianchi degli anni trenta, la maglia di leader del Giro di Germania del 1951 di Guido De Santi («un pezzo di quelli giusti»), tutto ammassato e bellissimo.

 

Fa appena in tempo a regalarci una copia di “Ciclismo passione mia”, un librone in cui ha raccolto buona parte di ciò che conserva nel museo, che si sentono le prime moto passare. Sta arrivando la corsa. Bulfon è emozionato: l’ultima corsa passata da Mortegliano fu «il Giro uomini il 5 giugno 1971». La volata è vinta nuovamente da Lorena Wiebes, che centra il decimo successo stagionale. La strada per arrivare alle trenta vittorie al Giro donne del suo idolo Marianne Vos è lunga, ammette Wiebes nel post-tappa, ma l’obiettivo è quello.

 

Sotto il palco, tantissime persone aspettano le premiazioni. Si distinguono membri del fan club di Elena Cecchini in maglia arancione, bandiere del Friuli, striscioni con scritto “Fuarce Furlanis”, forza friulane in dialetto. Anche dopo l’arrivo della corsa, molte persone continuano a condividere il pomeriggio. C’è chi griglia sotto i portici a fianco della strada, qualunque negozio è aperto apposta, una bambina si allontana dai genitori per soffiare in santa pace una trombetta rosa.

 

Sul Matajur è successo di tutto

La signora Maria non ha ben chiaro cosa stia succedendo. Si aggira guardinga nei pressi della partenza, puntando il bar in cui fa colazione ogni mattina, ma il tragitto è complicato dalle transenne. Le scarica da un camion un lavoratore enorme, tatuato e coi capelli raccolti all’indietro. Le impugna come fossero grissini. Maria gli chiede informazioni e in un attimo i due iniziano a parlare.

 

La donna vive a Pagnacco, in provincia di Udine, da anni ormai. I suoi figli lavorano qui e lei, pur di stare vicino a loro, ha lasciato Siracusa. Non ha mai sentito parlare del Giro donne, ma da giovane in bicicletta ci andava eccome. Mentre ascolta le risposte della signora, l’addetto alle transenne continua a dislocarne a un ritmo notevole. Le dice che sono già stati percorsi un migliaio di chilometri e la tappa di oggi, la nona, è la più importante: dopo un inizio tutt’altro che pianeggiante, l’arrivo sarà in cima al monte Matajur, a pochi metri dal confine con la Slovenia. La signora Maria strabuzza gli occhi ed esclama: «Beh, ma allora sono proprio forti queste donne». 

 

La tappa regina è forse la più dura della storia recente del Giro donne. È lunga, ha un finale terribile e presenta una salita vera (5.6 km al 7.2% fino al comune di Stregna) a 40 km dall’arrivo. Uno dei profili più interessanti per questa tappa è quello di Gaia Realini, ventenne pescarese appena fuori dalla Top 10. Nessuno aveva considerato questa ragazza della Isolmant, alta sì e no un metro e cinquanta: fa soprattutto ciclocross, è il primo anno che si concentra sulla strada e le sue salite preferite sono Lettomanoppello e Passo Lanciano, vicino casa.

 

Nella seconda tappa, sul finale di Prato Nevoso, Realini è arrivata sesta, battendo la campionessa spagnola Mavi Garcia e cicliste più esperte come Lizzie Deignan e Amanda Spratt: «Essendo la mia prima partecipazione al Giro, ho sentito un po’ l’ansia delle prime tappe, la tensione. Dopo il traguardo di Prato Nevoso tutti pensavano che fossi stremata per la salita, invece no, dovevo solo correre in bagno».

 

Non c’è molto tempo per le interviste pre-tappa, oggi: lo spazio all’arrivo non è infinito e, se i parcheggi in cima finiscono, bisogna fermarsi da qualche parte più in basso e farsela a piedi. Superati gli agglomerati di case di Masseris e Losaz, si arriva al rifugio Pelizzo, dove finiscono tappa e asfalto. Tante macchine sono parcheggiate sull’erba a bordostrada, nel chilometro finale; il camper dei genitori di Anna van der Breggen è arrivato un po’ più su, conquistando una piazzola asfaltata molto ambita.

 

Mentre chiacchiero con una coppia di tifosi locali, ex giocatori di baseball, che mi spiegano la differenza tra Friuli e Venezia-Giulia, tra ribolla e refosco, a pochi metri di distanza si sente un ciclista boccheggiare. Ha la tuta della Finlandia e fa una fatica bestiale a completare ogni pedalata. Arrivato in cima, apre una Heineken e accontenta qualcuno che gli chiede una foto: è Valtteri Bottas, che ha seguito la sua compagna Tiffany Cromwell fin quassù.

 

Scendo un po’. Un gruppo di ragazzi sta tirando fuori dal baule della macchina qualche birra e uno striscione per Sofia Bertizzolo. Si tratta di suo fratello Achille e dei suoi amici, tra cui Matteo, che racconta di quella volta che diede un panino con la nutella a Daniel Oss nella cronoscalata del Monte Grappa. Achille si rivela in seguito essere uno dei due che con la motosega incitarono Bernal e colleghi sul Passo Giau, quest’anno. Hanno la motosega anche oggi, ma è senza catena e serve solo per fare un gran baccano. «Ho visto tanti commenti tipo “sei pazzo, è pericoloso”, ma non è così: sono un ex corridore, so che devo stare a metri di distanza. Non faccio male a nessuno, alle gare di downhill le motoseghe sono dappertutto». Achille prepara una tanica di benzina per rabboccare il serbatoio della motosega: «Cosa pensi, che siamo disorganizzati?».

 

Scendo ancora, avventurandomi oltre la flamme rouge. L’obiettivo era raggiungere il fan club di Elena Cecchini, ma un gruppo di signori mi offre del vino avanzato e sono obbligato a fermarmi. Sono Sergio, Piero, Stefano, Gino e Ferruccio. In passato hanno «aiutato il Giro donne a partire da San Fior, Gaiarine, queste zone. Ci si prende una giornata per stare insieme, è tutta passione». Hanno allestito una tenda da campeggio gigante, sul tavolo c’è una tazza degli alpini, una fetta di torta di mele e una gran varietà di coltelli e piatti vuoti.

 

Raccontano della tappa 17 del Giro 1977, quando Mario Beccia e Claudio Bortolotto presero un braccio ciascuno di Francesco Moser e lo spinsero fino al traguardo del Col Druscié; dei quattro fratelli Moser, tutti almeno un giorno in maglia rosa; della Tre Valli Varesine del ‘58, che poteva essere la vittoria della carriera di Aldo Moser ma in volata si fece battere pure da tale Carlo Nicolo; di quando passarono un fiaschetto di grappa a Charly Gaul.

 

Passano le prime macchine dell’organizzazione di corsa. Ashleigh Moolman-Pasio (Pasio è il cognome del marito: questa cosa che a un certo punto della carriera alcune atlete cambiano cognome genera stupore anche in altri sport) è in testa da sola, dopo aver salutato la compagnia di Longo Borghini. Sull’orlo delle maniche, Moolman-Pasio ha la bandiera sudafricana: è stata campionessa del Sudafrica già sei volte. È sostanzialmente l’unica ciclista africana del World Tour, è al decimo Giro ma non ha ancora vinto una tappa. Il signor Sergio queste cose le sa già e aggiunge che – in dialetto stretto, dovrà ripetermelo un paio di volte – non vorrà certo morire il giorno in cui un ciclista nero vincerà il Giro d’Italia. «Sai che roba? Sarebbe storico, il simbolo di un mondo che cambia».

 

La differenza tra come salgono le più forti e le ultime è abissale. La SD Worx fa di nuovo tripletta, stavolta in ordine inverso rispetto a Prato Nevoso: vince Moolman-Pasio, seconda Demi Vollering, terza la maglia rosa di van der Breggen. Di nuovo quarta Marta Cavalli, il cui volto, ogni chilometro di salita, viene sempre più deformato dalla fatica. Marta Bastianelli arriverà con un quarto d’ora di ritardo e, scherzando con chi le grida di scattare, dice che «piano piano s’è fatta pure Roma».

 

Arrivate al traguardo, le atlete devono scendere dalla stessa strada per la quale stanno salendo le colleghe ritardatarie. È una prassi comune a tutti i livelli: è successo nella tappa di Luz Ardiden in questo Tour de France, per dire. Sofia Bertizzolo è ferma a bordo strada quando transita Soraya Paladin. Si lanciano acqua a vicenda, ridono e scherzano. Soraya non può fermarsi: le mancano circa 500 metri al traguardo.

 

Sofia Bertizzolo ha riconosciuto suo fratello Achille e interrompe la discesa dal Matajur per fare una foto con la motosega.

 

Arriva nei paraggi una ciclista della Bepink, stravolta, che con autoironia rivela di aver vomitato due volte lungo la salita finale. Alexis Ryan, arrivata a oltre mezz’ora dalla vincitrice, mentre sta ancora recuperando fiato si apre una birra. Dopo il Matajur vale più o meno tutto.

 

Di fughe, muri e lacrime

Poco prima di lasciare la loro base, le atlete della Movistar si mettono una retina piena di ghiaccio sulla schiena. Hanno tutte il brividino che si prova quando improvvisamente una parte del corpo diventa molto più fredda di tutto il resto, poi si abituano e la tuta molto aderente trattiene lì cubetti destinati a sciogliersi molto presto. «That’s so gross» commenta Leah Thomas, che ha appena risposto con un «scusa non posso rispondere, devo andare» alla mia domanda sull’esperienza da insegnante in una riserva Navajo, in California.

 

Il livello di stanchezza generale, prima dell’ultima tappa, è raffigurato da quattro addetti alle transenne che, dopo averle disposte alla partenza da Capriva del Friuli, tornano a dormire a petto nudo nel cassone del camion. I piedi fuoriescono dalla porta laterale. Dev’esserci un caldo inverosimile, là dentro, ma tutti dormono di sasso. In sala stampa si apre il tendone per far circolare quanta più aria possibile e le staffette verso l’area ristoro sono più frequenti con l’avvicinarsi al mezzogiorno.

 

C’è un’ultima atleta con cui scambiare due chiacchiere: è Heidi Franz, 26enne della Rally Cycling, che la sera prima su Twitter ha scritto: «Venire presa in giro e bullizzata nel gruppetto è stata una delle peggiori esperienze della mia carriera in una corsa ciclistica». Per quanto ci siano, in gruppo, tante amiche, o ex compagne di squadra che hanno condiviso bei momenti, esistono anche cicliste stronze che ti vedono solo come un’avversaria da battere.

 

Prima di chiederle cosa intendesse di preciso, parliamo d’altro. Franz è di Seattle, dell’Italia adora tante cose ma soprattutto il tiramisù, le piacerebbe «avere un ruolo nel successo di altre» per tutta la carriera e mi racconta dell’assurdo trasferimento neutro della quinta tappa. A Milano, dice Heidi, non sono riusciti a bloccare il traffico, per cui il gruppo ha dovuto farsi spazio tra le auto «come Mosè nel Mar Rosso. Per poco non abbiamo accidentalmente steso un ragazzo che consegnava cibo in bici».

 

Cos’è successo sul Matajur, quindi: «Sono stata in tanti gruppetti prima di ieri, so come funzionano. Non me ne lamento senza motivo, ma ieri una collega mi ha preso di mira. Volevo solo starmene da sola, andando col mio ritmo e prestando attenzione a non finire fuori tempo massimo. Eppure mi continuava a chiedere se avessi informazioni che non avevo, a dirmi cose brutte, insulti gratuiti».

 

L’ultima tappa è tutt’altro che una scampagnata. Sul primo GPM di giornata, San Floriano del Collio, si avvantaggia una fuga di livello spaziale: Elise Chabbey, che in questo Giro ha vestito la maglia verde, si è inserita in tantissimi attacchi da lontano e ha una notevole storia personale; Coryn Rivera, che giorni prima mi aveva detto di aver appreso come si lavora duramente dai genitori, filippini emigrati in California; Anna van der Breggen, la maglia rosa; la miglior scalatrice del Giro, Lucinda Brand, e la sua compagna di squadra ed ex campionessa del mondo Lizzie Deignan.

 

Mancano oltre cento chilometri all’arrivo, ma l’accordo tra le cinque è perfetto. Soprattutto grazie a Lucinda Brand, che fino ai -20 fa il lavoro sporco. Poco dopo, van der Breggen smette di collaborare: in una volata contro Rivera e Deignan è battuta e da dietro la SD Worx sta provando a rientrare per dare una chance a Demi Vollering. Sorprendentemente, la più veloce di tutte fa l’andatura sull’ultimo strappo: Rivera si inerpica verso la frazione di Ruttars percorrendo una stradina agricola larga quanto una macchina, in un passaggio ripreso dall’Adriatica Ionica Race del 2019.

 

Il gruppo rosicchia parecchi secondi, ma non riesce a riprenderle. Brand si stacca dopo un lavoro immenso, Chabbey in volata è ferma, van der Breggen sta vincendo il Giro in carrozza e alla tappa non pensa nemmeno: rimangono Rivera e Deignan. È quest’ultima a lanciare per prima una volata lunghissima, costringendo Rivera alla rimonta. Caracollando vistosamente col corpo da una parte all’altra della sella, l’americana la spunta per mezza ruota. Alza un dito al cielo per dedicare la vittoria al padre recentemente scomparso.

 

Duecento metri circa dopo il traguardo, la strada piega improvvisamente verso sinistra. All’interno di quella curva a gomito, c’è il tendone della sala stampa. Rivera è stremata e sopraffatta dalle emozioni. Appena scende dalla bici, il massaggiatore del Team DSM, Maurizio Lasorella, la aiuta ad appoggiarsi alle transenne. Rivera ha la testa tra le mani e gli occhi nascosti dietro occhiali scuri, ma non è difficile capire che sta piangendo. Abbraccia Juliette Labous, che le dice qualcosa tipo: «You did it! You did it!». Un’altra compagna di squadra le urla che è la fuckin’ best. In tanti osservano la scena in silenzio. Davanti al significato di quelle emozioni, sembra muta anche la canzone di Baby K trasmessa dagli altoparlanti.

 

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Michele Pelacci nasce a Parma nell’anno della doppietta Giro-Tour di Pantani. Scrive di ciclismo per Alvento e traccia percorsi per Komoot. Ritiene la Milano-Sanremo una corsa perfetta.