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Le dichiarazioni di Gattuso sulle Nazionali africane sono più gravi di quello che sembrano
18 nov 2025
Un tema più grande e delicato del numero delle squadre partecipanti.
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9 min
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IMAGO / Gonzales Photo
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Quando l’Italia non si qualifica al Mondiale, o rischia di non qualificarsi, è sempre colpa di qualcun altro. Del declino del Paese, dei troppi stranieri in Serie A, dei troppi immigrati. Oppure è colpa del potere, che è corrotto e toglie diritti a noi poveri Paesi europei svantaggiati, nonostante - lo sanno tutti! - il calcio lo abbiamo inventato noi. Che ingrati.

«Ai miei tempi la migliore seconda andava direttamente al Mondiale: nel 1994 c’erano due africane e adesso otto… non aggiungo altro», ha detto per esempio, Gennaro Gattuso, dopo la vittoria contro la Moldavia del 13 novembre scorso, almeno secondo quanto riportato dalla Gazzetta. Una vittoria che non conta niente in termini di classifica, perché l'Italia era già qualificata, con il secondo posto, ai playoff che a marzo decideranno le ultime quattro squadre europee che prenderanno parte alla fase finale dei Mondiali nordamericani. La sonora sconfitta contro la Norvegia, da un punto di vista della classifica, non ha fatto altro che certificare definitivamente che non saremmo andati ai Mondiali direttamente.

Il punto è che quello che dice Gattuso solleva un punto fallace. È vero: a Germania 2006, dove Gattuso si è laureato campione del mondo, oltre alle prime del girone si qualificavano direttamente le due migliori seconde. Ma l’Italia in quel caso arrivò davanti proprio alla Norvegia in un girone più complesso di quello di quest’anno, in cui c’erano altre squadre di esperienza come Scozia e Slovenia. Gli azzurri persero solo una partita, proprio in casa della Slovenia, e gli scandinavi ne persero due. Non è che forse è l’Italia, rispetto al 2006, ad essere peggiorata, mentre contemporaneamente è salita di livello la Norvegia?

Anche sul Mondiale del 1994 Gattuso ha parzialmente torto. In quell'edizione, infatti, le squadre africane erano tre e non due: Camerun, Marocco e la sorpresa Nigeria. Certo è vero che l’estate prossima saranno nove: il triplo.

La Confederazione africana non è neanche quella che ha guadagnato di più con l’ampliamento del Mondiale da 32 a 48 squadre: dalle cinque presenti in Qatar (numero rimasto invariato da Francia ’98, salvo l’eccezione del 2010 in Sudafrica) passerà a nove nel 2026. Anche l’Asia aumenta, da cinque a otto posti. La CONCACAF del Nord e Centro America passa da tre posti (che diventarono quattro in Qatar con la vittoria del Costa Rica nello spareggio con la Nuova Zelanda) a sei. Va però considerato che nei sei rientrano anche i tre Paesi organizzatori.

Crescono o rimangono invariate le quote di tutte le confederazioni così come il loro peso percentuale: l’unica eccezione è per l'appunto la UEFA. Le Nazionali europee occuperanno un terzo del tabellone, la quota più bassa di sempre. Tutto questo al netto degli spareggi intercontinentali per gli ultimi due posti, dai quali la UEFA è comunque esclusa.

Quindi l’allargamento ha favorito Asia, Africa e Nord e Centro America. Questo è un fatto. Ma è anche un male? Un allargamento che manteneva la stessa suddivisione percentuale delle edizioni a 32 squadre sarebbe stato più equo? Considerando quali parametri?

Ragioniamoci sulla base di due punti. Il primo sono i risultati, se proprio vogliamo applicare un filtro competitivo. L’Asia, in particolare con Corea del Sud e Giappone ma anche con l’Australia, che ha lasciato l’Oceania calcistica nel 2006, ha dimostrato più volte di poter sorprendere le Nazionali europee - per esempio la Germania, l'Italia e la Spagna nelle ultime edizioni dei Mondiali. Dal 2002 in poi le squadre africane hanno raggiunto più di una volta i quarti di finale e nel 2022 il Marocco si è piazzato addirittura al quarto posto. Il Marocco, tra l'altro, ha vinto il Mondiale Under 20 quest’anno, dando un forte segnale per il futuro.

Veniamo al secondo punto, che è poi forse il più importante. Negli Stati Uniti, in Messico e in Canada non ci sarà “troppa” Africa o “troppa” Asia, ma semplicemente una rappresentanza più vicina al loro peso reale - almeno se consideriamo la popolazione totale di questi continenti. Finora Africa e Asia — i due continenti più vasti e popolosi — erano nettamente sottorappresentati. In Qatar ha partecipato poco più del 10% delle federazioni asiatiche e appena il 9% di quelle africane. Con il nuovo formato, almeno il 19,6% delle 46 nazionali asiatiche e il 16,7% delle 54 africane prenderà parte alla fase finale. È un aumento significativo, ma siamo ancora lontani dal 29% della UEFA e, soprattutto, dal 60% della CONMEBOL sudamericana. Questo per dire che, nonostante l’aumento di squadre, resta più difficile qualificarsi in Africa che in Europa.

«Nessun rimpianto. Vincere aiuta a vincere, ma dobbiamo capire bene i criteri: ora tocca a noi, ma vedere il Sud America dove sei squadre su dieci vanno dirette e la settima fa lo spareggio con l’Oceania fa venire rammarichi». Su questo non possiamo dare torto al CT. Il numero di posti disponibili in Sudamerica ha reso la qualificazione per Brasile e Argentina niente più che una formalità. Sono lontanissimi quelle epiche sfide in cui l’albiceleste si salva per il rotto della cuffia grazie a un autogol dell’australiano Tobin nel 1993 o per una tripletta di Messi in casa dell’Ecuador nel 2017.

Lo spostamento del baricentro del mondo calcistico e la fine del duopolio Europa-Sud America sono ancora lontani dall'essere dichiarati morti, insomma. Le favorite sono sempre le stesse.

È vero però che il centro di gravità del mondo del calcio si sta spostando, seguendo un tracciato disegnato ormai cinquant’anni fa dal presidente della FIFA João Havelange. Il brasiliano cominciò la sua campagna elettorale nel 1971 viaggiando per il mondo e raccogliendo il consenso delle federazioni africane, caraibiche e asiatiche: dove il calcio poteva diventare importante ma non lo era ancora. Il suo programma si basava anche su aiuti della FIFA alle federazioni bisognose, raccolti stringendo i primi grandi accordi commerciali, in particolare sulla Coppa del Mondo. Dietro la politica di Havelange non c’erano solo nobili intenti, naturalmente, ma anche obiettivi politici ed economici e molti in seguito sollevarono accuse di corruzione in relazione ai contratti di sponsorizzazione con cui il brasiliano trasformò il Mondiale in un brand.

Fra i più critici di Havelange c’era proprio un italiano, il presidente della UEFA Artemio Franchi, secondo cui il brasiliano aveva «rovinato la Coppa del mondo, svendendola agli afro-asiatici». Il processo di allargamento, però, non si è fermato e si è accompagnato all'istituzionalizzazione della FIFA, che è diventata sempre di più una specie di parlamento calcistico mondiale, con più membri delle Nazioni Unite.

Gli ultimi mandati di Joseph Blatter e Gianni Infantino non hanno fatto altro che seguire il “modello Havelange”. Anche l’attuale presidente, secondo cui «la FIFA non può risolvere i problemi geopolitici, ma può e deve promuovere il calcio nel mondo», ha vinto le sue elezioni allo stesso modo: promettendo aiuti alle federazioni medie e piccole di Africa e Asia, facendo leva sul fatto che tutti alla fine hanno un voto, e contemporaneamente cercando di aumentare le entrate dell'organizzazione, spesso chiudendo un occhio su temi considerati meno importanti, come la democrazia e i diritti umani. L'organizzazione dei Mondiali maschili di calcio in Russia nel 2018, in Qatar nel 2022 e in Arabia Saudita nel 2034 sono solo gli esempi più celebri.

Non voglio andare troppo lontano, ma rispondere a un fallimento in questo modo non solo non risolve i problemi strutturali del calcio italiano ma soprattutto sono gravi alla luce della storia dell'Europa e del nostro Paese in particolare.

Mi spiego meglio. Di sicuro è vero che se prendiamo le migliori 48 Nazionali del ranking FIFA maschile, 25 sono europee (26 se contiamo anche la Russia esclusa dalle competizioni internazionali), ma restaurare il Mondiale ad inviti come nel 1930 non mi sembra una grande idea e alla fine le qualificazioni fanno parte dello spettacolo offerto dal Mondiale: vogliamo precluderci grandi imprese sportive come quella di Capo Verde? Queste storie fanno parte del fascino dei Mondiali, ne hanno sempre fatto parte.

Il fatto che in Italia alla prima occasione utile si cerchi di rivendicare una partecipazione per diritto divino mi sembra invece significativo. Il ragionamento alla base è semplice: dovremmo partecipare al Mondiale perché siamo l’Italia.

È un modo di pensare che mi sembra discenda più o meno direttamente da una postura coloniale, per cui noi - in quanto italiani ed europei - dovremmo avere un qualche diritto di precedenza rispetto al resto del mondo. Non voglio farla troppo lunga ma credo che un ripasso dei passi della storia che ci hanno portato fino a questo punto possa aiutare.

Negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento avvenne il cosiddetto Scramble for Africa, traducibile in italiano con “zuffa per l’Africa” o “corsa all’Africa”. Una serie di guerre e conquiste coloniali da parte dei Paesi europei nel continente africano che forse molti ricordano dai libri di scuola per le vignette satiriche; ce ne sono tantissime, tutte con lo stesso tema ricorrente: le rappresentazioni dei vari Stati che si lanciano su una grande torta per tagliarne una bella fetta. Per decidere le porzioni ed evitare che gli europei finissero per massacrarsi fra loro si organizzò quindi una conferenza a Berlino nel 1884. Seduti a un tavolo iniziarono la spartizione prima del bacino del fiume Congo e poi di tutto il continente africano, che si realizzò negli anni successivi. Il processo di decolonizzazione ha raggiunto il suo culmine quasi un centinaio d’anni dopo, fra gli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta del Novecento, ma i confini degli stati indipendenti che sono nati ricalcano sostanzialmente quelle fette di torta tagliate a cavallo fra Diciannovesimo e Ventesimo secolo.

Oggi in Africa ci sono 54 Paesi riconosciuti, pochi più di quelli presenti in Europa — dai 44 ai 50 a seconda del grado di riconoscimento internazionale — ma in un continente tre volte più grande e con quasi il doppio della popolazione. Un parallelismo che per l'appunto non nasce per caso ma che è frutto di quella fase della storia.

Ovviamente si può discutere sul processo di globalizzazione che ha intrapreso la FIFA, se sia ipocrita o meno a fronte della commercializzazione del calcio che ha comportato, ma non credo che Gattuso volesse arrivare così lontano. Gattuso però rimane il CT della Nazionale - un ruolo cioè che va oltre il calcio - e forse dovrebbe pesare le sue dichiarazioni anche con ciò che il calcio tocca fuori dal campo. In questo caso, fare leva sul vittimismo per la riforma del Mondiale dopo secoli in cui l'Italia - come stato e quindi come Nazionale - ha goduto di una posizione di privilegio (e quindi di un vantaggio competitivo in campo) rispetto al resto del mondo forse non è proprio tra le mosse più responsabili che mi vengano in mente. Soprattutto se si tirano in ballo Nazionali - e quindi stati - la cui conquista e il cui sfruttamento hanno contribuito a questa posizione di privilegio.

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