
Ad astrarsi un attimo, la scena dall’alto è piuttosto strana: cosa ci faccio, alle diciotto di un lunedì pomeriggio qualsiasi d’ottobre, con tre ore di fuso orario di differenza, sintonizzato sul sito della FIFA per seguire Capo Verde - eSwatini senza riuscire a pensare ad altro?
I tiburões azules, "gli squali azzurri", ovvero la Nazionale di Capo Verde, è a un passo dalla qualificazione al Mondiale, che arriverà novantacinque minuti più tardi. Quando nel 2017 la FIFA, all’unanimità, ha portato il numero dei partecipanti per il 2026 da 32 a 48 c’era da immaginare che qualche piccola sarebbe arrivata al massimo palcoscenico, ma forse in pochi si aspettavano che sarebbe stata così piccola. Il fatto che a qualificarsi ci stia riuscendo Capo Verde, così come hanno già fatto l’Uzbekistan e la Giordania, così come potrebbero fare Haiti e il Suriname, e non ci stiamo riuscendo noi: anche questo è strano.
Cosa spero, allora, di preciso? Che ce la facciano, oppure che crollino rovinosamente?
In ogni caso, essere sintonizzato è un buon motivo per perdermi nella trama delle maglie di eSwatini, per abbandonarmi alla litania dei nomi capoverdiani, il testo di un fado, però felice. Per sentirmi immerso, in qualche modo, in quel brodo cosmico di aspettativa fuori dimensione. Mentre aspetto il calcio d’inizio mi scorrono, nella timeline, video di una portata immaginifica elefantiaca: la squadra che passeggia per il mercato, per esempio, alla vigilia della gara, per caricarsi.
Capo Verde, lo scorso Luglio, ha festeggiato il cinquantesimo anniversario della sua indipendenza dal Portogallo. C’è un regalo di compleanno migliore che regalare il sogno del Mondiale ai suoi 500mila abitanti, e ad almeno il doppio di capoverdiani che vivono sparpagliati per il mondo, figli della diaspora?
Quando tra qualche mese scenderanno in campo negli Stati Uniti saranno trascorsi 570 anni precisi dalla scoperta dell’arcipelago. Prima, sulle sue isole, non ci viveva nessuno: erano letteralmente disabitate. C’erano solo squali azzurri, possenti, che ne lambivano le coste. Capo Verde si chiama così perché quando i portoghesi hanno avvistato l’arcipelago, in lontananza, l’hanno scambiato per Cap-Vert, il promontorio senegalese che segna il punto più occidentale dell’Africa continentale. Un posto il cui nome è il risultato di un errore, come l’America, in fondo. Ecco: oggi Capo Verde sta per scoprire, o se volete conquistare l’America.
L’Estádio Nacional di Praia si trova nel bel mezzo del niente, al centro di una vallata depressa e brulla. Sullo sfondo ci sono colline vulcaniche, sembra la navicella di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Sui suoi spalti, quando mi sintonizzo, c’è il 2%dell’intera popolazione nazionale: i biglietti sono andati esauriti in pochi giorni, tra i punti vendita c’era anche una pasticceria del centro. È come se all’Olimpico ci fossero un milione di persone, anche se a Capo Verde la proporzione ci restituisce 15mila anime che sventolano bandiere e ridono. Penso superficialmente al fatto che la capitale si chiami Spiaggia, a quando la domenica allo stadio il pallone per il campionato locale entra in campo a dorso di mulo.
Di fronte ai tiburões azules, ultimo ostacolo prima del Mondiale, c’è il fanalino di coda del girone, eSwatini. È nella partita d’andata, la seconda delle qualificazioni, che è iniziata, in qualche modo, questa cavalcata incredibile. Dopo un esordio scialbo contro l’Angola, Capo Verde ha vinto la sua prima partita a due passi dal Parco Nazionale Kruger, uno dei più pazzeschi d’Africa, così pieno di bufali, leopardi, leoni, rinoceronti ed elefanti che lo stadio di Mbombela è stato ribattezzato Giraffe Stadium, dal momento che i piloni sono fatti a forma di giraffa, la scalinata d’accesso a forma di serpente e le gradinate hanno i colori del manto delle zebre. Lo abbiamo un po’ rimosso, ma è lo stadio in cui, nel Mondiale sudafricano, abbiamo pareggiato 1-1 con la Nuova Zelanda. Bene: è esattamente là che di fronte a 250 spettatori Capo Verde ha vinto per 2-0.
Mentre risuonano gli inni, Praia è sferzata da un vento pazzesco. Pare sia la cifra di Capo Verde: chi ci è stato mi ha raccontato che non c’è un momento in cui si plachi. Dallo schermo sembra uno di quei venti che ti spettinano i pensieri, che ti attorcigliano la lingua, che ti mettono l’esistenza di traverso.
Che Capo Verde dovesse soccombere di fronte alla potenza storica del girone, il Camerun, sembrava un’ovvietà dopo la sfida diretta a Yaoundé. I "leoni indomabili" avevano infatti strapazzato gli squali, un 4-1 senza appello in cui la superiorità fisica e tecnica era apparsa evidente come non mai, o come sempre. Aboubakar, quel giorno, autore di una doppietta, si è preso la libertà di calciare un rigore arrogantissimo, scazzato, di chi sa che sta espletando una formalità. Il Camerun era così in stato di grazia che Onana ha addirittura parato un rigore, sul finale.
Poi, però, a un certo punto, è successo che mentre Capo Verde ha inanellato una serie di vittorie – contro la Libia in casa, con le Mauritius a Praia e pure a Saint Pierre, su un campo in sintetico circondato da rocce, sterpaglie, palme – il Camerun, proprio al Giraffe Stadium, in mezzo a rinoceronti ed elefanti è stato fermato sullo 0-0. Il che significa che alla sfida diretta di Praia si è presentato sì in testa al girone, ma soltanto per un punto.
Immersi in una nebbiolina tropicale, su un campo scivoloso, in un’atmosfera rarefatta, onirica, poi, è successo che Capo Verde, sorprendentemente, ha vinto. Il gol decisivo l’ha segnato Dailon Rocha Livramento, passato per l’Hellas Verona, oggi in Portogallo al Casa Pia, un gol che Emanuele Atturo ha raccontato in questo pezzo dalla prospettiva catastrofica di Onana – colpevole di non uscire incontro all’attaccante, di aspettarlo rassegnato sulla linea di porta, come un Cristo immobile sulla croce – e che se invece lo focalizzassimo la nostra attenzione su Livramento potremmo dirlo inevitabilmente propiziato dal genius loci di Capo Verde, dal vento, dall’entusiasmo.
È grazie a quel gol che è avvenuto il sorpasso. È grazie a quel gol – e nonostante un mezzo scivolone al quale arriviamo tra poco – che oggi Capo Verde si sta giocando un posto nella storia.
eSwatini, c’è da dire, se c’è una cosa che ha dimostrato è che a fare il sacco delle botte, lo sparring partner, non ci sta. In fondo questa congiunzione astrale è anche un po’ merito loro: nella partita che sto seguendo con una fascinazione e un trasporto che non mi sarei mai immaginato resiste arcigno, colpisce un palo, fa volare le mani. Al ventesimo scoppia una mezza rissa: dalla sua area arriva Voizinha, un quasi quarantenne, con l’aria del padre di famiglia un po’ riottoso, che prima placa gli animi e poi intima all’avversario, caduto a terra nello scontro corpo a corpo con un compagno capoverdiano, di non fare il pagliaccio, di non perdere tempo.
Le folate offensive di Capo Verde sono accompagnate da gridolini acuti, come se in tribuna ci siano soltanto tifose. Con il passare dei minuti l’avversario sembra cambiare morfologia, la faccia del portiere Shabalala diventa quella del baluardo insormontabile, del muro di vento, dell’ansia da prestazione, della paura di non farcela. A pochi minuti dal duplice fischio di fine primo tempo Jamiro Monteiro, il dieci di Capo Verde, viene atterrato a due passi dal gol.
Sembra rigore netto, ma nelle qualificazioni africane al Mondiale non c’è il VAR. Quando le squadre vanno a riposo, il punteggio è fermo ancora sullo 0-0. Lo stesso in Angola, dove il Camerun non si è ancora sbloccato. Il sogno passeggia ancora su una lastra sottile.
LA LUNGA STRADA DI CAPOVERD
Se c’è una cosa che i capoverdiani flexano spesso è quella di aver partecipato alla genesi di Eusebio, uno dei più grandi calciatori lusofoni della storia, perché, anche se è nato in Mozambico, e sua madre era angolana, il padre, ecco: il padre era originario di Praia. Un po’ come gli argentini e gli uruguayani si contendono i natali di Gardel, i capoverdiani – con scarsa convinzione, o quantomeno con una concorrenza agguerrita – cercano di arrogarsi la primigenia sentimentale di Eusebio.
Quando non ci riescono ripiegano su Cesária Evoria, lei sì totalmente capoverdiana, la "diva scalza", massima interprete dello stile musicale visceralmente capoverdiano chiamato morna, una melodia in cui su arpeggi di chitarra che rimandano al fado portoghese coagulano la nostalgia lasciva del tropico. Quando il sogno mondiale di Capo Verde è arrivato al punto di quasi concretizzarsi si è inevitabilmente trasformato anche nella storia da raccontare, e dalla Evoria è stata saccheggiata soprattutto una frase, piuttosto calzante, quella in cui dice: «Non credo nei sogni o nel destino, il destino è un masso che cade su di te mentre sogni». A me, però, ha colpito soprattutto un’altra frase, quella che dice: «Da noi esiste un detto: è meglio bere prima il fiele e poi il miele. Io ora bevo miele».
La federcalcio capoverdiana è stata fondata nell’anno in cui Maradona ha alzato al cielo la Coppa del Mondo in Messico. Nei primi quattro anni di vita Capo Verde è sceso in campo soltanto due volte: nel 1990 era al 182esimo posto del ranking mondiale, e in quei bassifondi avrebbe galleggiato a lungo.
Nel 1991 è arrivato in finale di una competizione minore, la Copa Amilcar Cabral, intitolata al generale fautore dell’indipendenza (non solo di Capo Verde ma anche della Guinea-Bissau), una coppa che avrebbe anche vinto nel 2000 battendo in finale il Senegal – sarebbe stato bello se fosse stato quel Senegal che di lì a due anni avrebbe stupito il mondo, invece si trattava di una selezione di giocatori locali del campionato senegalese. Ad alzare quella coppa, nel 2000, con la fascia da capitano, era stato Bubista, che oggi Capo Verde la allena.

La storia calcistica dell’arcipelago, insomma, per anni è stata fatta di fiele. La prima qualificazione alla Coppa d’Africa è arrivata nel 2013, un esordio commovente, in cui gli squali azzurri si sono spinti fino ai quarti di finale. Dopo la vittoria agli ottavi l’allenatore Lucio Antunes, in conferenza stampa, anziché rispondere alle domande ha cantato dei versi di A biografia d’um krioul, una canzone tipica che parla delle difficoltà e del senso di appartenenza. Quel poco di miele che sembrava affiorare ha rischiato di trasformarsi in un’intera arnia solo un anno dopo, quando, dopo essere arrivato sorprendentemente ai playoff per il Mondiale brasiliano, Capo Verde si è visto squalificare per aver schierato un giocatore sospeso.
Eppure, proprio in quegli anni, come se le parole della canzone avessero risvegliato qualcosa di sopito - sono felice di essere nato creolo, sono felice di essere nato creolo - la federazione ha cominciato a cercare di portare in patria i figli della diaspora. Non c’è riuscita con Gelson Fernandes, che ha scelto la Svizzera, né con Nani, né con Henrik Larsson.
C’è riuscita, invece, non senza una certa genialità, con gente tipo Roberto Lopes detto "Pico", per metà irlandese, che se ne stava tranquillo a giocare con lo Shamrock Rovers quando l’allenatore Rui Aguas, l’ex centravanti del Benfica, l’ha contattato nel 2019 con un messaggio su LinkedIn: peccato che "Pico" non parli portoghese, e abbia scambiato il messaggio per uno spam. Solo tempo dopo, quando Rui Aguas gli ha inviato un reminder, a "Pico" è venuto in mente di tradurlo in inglese copiandolo su Google Translate: era la convocazione per la Nazionale, che ha accettato con entusiasmo.
Non saremmo qui a raccontare questa fantastica storia se l’autogol che "Pico" ha messo a segno a Tripoli, nella penultima partita delle qualificazioni, avesse permesso al Camerun il controsorpasso. Con quell’autorete un po’ goffa, nei primi minuti, il sogno è sembrato sul punto di crollare rovinosamente: il miele ha cominciato a farsi un po’ più amaro man mano che la Libia segnava, e segnava ancora. Sul 3-1 per i nordafricani, poi, è successo esattamente quel che diceva la Evoria: nel bel mezzo del sogno è caduto il masso del destino, un masso che è rotolato pigramente tra le mani, e le gambe, del portiere libico.
Quando a Capo Verde prende a soffiare il vento, ammesso che abbia mai smesso: non si ferma mica. Il pareggio a dieci minuti dalla fine a questo punto era inevitabile, e i festeggiamenti sarebbero potuti esplodere anche prima, con una settimana d’anticipo, se al 95’ Capo Verde non si fosse visto annullare un gol per un fuorigioco che mah, forse c’era, forse no, senza VAR non è che si possa fare molto altro che sognare, e aspettare che cada questo masso del destino.
RITORNO AL PRESENTE
Il piatto tipico di Capo Verde si chiama cachupa. Gli amanti delle cucine caraibiche, o di quella delle sierras argentine, non faranno fatica a capire di cosa parliamo: somiglia al locro, o al cocido, è una zuppa di stufato cotto lungamente, mais, fagioli giganti, radici locali come igname e manioca, patate, e poi salsiccia e pesce. Un’accozzaglia, insomma, di ingredienti eterogenei, pregiati e umilissimi, che mi sembra una metafora perfetta per spiegare anche come sia composta la squadra che sta per scendere in campo nel secondo tempo contro eSwatini agli ordini di un Bubista in jeans, sneaker e maglietta rossa, il casual disinvolto di chi si è andato a vedere la partita di calcetto tra amici la domenica pomeriggio.
Oltre a Voizinha, il portiere quarantenne, ci sono un terzino che gioca in Romania e uno in Turchia, un centrale che parla portoghese a malapena perché è cresciuto in Irlanda, "Pico", e uno che gioca negli Emirati Arabi. Un centrocampista che gioca in Russia, al Krasnodar, e uno a Cipro con l’Omonia, che si chiama Willy Semedo; uno in Israele e uno in Olanda, Jamiro Monteiro, il numero dieci. E poi un trequartista che gioca nelle serie minori turche, Ryan Mendes, talentuosissimo, e un centravanti che conosciamo, Dailon Livramento. Sono volti sconosciuti, che tra qualche mese ci diventeranno un po’ più familiari ma che per ora sono ancora sospesi in quel limbo in cui vivono i carneadi, in cui c'erano i volti della Nazionale di basket prima che si qualificassero per la prima volta ai Mondiali nel 2023, o in cui galleggiava David Pina prima di conquistare il bronzo nel torneo di pugilato, pesi mosca, a Parigi, la prima medaglia olimpica nella storia di Capo Verde.
Ma tra i pertugi delle treccine, in filigrana nella trama delle maglie di questi giocatori che non conosciamo, c’è scritto che quei volti sono destinati a scrivere la storia. E la prima lettera della parola fine, o Mondiale, la scrive – chi altri, sennò – proprio Livramento, quando sblocca il risultato a inizio secondo tempo, dopo aver cercato un ambiziosissimo colpo di tacco volante ed essersi accontentato poi di un più pragmatico tocco sottoporta.
Quello che succederà di lì a poco, il secondo gol di Willy Semedo, e poi il terzo di Tavares Stopira, il delirio, le corse senza maglia, gli abbracci con i tifosi che si protendono verso il campo, quella formidabile confusione che è miscelazione di volti e corpi dopo i quali non capisci più chi è il calciatore e chi il content creator, chi è il tifoso e chi sei tu, è la cristallizzazione più abbacinante di cosa significhi, di cosa possa significare, il calcio. Colore e visceralità, teatralità ed estasi, vita dirompente che trasuda.
Al fischio finale, il presidente della repubblica capoverdiana, José Maria Neves, solleva un grosso biglietto che somiglia all’assegno che consegnavano al Signor Bonaventura alla fine di ogni avventura: è un biglietto di ingresso ai Mondiali, il tagliando d’oro di Willy Wonka, il segno tangibile che il sogno, stavolta davvero, è diventato realtà, e che di lì a breve finirà tra le mani di Bubista.
Mentre le pale eoliche osservano silenti sulle colline alle spalle della tribuna popolare, e dall’alto l’allegria ha la forma di un uragano, o di un branco di squali famelici forse capisco cosa ci faccio, sintonizzato su una partita che si svolge a migliaia di chilometri di distanza in un apparentemente scialbo lunedì d’ottobre: sto guardando qualcosa di formidabile senza bisogno di essere eclatante, perché il calcio è sì espressione di potere politico – nelle stesse ore Gianni Infantino arrivava a Sharm-el-Sheik per presenziare al vertice per la tregua a Gaza – ma è soprattutto, per fortuna, ancora quel qualcosa di prezioso che si annida anche nelle cose piccole e allo stesso tempo mastodontiche, come un gol di Livramento, come un soffio di vento che ti spettina i capelli, come Capo Verde che si qualifica ai Mondiali per la prima volta nella storia. Che voi poi direte: eh, hai scoperto l’America. Appunto; appunto.