Inizialmente erano tutti gesti ingenui e spontanei. Un saltello sul posto, un indice puntato verso il cielo, un pugno scosso in segno di incitamento. Più tutte quelle piccole addizioni che potevano venire dall’improvvisazione. Le cose sono cambiate lentamente, più o meno quando il calcio si è trasformato in un prodotto televisivo. Da allora l’esultanza ha smesso di essere la parte posteriore del gol per diventare un dettaglio d'autore.
Il festeggiamento è la firma che il calciatore appone su quadro che ha appena dipinto, un gesto iconico e immediatamente riconoscibile grazie alla sua ripetizione, alla sua originalità, alla sua riproducibilità. Banalmente si potrebbe pensare che sia un modo particolare di esprimere un pubblico una gioia privata, un po’ come avviene nella famosa poesia di TS Eliot. Ma è soprattutto uno strumento buono per creare un codice comunicativo che tiene insieme i tifosi con il loro rappresentate in campo ed esclude tutti gli altri.
Raccontare un’esultanza significa scattare l’istantanea di momento specifico della parabola di un calciatore e della comunità che si rivede in lui. È così per tutti, ma è così soprattutto per Gabriel Omar Batistuta, l’attaccante argentino che per primo è riuscito a creare due filoni letterari paralleli: quello del "gol alla Batistuta" e quello delle "esultanze alla Batistuta". Tanto che a quasi vent’anni dal suo addio all’Italia è possibile ricostruire l’unicità di Gabriel usando le sue celebrazioni come tessere di un grande mosaico.
20 marzo 1991, Girone Copa Libertadores, River Plate - Boca Juniors 0-2
Il ragazzo con il nove sulle spalle salta oltre i cartelloni pubblicitari dell’Estadio Monumental di Buenos Aires. Quando i piedi toccano di nuovo terra le sue dita sono giù attorcigliate intorno alla sua maglia blu. La stirano e la dilatano, fino a quando il tessuto non arriva davanti alla bocca. Una volta. Due volte. Tre volte. Batistuta fa giusto qualche passo poi si butta sulle ginocchia davanti al settore dei tifosi del Boca. I pugni al cielo, la faccia allargata in un sorriso. Resta fermo immobile per qualche secondo, come se volesse impregnarsi di tutte le urla di gioia che vengono giù dagli spalti.
Subito dopo la telecamera stacca l’inquadratura e si fissa su un uomo seduto sulla panchina del River Plate. È fasciato da un completo elegante e ha lo sguardo fisso nel vuoto tipico di chi sa di aver perso molto più di una partita. Perché Daniel Passerella è l’uomo che ha voluto cedere a tutti i costi Batistuta. La storia è vecchia di un anno ma fa ancora male. Nel 1989 Gabriel era passato dal Newell’s Old Boys ai Millonarios per quello che doveva essere il salto di qualità della sua carriera. Le cose erano andate bene, o quasi. Gabriel aveva giocato 17 partite e segnato 4 gol. Poi però a gennaio c’erano state le elezioni per la presidenza del club e il nuovo numero uno del club, Alfredo Devicce, aveva deciso di affidare la panchina a Daniel Passarella, ex colonna della Selección. Un allenatore convinto che per difendere l’onore del proprio club i giocatori dovessero sfoggiare i capelli corti e un’educazione marziale. I rapporti fra il tecnico e Batistuta erano precipitati subito. Durante la prima partitella d’allenamento Passarella aveva diviso il gruppo a metà. Gabriel era sprofondato nell’oblio delle riserve senza riemergerne mai più. Nel 1991, grazie a un gioco di prestigio del suo procuratore Aloisio, era passato ai rivali del Boca Juniors. Solo che il periodo di Bati al River era stato così impalpabile che nessuno se l’era sentita di dargli del traditore. Gli inizi con la nuova maglia non erano stati esaltanti. La squadra era un disastro, tanto che a gennaio 1991 il club aveva deciso di sostituire l’allenatore e affidare l’incarico a Óscar Washington Tabárez. Il cambio di panchina stravolge la parabola di Gabriel. Il "Maestro" decide di affidargli una nuova posizione: non più largo sulla fascia ma incastrato nel centro dell’attacco. Ed è lì che finisce la carriera di Batistuta e inizia quella di Batigol.
Il punto più alto arriva a marzo, nella sfida contro il River Plate. Gabriel segna prima su rigore e poi di testa. Corre sotto la curva e si butta in ginocchio. Le telecamere lo lasciano lì, mentre sugli schermi a bassa risoluzione a tubo catodico iniziano a vorticare i replay. È un filmato che ripropone la sua prodezza ma che fa dissolvere la parte più sapida di quella serata. Quello che succede è chiuso tutto nella mistica del calcio argentino. In molti dicono di aver visto Batistuta tornare verso il centrocampo stando bene attento a conficcare i suoi occhi in quelli di Passarella. Nessuno però è pronto a giurare che sia successo davvero.
25 agosto 1996, Supercoppa italiana, Milan – Fiorentina 1-2
Batistuta corre a braccia aperte tracciando un semicerchio sul prato verde di San Siro. Avanza veloce, senza sapere di preciso dove andare, con la faccia trasfigurata dalla gioia, con gli occhi sgranati dall’incredulità. Ha appena trasformato una punizione dai trenta metri nel gol che consegna la Supercoppa nelle mani della Fiorentina. Dopo qualche secondo Gabriel cambia traiettoria e punta dritto verso una telecamera posizionata a bordo campo. Quando è a un metro dall’obiettivo scocca un bacio con le dita delle mani e grida: «Te amo, Irina. Te amo!». Il messaggio non arriva direttamente alla sua destinataria; Irina è nella casa al mare con i bambini e lì il decoder non funziona. Vedere la partita su Tele + è impossibile, poi una sua amica le racconterà quello che è successo.
È difficile immaginare che quel momento è l'inizio di un momento difficile per Batistuta. In campionato Gabriel stenta, sbaglia gol facili, fallisce rigori (a fine stagione saranno quattro). Così una voce velenosa comincia a serpeggiare fra le strade di Firenze. Gabriel avrebbe un’amante, anzi due. Irina lo avrebbe scoperto e lo avrebbe mandato via di casa, tanto che ora il bomber dormirebbe sul divano di Massimo Orlando. Non c’è niente di vero, eppure la gente non è sempre disposta a rinunciare ai pettegolezzi per qualcosa di deludente come la verità. Gabriel fa finta di niente e va avanti. Almeno fin quando la storia diventa insostenibile per la sua famiglia. Irina non può fare un passo in città senza sentire mormorii, senza avvertire lo sguardo degli altri che le si appiccica addosso. A novembre Bati convoca una conferenza stampa nella pancia del Franchi. Dice che in quella storia non c’è niente di vero, che non tollererà più che i suoi affetti vengano esposti a queste cattiverie. Ma soprattutto racconta di essere ferito, di aver conosciuto un lato di Firenze che non gli piace affatto. È la prima grande crepa che si apre fra Gabriel e la sua città di adozione. Ed è lì che comincia a mettere radici il suo pensiero di andare via.
10 aprile 1997, semifinale di Coppa delle Coppe, Barcellona – Fiorentina 1-1
L’indice della mano destra davanti alla bocca, quello sinistro dritto verso il cielo. Dagli spalti del Camp Nou viene giù un’incessante grandinata di fischi. Batistuta non è mai sembrato così felice di ricevere l’odio altrui. L’argentino si flette in avanti e arcua la schiena. Poi compie due giri su se stesso mentre invita il tempio del Barcellona a fare silenzio.
In quella serata d’aprile del 1997 ha appena segnato uno dei gol più belli della sua carriera. Un cross dalla destra lo ha pescato nella porzione sinistra dell’area, un paio di metri prima dentro la linea di confine. Gabriel ha fermato il pallone con il petto, ha aspettato che rimbalzasse a terra, se l’è portato avanti in orizzontale con un colpo di coscia e poi ha tirato di collo con la consueta violenza. È stato allora che il pallone ha preso una parabola insensata. Si è alzato e si è abbassato in un fazzoletto di campo, quel tanto che basta per superare Vítor Baía e fermare il risultato sul pareggio. Un gol alla Batistuta in quello che per tutti doveva essere il palcoscenico di Ronaldo il Fenomeno. È una rete fondamentale perché tiene aperta la partita in vista del ritorno al Franchi. Ma anche perché è la cristallizzazione di un paradosso: a 28 anni Gabriel è forse il centravanti più forte del mondo, ma incredibilmente sta giocando la sua prima edizione di una coppa europea. E sta anche dimostrando di poterla cannibalizzare. Nella sua autobiografia scrive: «Porto l’indice alla bocca e faccio segno a tutto lo stadio di tacere. Parla Batistuta, parla la Fiorentina». È un gesto che fa lievitare l’autostima di tutti i suoi compagni.
Vittorio Pusceddu mi ha raccontato che: «Quando ho visto che aveva zittito 110 mila persone ho pensato subito: ‘Ma questo è un davvero un grande’. Lui non ha voluto in nessun modo mancare di rispetto agli avversari, perché per la Fiorentina giocare lì voleva dire tantissimo». Quella Coppa delle Coppe è in verità una piccola Coppa dei Campioni, visto il blasone delle squadre che sono arrivate in fondo. Vincerla è praticamente impossibile. E la Fiorentina se ne accorge presto. Dopo qualche minuto Gabriel viene ammonito per un eccesso di zelo dell’arbitro. Piccolo dettaglio: era diffidato, così dovrà saltare la gara di ritorno.
Senza di lui la Fiorentina scompare. Quella che doveva essere la partita del trionfo viola diventa la partita di Couto e Guardiola; finisce 0-2 per il Barça, nonostante quella doppia sfida verrà ricordata per il gol e per l’esultanza di Batistuta.
20 settembre 1998, Serie A, Vicenza – Fiorentina 1-2
Il pupazzo Gatton Gattoni, mascotte del Vicenza, non ha fatto in tempo a lasciare il campo che Batistuta è già salito in cielo e ha convertito un cross nel gol del vantaggio ospite. Il vero spettacolo arriva qualche secondo dopo. Gabriel si gira verso la panchina e cerca Luciano Dati, un totem viola che di Batistuta è massaggiatore ma soprattutto compagno di scherzi. Qualche giorno prima, i due avevano stretto un patto: «Se segni fai finta di spararmi e io mi butto a terra», aveva detto Dati. E Bati aveva eseguito. È un gesto che ha una genesi singolare.
Durante i Mondiali del 1998 Gabriel aveva chiesto al massaggiatore viola di seguirlo per prendersi cura delle sue caviglie. Solo che Luciano avrebbe dovuto mantenere il riserbo più totale sulla sua presenza clandestina. «L’idea mi è venuta in Francia – spiega Dati – seguivo Gabriel Ovunque e mi sentivo come 007, agente segreto in missione». Il massaggiatore si fa stampare anche una maglietta: sulla schiena c’è scritto 007 con tanto di pistola. È la scintilla che accende l’idea della mitraglia, creando una delle esultanze più imitate degli ultimi trent’anni. Due giorni più tardi la Gazzetta torna sull’argomento. «Batistuta ha inventato una nuova forma di esultanza un gesto da guerriero o, meglio, da guerrigliero: lui segna, si gira verso la panchina, finge di imbracciare un mitra e di sparare all'impazzata».
Quel gesto, grazie anche alla frequenza con cui Gabriel riesce a replicarlo, diventa sinonimo il tratto distintivo di un attaccante che si è fatto sentenza e della sua forza soverchiante in un campionato che può ancora fregiarsi del titolo torneo più bello e difficile del mondo. Ma la mitraglia è anche il simbolo di una stagione da sogno, dove tutto sembra possibile, dove la Viola non è più la settima sorella ma una pretendente credibile per lo scudetto. Almeno fino a febbraio, almeno fino all’infortunio di Gabriel, almeno fino alla fuga di Edmundo in Brasile per il Carnevale di Rio - o almeno così si racconta.
26 novembre 2000, Serie A, Roma – Fiorentina 1-0
Batistuta se ne sta in piedi da solo sulla trequarti di campo della Roma. Ha lo sguardo piantato sul terreno dell’Olimpico per nascondere le lacrime che traboccano dai suoi occhi. In un attimo i suoi compagni gli sono addosso. Lo abbracciano tutti. Guigou, Zago, Aldair, Tommasi, Totti, Zebina, Montella e Candela. Nonostante si trovi nel centro esatto di quel groviglio di uomini, Gabriel Batistuta non si è mai sentito così solo. Ha appena reso realtà il suo incubo peggiore: segnare un gol decisivo contro la “sua” Fiorentina. E lo ha anche fatto a modo suo. La Roma, il club che lo aveva acquistato in estate per una settantina di miliardi ha faticato a trovare spazi fino al minuto numero 83. Poi Zago aveva alzato uno strano pallone all’indietro per Gianni Guigou che con la fronte aveva allargato sulla destra qualche metro prima dell’area di rigore. Bati si era girato, aveva fatto rimbalzare il pallone e poi aveva calciato. È un colpo che assomiglia a un quadro futurista, dove il soggetto acquista valore solo se viene colto nell’essenza del suo movimento. La sfera si smaterializza dalla scarpa di Gabriel e poi ricompare in rete, alle spalle di Francesco Toldo, una frazione di secondo più tardi. In quell’istante Batistuta sembra il personaggio di un libro di Antoine Volodine: è vivo e morto insieme. Ma è il prezzo che deve pagare per quella sua disperata rincorsa a un titolo che non è mai riuscito a vincere. Così resta lì, fermo sul prato dell’Olimpico.
Un uomo solo al centro di un abbraccio infinito, un attaccante che in una notte è riuscito a far piangere due città per motivi completamente diversi.