Filippo Galli è un pezzo della storia recente del Milan. Come calciatore, è diventato una colonna dell’era berlusconiana tra gli anni ‘80 e ‘90: dal 1983 al 1996 con la maglia rossonera ha collezionato 17 trofei, tra cui 3 Champions League.
Dopo la sua carriera in campo è entrato nell’organigramma del Milan e dal 2009 è Youth Sector Director del Milan (il suo contratto scade il prossimo luglio). Tra i suoi collaboratori ha avuto Stefano Baldini e Michele Cavalli, passati alla Juventus tre anni fa. Ho incontrato Galli a Milano per chiedergli di parlarmi della sua esperienza con le giovanili del Milan.
La prima domanda riguarda l’idea che avevamo, fino a qualche tempo fa, del Milan come di una squadra incapace di valorizzare i talenti che cresceva, che preferiva comprare giocatori già formati piuttosto che cercare perle da ripulire o farle sviluppare in casa. Oggi, invece, in prima squadra ritroviamo i prodotti del vivaio: Donnarumma, Calabria, Locatelli e Cutrone.
Ci siamo sbagliati o è solo una fortunata coincidenza, quella di aver avuto tanti calciatori particolarmente dotati più o meno della stessa generazione?
Questa politica ci ha dato l’opportunità di mettere a punto un processo metodologico, che ha innovato i sistemi di allenamento, per cercare la migliore strada possibile affinché un ragazzo possa diventare protagonista in un calcio d’élite, come è quello della prima squadra del Milan.
I ragazzi che hai citato, tutti nati tra il ‘96 e il ‘99, hanno trovato la strada verso la prima squadra grazie a questa politica . E ce ne sono altri – Vido, Felicioli, Zanellato e Crociata, giusto per fare qualche nome – che possono ambire ad un palcoscenico di primo livello».
Manuel, Patrick, Davide, Ema e Gigio
Proud of you, Boys! ❤⚫#BolognaMilan pic.twitter.com/ir74OhgqBG— ACMilan Youth Sector (@acmilanyouth) 29 aprile 2018
In un’intervista al Corriere dello Sport dello scorso 8 febbraio, hai accennato al metodo integrato, secondo il quale tutte le componenti societarie compartecipano allo sviluppo dei giovani calciatori. Da dove nasce l’idea del metodo integrato che adotta il Milan?
Poi ci sono altri studi, per i quali è impossibile scindere e allenare le singole parti che compongono un atleta nella sua interezza, e questa è la visione che abbiamo sposato, che ci ha accompagnato nel processo metodologico. Per questo parliamo di metodo integrato: tutte le parti in un atleta sono miscelate in un modo spesso indecifrabile. Quello che a noi interessa di più è l’efficacia tecnica, cioè l’efficacia con la quale un giocatore sviluppa il gioco. Per questo prevale il lavoro con la palla, il nostro focus è sempre tecnico e tutti gli altri aspetti ne sono una conseguenza.
Quello che vale per i calciatori, vale anche per lo staff: se è vero che tutte le componenti si integrano tra loro, non è pensabile che i professionisti che lavorano con noi, ciascuno competente per la propria area, non si integrino e non si confrontino con gli altri professionisti. Se è il gioco che comanda, tutti devono avere conoscenza del gioco e voce in capitolo. Per questo facciamo momenti di formazione per il nostro staff, nei quali si fa uso della video-analisi, per migliorare la conoscenza tecnica di tutti».
Quindi la partecipazione dello staff, nell’insegnamento calcistico, è davvero attiva.
Non siamo autoreferenziali, chiediamo ai professionisti, anche esterni al Milan, di mettere a disposizione dei colleghi la loro competenza. Nei momenti di formazione non parliamo solo di calcio e non vogliamo omologare il nostro pensiero: ascoltare gli altri ci permette di migliorare la nostra idea, integrandone di nuove. L’obiettivo è crescere giovani calciatori, il metodo con cui lo facciamo può evolvere momento dopo momento».
Chi sceglie l’identità tattica delle squadre giovanili del Milan?
Pensiamo che il gioco col dominio nel possesso palla sia un esercizio più ricco per i nostri ragazzi. Prediligiamo un calcio posizionale, che permette ai giocatori di toccare più spesso il pallone, di conseguenza che porta loro a prendere un alto numero di decisioni. Secondo la nostra idea metodologica, c’è vero apprendimento solo nella realtà del gioco: posso mettere un bambino a giocare la palla contro il muro cento volte, ma ti assicuro che da quei cento tocchi non imparerà a risolvere le situazioni complesse che si ritroverà ad affrontare in gara. Il gesto tecnico dev’essere sempre calato nella situazione di gioco per poter assumere un significato.
La nostra è stata una costruzione per gradi, non abbiamo copiato né il Barcellona né l’Ajax. Abbiamo provato sul campo, abbiamo commesso i nostri errori e apportato continui aggiustamenti, anno dopo anno, e questa modalità di lavoro mi accompagnerà nelle prossime esperienze».
A proposito dell’Ajax, non è un controsenso che la prima squadra segua poi una evoluzione tattica diversa? O abbiamo finito per idealizzare il modello olandese?
Detto questo, io e il mio staff riteniamo che il lavoro che facciamo con i ragazzi sia completo dal punto di vista formativo e possa permettere loro di assolvere ad ogni richiesta tattica. Per esempio: lavorare tanto tempo sul possesso palla, non vuole dire non saper difendere. Anzi, proprio il fatto di posizionarci al meglio sul campo ci permette di avere una reazione migliore nel momento in cui perdiamo la palla. Se poi non riusciamo a recuperare il pallone, dobbiamo essere bravi a effettuare la corsa in ripiegamento, coprendo lo spazio della porta rispetto alla palla. Di lì in poi abbiamo la fase di difesa organizzata.
Oggi, soprattutto nel calcio di alto livello, viene richiesto di difendere andando in avanti, i difensori devono avere capacità di lettura del gioco più evolute rispetto ad una volta, per poter restare alti e riuscire comunque a coprire 40 metri di campo alle proprie spalle».
A questo proposito cosa ne pensi delle dichiarazioni di Giorgio Chiellini, secondo cui l’imitazione a tutti i costi del gioco di posizione non ha aiutato lo sviluppo di giovani difensori bravi nella marcatura? Dobbiamo concludere che nei prossimi anni avremo una pletora di ragazzi bravi a impostare dal basso e scarsi in marcatura? E se così fosse, costituirebbe davvero un problema?
In generale, è sempre questione di cosa porti in campo: le grandi squadre non possono pensare di difendere a 20 metri dalla linea della propria porta, in una zona dove avere un difensore bravo in marcatura fa la differenza. Nel calcio delle grandi squadre, che vogliono imporsi a livello internazionale, i difensori devono saper fare un altro tipo di gioco».
Tu sei stato un difensore tecnico in tempi lontani, cosa ne pensi di chi dice che l’arte difensiva si sta un po’ perdendo per strada?
Torniamo ai ragazzi: i vostri si allenano al centro sportivo Vismara, mentre a Milanello ci sono soltanto la prima squadra e la Primavera. Alla Juventus, invece, tutte le squadre si allenano a Vinovo. È una mera questione logistica e quindi economica? O questa prossimità con i professionisti è davvero un fattore?
Dal punto di vista sportivo, penso sia bello far capire ai nostri ragazzi che Milanello sia un qualcosa da conquistare. Milanello è un punto d’arrivo che può costituire per i nostri ragazzi una motivazione extra».
Secondo te in cosa si manifesta il talento più puro? Cosa guardi in un ragazzo quando lo studi per la prima volta?
L’aspetto più importante del nostro lavoro è individuare le potenzialità di un bambino e, tra queste, la capacità di relazionarsi con gli altri da un punto di vista calcistico. È un aspetto cognitivo e socio-relazionale, che gli spagnoli definiscono relazione tra beneficiario (chi riceve la palla) e benefattore (chi trasmette la palla o chi permette al compagno di riceverla), e che si traduce nell’occupazione in campo, in quella che chiamano distanza di relazione. È un aspetto centrale, che continuiamo a sviluppare lungo tutto il processo di crescita. La collaborazione calata nel gioco, per l’idea di calcio che abbiamo, è fondamentale.
Secondo me, già in un’età molto precoce, che spesso associamo all’egoismo – si dice: “Il bambino gioca da solo” – in realtà possiamo cogliere in loro la capacità di relazionarsi con gli altri e di sviluppare da subito la collaborazione, che è l’essenza del gioco di squadra».
L’attenzione all’associatività può essere un messaggio che va in contrasto con lo sviluppo della tecnica individuale?
Nella nostra idea, non è funzionale allenare situazioni sterili di uno contro uno, non calate nel gioco. Il ragazzo, con la sua attenzione così focalizzata nel gesto tecnico, non riuscirebbe più a riconoscere nel compagno una risorsa. Non riuscirebbe neanche a sviluppare una propria capacità decisionale. Quante occasioni per un vero uno contro uno si creano in partita? Davvero poche, e sempre generate attraverso il lavoro della squadra. Cerchiamo di rendere consapevoli i ragazzi di questo che, per quanto sottile, è un punto di vista che nel gioco cambia molto.
Facciamo un esempio: metti il caso di un bambino molto veloce, che il più delle volte butta la palla avanti e salta l’avversario. Se do valore assoluto all’uno contro uno a prescindere dal contesto, rischio, da un lato, di alimentare la convinzione in questo bambino di essere invincibile; dall’altro, potrei creare frustrazione in un altro che non ha quella specifica qualità. In entrambi i casi, a nostro avviso, i processi di apprendimento tenderebbero a rallentare, se non addirittura a bloccarsi. Per questo il nostro obiettivo nell’attività di base dev’essere la collaborazione.
Da queste riflessioni nasce l’idea di un talento che possiede un patrimonio genetico, ma che lo sviluppa negli incontri che fa nel suo processo di crescita. Un giocatore di talento, che si pensa come tale perché aiutato dai compagni, sviluppa una capacità emotivo-relazionale che lo rende ancora più forte».
A livello professionistico, i club dispongono di grandi risorse per lo scouting. A livello giovanile come si lavora? Per quanto tempo si segue un ragazzo?
Operativamente, il coordinamento tecnico segnala le mancanze nelle rose delle squadre al team degli osservatori e i nostri scout segnalano almeno tre scelte per ciascun ruolo da coprire. Ci fidiamo del fiuto dei nostri osservatori, non abbiamo stabilito dei role model, dei profili di grandi giocatori a cui ispirarci ruolo per ruolo, perché siamo dell’idea che un approccio metodologico flessibile sia in grado di valorizzare ogni tipo di talento. Noi cerchiamo giocatori da Milan, che possano avere una chance futura in un top club come il nostro o che almeno possano giocarsi la titolarità in un club di uno dei primi cinque campionati d’Europa».
Riuscite a trovare un bilanciamento tra i vostri obiettivi formativi e il risultato sportivo? Il Milan, ad ogni livello, non è forse tenuto a vincere sempre e comunque?
Ti faccio un esempio: l’anno scorso la nostra Under 16 era quinta in classifica. In una pausa del campionato ha disputato, e vinto, un torneo in Piemonte dove tra i partecipanti c’erano due squadre professionistiche straniere e tutte squadre della nostra Lega Pro. Da quel momento nei nostri ragazzi è scattata la convinzione di poter battere ogni avversario portando il proprio modo di stare in campo. Nelle fasi finali del campionato hanno battuto l’Inter, la Juventus, un’Atalanta fortissima, il Genoa e la Roma».
️ Vi siete persi #MilanRoma? E allora mettetevi comodi e preparatevi a vedere gli highlights della sfida del #MilanPrimavera ⬇️ pic.twitter.com/IgGQwhrSt9
— ACMilan Youth Sector (@acmilanyouth) 23 aprile 2018
In una recente intervista a So Foot, Xavi ha portato l’esempio di Mario Rosas, un giocatore che, per la comprensione del gioco e per la tecnica eccezionale, sembrava destinato ad una carriera di altissimo livello. Invece non si è mai imposto in prima squadra. Xavi non è riuscito a spiegarsi il perché, tu sapresti individuare un elemento che può fare la differenza in questi casi?
La pressione mediatica alla quale i professionisti sono sottoposti ha raggiunto livelli altissimi, che spesso non riescono a gestire. Si inizia a pensare a come preparare un ragazzo alla pressione alla quale sarà sottoposto?
Cosa si fa a livello di preparazione mentale e motivazionale? Ci sono ragazzi che sono mentalmente più pronti di altri in maniera innata?
Per quanto riguarda la motivazione, io sono d’accordo con Juanma Lillo quando dice: “Non esiste motivazione estrinseca”. Perché la motivazione è solamente intrinseca, ognuno di questi ragazzi ha obiettivi personali. Il nostro lavoro è la creazione del contesto per il quale questa motivazione viene fuori e si sposa con un obiettivo comune. Quando ha un obiettivo comune, il gruppo diventa coeso e sarà facile a quel punto motivare un ragazzo a dare qualcosa in più per la “causa”.
Come prima, anche qui: la relazione è fondamentale, non solo nell’apprendimento tecnico, ma anche in fatto di motivazioni. È ciò che ti permette di superare anche i momenti in cui i risultati non arrivano e non si attiva il circolo virtuoso.
Vale anche per noi adulti. I nostri momenti di formazione non avvengono mediante una trasmissione di informazioni unidirezionale. La formazione ha valore quando c’è una relazione, quando è partecipata, quando c’è un continuo scambio reciproco che può arrivare anche al conflitto. Ovviamente il contrasto dev’essere sull’oggetto della discussione, non personale, non deve riguardare le persone. Il conflitto, una volta emerso, non deve restare fine a se stesso, ma va risolto insieme. Questo però ci porta a fare un salto di qualità incredibile nella relazione lavorativa. L’assenza di conflitto crea stupidità funzionale, un esercito di “yes man”. Le persone creative sono sempre conflittuali, se non so gestire il conflitto, mi perdo tanto del talento di una persona creativa».
A proposito di conflitti: il commissario alla FIGC Fabbricini ha incontrato il primo forte ostacolo nella figura di Gravina, presidente della Lega Pro, all’inserimento delle seconde squadre (la cui introduzione, però, è stata recentemente annunciata da Costacurta, ndr) nella piramide del calcio professionistico. È uno strumento necessario per la produzione di talenti a livello nazionale o per te ci vuole dell’altro?
Il problema è come in Italia interpretiamo certi strumenti: abbiamo cercato di rendere più competitivo il campionato Primavera, introducendo le retrocessioni. Abbiamo invece creato un campionato in cui si gioca un calcio che ha poco di formativo. Se le riforme continueranno ad essere calate dall’alto, e non essere sentite dagli addetti ai lavori, continueremo ad avere nessun vantaggio, o solo vantaggi aleatori».
Pensi che il “risultatismo”, cioè l’ossessione per il risultato, sia un nostro male culturale?
Saper attaccare, sapere cosa fare quando si ha la palla, è difficile da insegnare a un ragazzo. Molto più del saper difendere. Se non cambierà la nostra mentalità, se questo interruttore non girerà, resteremo sempre un passo indietro».
La federazione belga si è fatta promotrice di un progetto che ha rivoluzionato l’organizzazione delle squadre giovanili dei top club e che ha ottenuto risultati straordinari nella produzione di talenti tecnici. Trovi impensabile che la FIGC detti ai nostri club i piani di allenamento e si occupi della formazione dei loro tecnici? È proprio impossibile, allo stato attuale, che i club facciano sistema, scambiandosi informazioni almeno a livello giovanile, per il bene del movimento e per il proprio tornaconto?
Sarebbe già un successo se la Federazione riuscisse ad imporsi sulle squadre, però poi vediamo qual è la proposta formativa. Se mi convincono che è più formativo per un ragazzo giocare un calcio speculativo, diretto, dove si va a lottare per la seconda palla, io sono disposto a cambiare la mia idea e il mio modello di lavoro. Si può vincere una partita di calcio giocando in maniera completamente differente, non c’è un gioco migliore di un altro. Però, se parliamo di formazione, un calcio posizionale, fatto di possesso, nel quale ci difendiamo in base a come attacchiamo, e non attacchiamo in base a come ci difendiamo, prepara meglio i ragazzi.
Certo, all’inizio perderai qualche partita in più. Ma perché non rischiare? Soprattutto in questo momento storico».
Hai giocato a livelli altissimi. Tanto per fare un esempio: il tuo Milan ha preso parte a 5 finali di Champions League, vincendone 3. Tu hai giocato tutti i minuti della storica finale di Atene, quella del 4-0 al Barcellona di Cruyff. Però nel complesso hai giocato relativamente poco: in 14 anni di Milan, hai avuto una media di 15,5 presenze a stagione. Come facevi a farti trovare pronto, con il livello di performance elevato che ti era richiesto, quando venivi chiamato in causa?
Ho avuto numerosi infortuni, lavoravo in maniera massacrante, che non consiglierei a nessuno dei miei ragazzi ora. Ma all’epoca il mio coinvolgimento e le mie conoscenze erano diverse da quelli di oggi».
Quanto è stato difficile confrontarsi quotidianamente con un totem come Franco Baresi? Un giocatore si allena pensando sempre e comunque di essere il migliore? Oppure accetta il proprio ruolo, anche se è un ruolo di secondo piano?
Davide Nicola, parlando con L’Ultimo Uomo, ha detto di apprezzare, da allenatore, i giocatori che hanno una lunga militanza in un top club, capaci di farsi trovare pronti e di riciclarsi in ruoli diversi, all’occorrenza. Tu sentivi questo tipo di fiducia da parte del mister? Era sufficiente a darti motivazioni?
Solo a Brescia mi è capitata una situazione diversa. Avevo lasciato il Milan per la Reggiana, che era già in cattive acque e che retrocesse alla fine della stagione. Avevo voglia di conquistare la massima serie di nuovo, sul campo, e disputare ancora una stagione in Serie A, prima di ritirarmi. Mazzone arrivò a Brescia dopo la promozione dalla B alla A conquistata da Sonetti, e mi comunicò che non aveva intenzione di puntare su di me. Per i primi due mesi della stagione non venni preso mai in considerazione, neppure per le amichevoli. Però continuai ad allenarmi e, in autunno, entrai al posto dell’infortunato Bonera (durante Brescia-Parma del 15 ottobre 2000, ndr). Il mister riconobbe il mio valore e alla fine giocai da titolare (26 presenze tra campionato e Coppa Italia, ndr). Dopo quell’inizio difficile, con Mazzone non ebbi mai un problema».
Foto di Grazia Neri / Stringer
Hai giocato fino all’età di 41 anni, con un’annata nella Serie B inglese con il Watford, allenato da Vialli, e altre due successive nella nostra C2 con la Pro Sesto. Cosa ti ha spinto a restare in attività così a lungo, soprattutto dopo aver calcato i palcoscenici più prestigiosi d’Europa?
Ritornai in Italia, convinto a smettere. Invece ricevetti più di qualche telefonata da Stefano Eranio, e alla fine mi feci convincere. Il primo mese alla Pro Sesto feci molta fatica, perché intanto ero rimasto fermo e recuperavo anche da una frattura alla clavicola. Però poi quando tornai in forma iniziai a divertirmi. Continuai per pura passione, e mi ritirai solo per questioni personali, non legate al calcio».
Valentino Rossi ha dichiarato di aver paura di smettere. Ha detto qualcosa di simile anche Francesco Totti prima del suo ritiro. Si è veramente pronti alla vita fuori dal campo? Come ti sei preparato al dopo e come hai vissuto i primi giorni senza calcio?
Quando Costacurta decise di andare ad allenare a Mantova, sono passato a lavorare in prima squadra nello staff di Carlo Ancelotti. Dopo un anno, Galliani mi ha proposto di diventare responsabile di tutto il settore giovanile».
E nel tuo immediato futuro cosa intravedi?