
Tardo pomeriggio di un mercoledì di fine maggio. La Serie A è finita da qualche giorno e l’Atalanta si è qualificata alla quinta Champions League negli ultimi sette anni. Sto facendo due passi in un comune alle porte di Bergamo, quando nel giardino di una villetta noto un signore che sta attirando la mia attenzione. Dovrà avere un’ottantina di anni, non si vede troppo spesso in giro, le poche volte che lo si vede è lì, fuori da casa, seduto su una sedia o appoggiato a un bastone.
Attraverso la strada deserta e mi avvicino preoccupato. Sento per la prima volta in qualche decina di anni la sua voce: «Scüsem!» (Scusami!). Ha un telefono in mano, l’espressione del volto corrucciata, prende un paio di volte il respiro prima di parlare di nuovo. Penso al peggio, tasto la tasca del pantalone per sentire che ho il telefono a portata di mano, per chiamare i soccorsi. «Ma l’è ìra che ‘l va vià?» (Ma è vero che va via?).
Non c’è bisogno che aggiunga altro. Mi tranquillizzo, perché capisco subito che non sta male, che è un'altra parte della sua vita che sta per finire. Perché a Bergamo e dintorni in questi giorni il soggetto di ogni interrogativo è solo uno: Gian Piero Gasperini. E di conseguenza l’Atalanta, e di conseguenza Bergamo, e di conseguenza l’Atalanta di Gasperini, e di conseguenza la Bergamo di Gasperini, e di conseguenza un senso comune.
439 panchine, 228 vittorie, 865 gol segnati e 3273 giorni dopo, Gasp e la Dea non sono più la coppia più longeva e affidabile del calcio italiano. Ormai, come per tutti quelli che stanno insieme da tanto, la loro relazione sembrava litigiosa quanto affiatata. Eravamo abituati ai litigi tra le parti, ai piccoli scherzi quotidiani, ai tira e molla, ma sembravano far parte della dinamica, uno stimolo per andare avanti insieme forse per sempre. Nove anni nel calcio sono un’eternità, come una quarantina nella vita vera, e ci si chiede quasi imbarazzati perché non ci si sia sforzati almeno di lasciarsi bene. Come una convivenza così lunga ed esaltante avrebbe meritato, almeno.
Sembra il destino dei protagonisti di questo grande ciclo dell’Atalanta: il Papu Gomez svenduto al Siviglia nel gennaio 2021; Freuler, passato a metà agosto 2022 al Nottingham Forest dopo avergli fatto annusare di essere parte del progetto anche nella stagione a venire; Muriel, di cui rimane un video su Instagram di febbraio 2024 in cui dice addio da una camera di albergo; Zapata, titolare nelle prime 2 partite della stagione 2023/24 e poi al Torino il 1° settembre; Malinovskyi, il cui ultimo ricordo sono 9 minuti a La Spezia da braccetto destro prima di andare in prestito al Marsiglia nel mercato di gennaio del 2023; Gosens, infortunato per 3 mesi prima di andare all'Inter; Palomino, fuori rosa per quasi tutto il 2024 senza chissà quali spiegazioni; Hateboer, omaggiato almeno sul campo con l’ingresso a Dublino col Bayer Leverkusen e poi Ilicic, ma qui forse nemmeno il più fisico degli abbracci avrebbe lenito alcun dolore.
Nessuna cerimonia, nessuna celebrazione, nessun discorso al microfono, nessun addio. Otto giocatori tra i primi 70 di sempre per presenze con l’Atalanta per cui l’Atalanta non ha trovato il momento e il modo azzeccato per separarsi. Così come non è accaduto per Gasperini. Gasperini, che è stato l’artefice di tutto questo, il singolo essere umano più importante nello stravolgimento della dimensione del calcio a Bergamo. Sarebbe pretestuoso e scorretto indagare ora chi sia più responsabile, chi non ha fatto abbastanza per convincere e chi non ha fatto a sufficienza per convincersi. Non è interessante sapere i perché, magari è anche fisiologico, ma è necessario invece provare a contestualizzare la decisione nel giusto momento storico, per non distorcere tutta la meraviglia vissuta.

Saranno i prossimi Atalanta-Roma a venire in soccorso. È paradossale sapere che Gasperini tornerà a portata di mano del tifo atalantino in una partita che ha sempre significato più di un qualsiasi big match nelle sue nove stagioni a Bergamo. Il 2-1 in rimonta del 2016, con D’Alessandro e Freuler a ribaltarla dalla panchina, prima vera espressione di brutalità agonistica del gruppo delle assatanate pepite figlie di Zingonia e della loro connessione con l’allora Atleti Azzurri d’Italia («Io, se dovessi giocare a Bergamo, al momento del sorteggio con la monetina non farei mai attaccare l’Atalanta nel secondo tempo sotto la sua curva. Perché loro, quando attaccano sotto la loro curva, diventano devastanti. E non può essere un caso»: così Gianluca Vialli, negli studi di Sky Sport, a pochi minuti dal rigore di Kessié al 90’ sotto la Pisani). Lo 0-1 d’esordio della stagione successiva, i primi 20 minuti e spiccioli di Ilicic in nerazzurro. Il 3-3 da 0-3 del gennaio 2019, l’espressione più animalesca di Zapata nei secondi tra il rigore sbagliato e il pareggio definitivo. L’altro 2-1 in rimonta, sabato 15 febbraio 2020, ultima gara col Gewiss Stadium pieno prima del Covid, peak della facilità di calcio e atletismo mai vista a Bergamo, Pasalic che entra al 59’ e la mette all’incrocio col primo pallone toccato. 4-1 nel dicembre 2020, con quel gol di Muriel, e 1-4 nel dicembre 2021, con quel gol di Zaniolo, facce della stessa medaglia. 3-1 nell’aprile 2023, quello del «ho trovato l’ambiente ideale per lavorare, dove c’è tanto rispetto». 2-1 nel maggio 2024, gli ultimi 60 minuti da “prima Atalanta di Gasp”. 2-1 esattamente un anno dopo, con Sulemana a certificare la quinta qualificazione in Champions League.
Tutti manifesti di come Gasperini ha saputo evolvere le sue Atalanta sul campo nel corso degli anni. Feroce e indiavolata agli inizi, sulle ali dell’entusiasmo sino allo stop per la pandemia, in cerca di una nuova identità poi, infine paziente e pienamente consapevole della diffusa qualità a disposizione. Soprattutto, il mister delle “prime volte”, perfette e intoccabili in quanto tali, nostalgiche ed eterne anche se si è fatto solo un passo avanti.
La prima finale di Coppa Italia e la prima qualificazione in Europa, per un’intera generazione. I primi pronostici di inizio stagione in cui la parte destra della classifica nemmeno si considerava, a meno di avere già dei nipoti. Le prime stagioni in cui l’Atalanta non era, al massimo, una squadra simpatia (a meno di essere bresciani). I primi anni di calcio vincente, ancor prima e a prescindere di essere vittorioso, per tutti.
Quasi nove anni in cui la stragrande maggioranza del tifo atalantino ha perdonato tutto a Gian Piero Gasperini. Gli ha perdonato una preparazione strategica a posteriori pessima della finale di Coppa Italia 2019, perché quei 24mila arrivati all’Olimpico si meritavano una memoria perenne di quell’esperienza comunitaria, e si sa che le sconfitte rimangono più impresse delle vittorie. Gli ha perdonato le estati da mercato triste, perché mandare le frecciatine ai Sartori o D’Amico di turno drizzava le antenne in società, perché tenere alta la tensione nei periodi di calcio non giocato è parte della recita nella commedia delle parti. Gli ha perdonato il «bisogna combattere il razzismo vero» dopo i cori “Sei uno zingaro” ripetuti da buona parte della Nord a Vlahovic nel maggio 2023, perché ha ragione e in fondo dare a uno del figlio di puttana è la stessa cosa, magari il giornalista che gli ha fatto la domanda è pure terrone. Gli ha perdonato la frase «L’Atalanta può andare benissimo per la sua strada e pensare al presente e al futuro, non è sicuramente un regalo che deve fare a me» della conferenza stampa a Barcellona del 28 gennaio scorso, prima frecciata che non è sembrata solo una punzecchiatura, perché Pagliuca e gli americani sono venuti qui a fare business e non gliene frega niente di ascoltare le richieste di Gasperini, che vuole fare all-in per continuare a sognare lo Scudetto.
Tra qualche anno, se ci si chiederà se all’Atalanta di Gasperini è mancato qualcosa, la risposta sarà “No”. È mancato un titolo in Italia, quando sei andato per tre volte così vicino a una Coppa Italia, a un paio di mesi dal giocarsi la Serie A con Inter e Napoli, quando eri a 180’ da una Supercoppa in Arabia? No, non è mancato. Perché l’hai avuto, nel pensiero collettivo. Perché Gasperini e i suoi ragazzi hanno trasformato l’utopia in sogno, l’impossibile in ipotizzabile, la magia dell’ignoto in probabilità da mettere in conto. Non valgono tanto quanto, per la costruzione di un sentimento comune, una cosa immaginata concretamente e la stessa tramutata in realtà?
«Bisogna sempre lasciare il sogno alla gente, noi speriamo di poterlo realizzare».
Gasp ha cambiato faccia a parte del calcio italiano, un pioniere, grazie agli uomini e al contesto maturati a Bergamo. I gol da-quinto-a-quinto (anche se Mazzarri non sarebbe d’accordo), gli esterni gasperiniani come se l’allenatore fosse un aggettivo più che un cognome, le scalate in avanti in pressione a ogni altezza di campo, il ritorno delle marcature a uomo anche dei centrali, più di tutto il terzo difensore a occupare dinamicamente l’ultimo terzo di campo (Tolói l’originale, Kolasinac il terminale, Scalvini il potenziale).
Gasperini si è mantenuto audace anche nel mettere in discussione meccanismi consolidati del calcio italiano. Ha allontanato Gomez dalla riga laterale di sinistra pur di avvicinarlo a Ilicic e trasformarlo in regista a tutto campo, col Chievo-Atalanta 1-5 dell’ottobre 2018 a fungere da epifania. Limitandosi ai riferimenti più avanzati, ha fatto rendere come mai in carriera animali da profondità (Zapata, Hojlund), trequartisti in corpi da centravanti (Petagna, Scamacca), finalizzatori seriali (Retegui), falsi centravanti con compito di distruggere la circolazione avversaria (Cristante, Pasalic, Koopmeiners).
È passato dai quadrilateri laterali fissi con de Roon a destra e Freuler a sinistra alla possibilità di scambiare Marten di posizione con un altro mediano. Ha cambiato ruolo e carriera a Spinazzola, Kurtic, Cristante, Gomez, Malinovskyi, Koopmeiners, Éderson, Lookman. Ha costretto Liverpool, Real Madrid, Arsenal, Barcellona a elevare il livello del proprio calcio per fare partite di pari livello con l’Atalanta.
Gasp è stato fortunato, nell’incontrare il Crotone a Pescara dopo le 4 sconfitte nelle prime 5 gare della stagione 2016/17 e non qualsiasi altra squadra di Serie A, nel trovare un apparato cardiocircolatorio di Antonio Percassi abbastanza ossigenato da farlo resistere alla comunicazione della formazione anti-Napoli di qualche giorno dopo, nell’affrontare un Lecce già salvo tra la sconfitta in finale di Coppa Italia 2025 e il 3-0 sul Neverlusen.
Antipatico, scontroso, inopportuno, vecchiodimmerda, odioso dall’esterno e odiato da qualcuno di quelli con cui lavorava tutti i giorni. Gian Piero Gasperini è stato anche questo come allenatore e faccia dell’Atalanta, e - a naso - sempre lo sarà. Per una comunità che, calcisticamente, non si è mai sentita davvero riconosciuta, spesso ignorata o maltrattata, anche quando i risultati dell’Atalanta meritavano il giusto riconoscimento, il fatto che si continui a trovare pretesti per sminuirla non fa che rafforzare un’identità storica costruita sul sentirsi sempre contro tutti.
E questo è uno dei più grandi lasciti di Gasp nella storia dell’Atalanta. Ne ha stravolto la dimensione calcistica, rendendo una qualificazione in Champions League un evento nell’ordine delle cose. Ha mutato la forma mentis di decine di migliaia di persone, nelle oasi mentali dedicate ogni giorno al pallone e nelle ore precedenti a una partita, facendo credere loro che sì, anche oggi possiamo vincere. Ha reso le strisciate, le romane, il Napoli delle rivali anche per questioni di campo, non solo al bar con un campari col bianco in mano. Ma ne ha colto l’essenza, che nessun titolo o trofeo potrà modificare.
Persino la fredda, quasi distaccata lettera d’addio consegnata all’Eco di Bergamo può essere interpretata come un distillato di bergamaschità: pochi passaggi romantici, percepiti come melensi e forzati, perché comunicare bene è una cosa superflua. Conta lavorare, conta voltare rapidamente pagina senza perdersi in frivolezze tipo i sentimenti. Un favore, per i più cinici, per essere “dimenticato” e metabolizzato più in fretta.
Gasperini è diventato cittadino onorario di Bergamo nel settembre 2019 - Gomez (dicembre 2019) e de Roon (dicembre 2024) idem, e parte della benemerenza civica la devono al loro allenatore. Ha vissuto da dentro il momento più segnante per la comunità, i mesi in cui Bergamo era la-città-italiana-più-colpita-dal-Covid, con gli ottavi di Champions col Valencia e Ilicic manichino a cementificare il rapporto con la città.
Tra le miriadi di frasi opinabili pronunciate negli ultimi nove anni, Gasperini ha dedicato parole sempre perfette per quello che è diventato il suo popolo: «Ci ha animato lo spirito di migliorarci, ci siamo resi conto che dietro di noi c’era una felicità enorme ed è stato quello che ci ha dato più piacere di tutto, ogni volta che andiamo in giro per la città vediamo gente felice e questo è stato meraviglioso. Persone che hanno vissuto settimane intere per l’Atalanta, i sacrifici fatti per venire a Roma, a Dublino, abbiamo capito cosa è la storia di Bergamo dal 1907. È straordinario vedere l’attaccamento e la fede, l’ho sempre provata a trasmettere anche da chi arriva da altri Paesi, abbiamo ricevuto un grande dono, abbiamo capito cosa c’è dietro di noi». Con queste parole Gasperini ha reso merito alla città che lo ha adottato dopo la vittoria dell’Europa League, quando è stato ricevuto in Comune con la squadra.
Pochi minuti dopo la tripletta di Lookman a Dublino, Gasperini diceva di vivere la situazione di un uomo con «una moglie e due figli, ma trova una donna bellissima». Poco più di un anno dopo, moglie e figli sono gli stessi, la donna invece no, e la voglia di ricominciare daccapo ha infine preso il sopravvento. Come un partner che sente sfuggirsi l’altro tra le braccia, un po’ vittima e un po’ complice, il tifo atalantino aveva cominciato a rendere grazie a Gian Piero da qualche settimana.
Nel piazzale della Curva Nord è apparsa una targa. Una coppia di lastre, una oro e l’altra argento, col metallo più prezioso a illuminare l’incisione. Sopra, il profilo del tecnico di Grugliasco al termine di Atalanta-Bologna 1-0, 22 ottobre 2018, con le braccia alzate e gli indici a mo’ di direttore d’orchestra, ad accompagnare gli applausi dello stadio al rientro nel tunnel degli spogliatoi. Sotto, il riadattamento del finale del Troy di Wolfgang Petersen, con Ulisse-Sean Bean a cristallizzare il momento storico. Se mai si racconterà la nostra storia si dica che abbiamo camminato coi giganti…. Si dica che abbiamo vissuto al tempo di Gasperini.
Sì, signore sull’ottantina. L’è ìra, è vero. L’è ‘ndacc vià, Gian Piero Gasperini è andato via.