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Tommaso Clerici
Si va sempre avanti e tutto passa, intervista a Giorgio Petrosyan
20 apr 2022
20 apr 2022
Abbiamo parlato con il leggendario kickboxer.
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Tommaso Clerici
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Il “Team Petrosyan” è una palestra che si trova a Milano sud, in una zona dove è ancora evidente quanto un tempo la campagna lambisse la città. Ci vado un lunedì di inizio aprile per parlare con Giorgio Petrosyan, come dice il nome dopotutto. All’entrata, sulla sinistra, c’è una vetrina illuminata, dentro le cinture da campione vinte in carriera, tra cui alcuni dei titoli mondiali della kickboxing. Appena oltre la parete è tappezzata da locandine degli eventi che hanno visto Petrosyan protagonista; sulle sedie i volantini dell’evento in cui combatterà sabato 30 aprile, il

, organizzato da anni a Milano dall’inseparabile fratello Armen, anche lui kickboxer di alto livello.

 



Petrosyan è seduto alla reception, intento a rispondere ad alcuni messaggi, quando mi presento mi saluta con un sorriso e mi fa accomodare a un tavolo. Prende una mela e si scusa in anticipo perché la mangerà durante l’intervista, poi mi offre un bicchiere d’acqua e si siede. «Sono in pieno training camp, mi alleno due volte al giorno per tre, quattro ore totali, dal lunedì al sabato», mi dice quasi scusandosi, «al mattino lavoro con il mio preparatore atletico, faccio pesi e circuiti per la forza e il condizionamento. Il pomeriggio metto i guantoni e mi dedico alla kickboxing, soprattutto alla tecnica. Poi c’è lo sparring, anche duro, che però bisogna dosare altrimenti aumentano le probabilità di infortuni. Per scendere a 70 chili (il peso a cui Giorgio combatterà il 30 aprile) faccio due mesi di dieta. Mangio riso, pollo e insalata a pranzo e a cena, e quando il match si avvicina elimino anche i carboidrati. La preparazione per un incontro è pesante, una volta salito sul ring la sera del combattimento so che la parte più difficile è andata».

 

Dalle interviste Petrosyan non sembra un tipo espansivo, dopotutto la sua aura da leggenda vivente della kickboxing può mettere in soggezione. Mentre mi parla, però, capisco che è più un modo di fare: Petrosyan non parla molto, ma non è reticenza o diffidenza, piuttosto pragmatismo da persona abituata più ai fatti che alle parole, un’indole forse dovuta al suo passato. I Petrosyan sono armeni, oggi con cittadinanza italiana grazie ai loro successi sul ring, e da ragazzini sono fuggiti dalla guerra tra Armenia e Azerbaigian insieme al padre, rifugiandosi in Italia, dove prima di affermarsi hanno vissuto in povertà (

trovate un profilo su di lui in cui è raccontata la sua storia, ma c’è anche l’autobiografia

).

 

Dopo anni di vittorie, “The Doctor” (il soprannome, deriva dalla precisione chirurgica dei colpi sferrati) ha subito un devastante KO nel suo ultimo match, valido per la cintura di

, importante promotion asiatica, contro il tailandese Superbon, dovuto a un high kick che gli ha frantumato la mascella, lasciandolo esanime al suolo. Una scena resa ancora più drammatica dallo status di Petrosyan, fino a quel momento considerato un’infallibile macchina da vittorie. «Ho ricordi molto vaghi dell’incontro», mi dice, «giusto la mia entrata sul ring. Del match invece praticamente nulla. Mi sono risvegliato in ambulanza, è stato Armen a raccontarmi cos’era successo. Io ero in stato confusionale, eppure gli ho detto, quando ancora mi stavano soccorrendo dentro all’arena: “Voglio la rivincita”. Dopo ho rivisto il match e ho notato i miei errori tecnici, ci sta, gli incontri possono andare male, sapevo che sarebbe potuto succedere, perdere fa parte del gioco. Nei giorni successivi mi hanno operato a Singapore, dato che l’evento si era svolto lì, e poi sono tornato a Milano. I medici italiani sono più preparati, perciò sono finito di nuovo sotto i ferri per riassestare la mandibola, che era ancora storta. La convalescenza non è stata facile. Il dolore? C’è stato, ma non mi spaventa. Ormai ci convivo, è mio amico, sono abituato a sopportarlo. Se una mattina dovessi svegliarmi senza neanche un leggero fastidio muscolare mi preoccuperei, perché significherebbe che non mi sto allenando al massimo. Il giorno successivo a un incontro spesso ci si sveglia doloranti e acciaccati, ma le persone non sanno che durante la preparazione è la stessa cosa se non peggio, a volte. È così, si va sempre avanti e tutto passa».

 


La foto con cui Giorgio ha rassicurato i fan dopo ore di apprensione, appena finita la prima operazione alla mandibola (via Instagram / @giorgiopetrosyan).


 

Gli chiedo dell’impatto piscologico di una battuta d’arresto così brutale, dato che in altre interviste ha raccontato di quanto lo avesse scosso il knockout accusato nel 2013 nel match contro Andy Ristie (l’unico precedente), che lo aveva fatto precipitare in una profonda depressione. «Dopo quel KO ho attraversato un periodo duro, non sapevo come reagire» risponde. «Adesso è diverso, ho più esperienza nonostante una sconfitta sia sempre difficile da mandare giù. Ma sono tranquillo perché sto già pensando alla rivincita. Il fatto che Superbon sia il campione in carica mi motiva ancora di più, per una volta non sarò io nella posizione di dover dimostrare qualcosa, avrò meno pressione addosso e preferisco così, anche se può sembrare strano». Perdere in modo schiacciante, se assimilato nel modo giusto da un atleta, può trasformarsi in una risorsa, in una grande opportunità di crescita: «Ho imparato che vincendo per anni si creano degli automatismi per cui si rischia di sottovalutare alcuni dettagli e particolari che invece sono importanti. Non succederà mai più, anche perché prima o poi le disattenzioni, anche piccole, si pagano care». Giorgio ha 36 anni, e sul suo futuro è sicuro: «Continuerò a combattere finché mi divertirà salire sul ring, ho questo sport nel sangue, lo pratico sin da quando ero bambino. Appena mi accorgerò che qualcosa sta cambiando, se diminuirà la voglia di mettermi in gioco, allora non avrò nessun problema o ripensamento a ritirarmi. Ma adesso, nonostante tutte le mie vittorie, riesco ancora a trovare nuove motivazioni per le prossime sfide, ed è la molla fondamentale che spinge un atleta a misurarsi con sé stesso e con un avversario».

 

https://www.youtube.com/watch?v=q8d4PnCQSRI

 

Sul match che lo attende a

contro il turco Fatih Aydin, “The Doctor” afferma: «Sinceramente non ho visto molto del mio avversario, sono concentrato su di me. È bravo con le braccia, ha dei ganci molto potenti. So che chi mi affronta dà sempre il centodieci percento delle sue forze, perché una vittoria contro di me vale moltissimo. Mi sto allenando bene, mi sento in forma. Più che altro voglio capire quale sarà la mia reazione al ritorno sul ring, e valutare la ripresa della mandibola». Finita la nostra chiacchierata, Giorgio ci tiene a mostrarmi la palestra, che è enorme e ha un’area adibita al crossfit, una in cui spicca una gabbia da MMA e infine un’ultima dove troneggia il ring. In fondo c’è anche una parte di shop con gli articoli (t-shirt, guantoni, eccetera) e il merchandising dei Petrosyan in vendita. Davanti all’ottagono scambiamo due parole sul fatto che in

si combatta di kickboxing dentro la gabbia, e non sul ring. Mi spiega quanto sia tutto completamente diverso, cambiano le traiettorie, gli spostamenti, c’è molto più spazio a disposizione in cui muoversi e soprattutto non si possono usare le corde a proprio vantaggio, come sul quadrato. Anzi, continua, bisogna evitare in ogni modo di finire alle strette, contro le pareti della gabbia, perché a quel punto sei in trappola.

 

Inoltre la promotion asiatica fa indossare ai suoi atleti dei guanti più leggeri di quelli utilizzati solitamente per la kickboxing, in modo da rendere spettacolari i match (meno un guantone è imbottito, più i colpi sono duri). Una regola che non vale per Petrosyan, perché nel corso della sua carriera ha già subito diversi interventi chirurgici alle mani a causa di fratture, e vuole tutelarsi per evitare nuovi infortuni. «Mi aspetto di tornare in azione in One verso fine anno, per novembre 2022. A breve uscirà anche un docufilm sulla mia storia, lo presenteranno al cinema e poi sarà disponibile sulle piattaforme on demand» conclude. Tornando verso l’ingresso mi fermo ad ammirare la vetrina che espone i suoi successi, così gli chiedo quale sia la cintura a cui è più legato. «Quella della prima vittoria al

in Giappone» mi risponde dopo averci pensato un attimo, un torneo che si è aggiudicato per due edizioni consecutive facendo la storia e che nella sua disciplina equivale ai Mondiali di calcio. «In questo sport la testa, la mentalità fa tantissimo. Ben più del cinquanta percento. Io nel 2019 ho vinto il torneo di One con in palio un milione di dollari, ma la mia vita non è cambiata di una virgola, anche perché mi sono sempre battuto per passione, non per soldi. Io e mio fratello siamo così, siamo sempre stati inquadrati. Non ci interessa bere, non ci siamo mai drogati, né siamo mai andati a fare casino in giro, le discoteche non ci piacciono. Sono nato per la vita da atleta, per il sacrificio e la dedizione. Tenendo a mente un solo obiettivo: vincere, ottenere il risultato prefissato. Restando sempre umile».

 


Giorgio in posa davanti alle cinture vinte in carriera (via Instagram / @giorgiopetrosyan).


 

A un certo punto arriva anche Armen, che è un fiume in piena. È presissimo dall’organizzazione dell’evento. Mi dice che è preoccupato per il futuro della kickboxing in Italia, perché quando il fratello si ritirerà è una disciplina che rischia di sparire. Per questo loro, in palestra, stanno crescendo diversi atleti professionisti, con la speranza che almeno uno possa affermarsi nell’Olimpo della kickboxing. Sull’avversario del fratello spiega che è un atleta solido, campione turco, con quattro o cinque sconfitte su una quarantina di match, il giusto sfidante per un match di rientro competitivo, per testare l’effettiva ripresa di “The Doctor”.

 

Intanto si è già fatto tardi e Giorgio mi saluta perché inizia il corso in cui deve insegnare. Mi ha spiegato che lo fa non solo con i professionisti del suo team, ma anche con gli amatori. E ha precisato più volte che insegna pure ai bambini, mi sembra gli piaccia particolarmente farlo. «Spero che il 30 aprile vengano in tanti a vedermi, è un match delicato, sarà fondamentale per me sentire il supporto dei fan. Anche perché ormai combatto poco in Italia, l’ultima volta è stata due anni e mezzo fa. Non vedo l’ora di rivivere l’atmosfera degli incontri: la tensione, la concentrazione, la walkout song che uso in ogni mio ingresso… È una canzone armena tradizionale che ascoltavano i nostri soldati prima di andare in battaglia contro gli azeri, per darsi la carica». Parlo altri due minuti con Armen, saluto e lascio il Team Petrosyan. Camminando verso la macchina penso che comunque andrà il match di sabato, o la rivincita contro Superbon, o qualunque altra prossima sfida, come spesso accade probabilmente realizzeremo davvero la grandezza di Giorgio solo quando avrà appeso i guantoni al chiodo. Perché, si sa, a volte possono anche essere sconfitte, ma le leggende non muoiono mai.

 

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