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Foto Jennifer Lorenzini / LaPresse
Calcio Tommaso Giagni 12 ottobre 2017 7'

Federico Chiesa ragazzo d’oro

Le qualità umane del figlio d’arte più amato d’Italia.

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«Se non avessi fatto il calciatore, avrei fatto il fisico. L’universo è un pensiero fisso». Federico Chiesa non è mai banale. Come giocatore e verosimilmente come persona.

 

Rivendica la lontananza dal divismo («Oggi il calcio è molto immagine, a me importa poco») e il disinteresse per certi status symbol da calciatore («Sul Cayenne non mi vedrete mai»). Eppure ormai è diventato un professionista, ormai è titolare e stella sia della Fiorentina che dell’Italia Under 21. Ha compiuto il salto che gli faceva paura: «Fino a pochi mesi fa mi confrontavo coi ragazzi della mia età, ora con uomini e campioni. All’inizio mi sentivo come in un deserto».

 

Regolare, di buon carattere, aperto. Dopo il primo gol ufficiale, nella trasferta di Europa League contro il Qarabağ (dicembre 2016), «volevo abbracciare tutti». Quella sera, quando telefona a casa, la madre non riesce a parlare dall’emozione e il padre dice una sola parola: “Ottimo”.

 

Di padre in figlio

Scrivere di Federico Chiesa non può che significare scrivere anche di suo padre Enrico.
Per il lavoro che ha scelto, per il tipo di calciatore che è. Per i riferimenti che fa di continuo. Per le città che hanno segnato finora il suo percorso.
Alla fine della stagione scorsa, padre e figlio stanno camminando insieme. Alcuni ragazzi fermano Federico per un autografo. Poi notano Enrico e gli dicono: «Lei è il babbo? Allora vorremmo anche il suo».

 

Chiesa Instagram
Viola da tempi non sospetti.

 

In realtà, a dar retta al padre, il personaggio-chiave da non perdere di vista in questa storia è Francesca, la madre di Federico: “Vivono in simbiosi”. A veder giocare il figlio, si emoziona più di Enrico. E oggi più di quando era Enrico a giocare.
Lo ha riconosciuto Enrico stesso, durante i riconoscimenti Football Leader del giugno scorso, quando Federico era stato eletto miglior talento U21 e a ritirare il premio era andato il padre.

 

A Genova, Federico è nato per caso, il 25 ottobre 1997, e ci ha vissuto tre mesi. Il padre aveva già lasciato la Sampdoria.
Firenze è il suo luogo. Sul piano tanto personale quanto professionale. Nel settore giovanile della Fiorentina, Federico è entrato nel 2007, con i Pulcini. Avrebbe potuto incontrare sul suo cammino Leonardo Semplici, che è stato per tre stagioni sulla panchina della Primavera della Fiorentina e che anni prima aveva allenato il padre Enrico a Figline Valdarno. Chiesa, però, ci è entrato alla fine della stagione 2013/14, proprio quando Semplici ha lasciato Firenze per allenare la SPAL.

 

Se bisogna fare un nome, è forse Paulo Sousa la figura che più ha segnato il suo percorso recente. Quello che l’ha lanciato tra i grandi. Quello a cui lui stesso ha attribuito il 70% dei meriti della sua evoluzione. E quando ha detto: «Lo considero un genio», Federico non deve aver parlato per mera gratitudine.

 

L’origine della sua storia da calciatore, la fa risalire a un momento immortalato da una foto: lui che insegue i piccioni, in una piazza, tirando calci a un pallone. La piazza era a Parma, altro luogo cruciale della carriera di suo padre.

 

Riguardo i suoi genitori dice: «Mi hanno dato le istruzioni per non perdermi in un mondo luccicante ma pieno di insidie».
In generale, a raccogliere e analizzare le sue interviste, Federico compie scelte linguistiche abbastanza sorprendenti, con un registro più alto e più articolato della media dei calciatori. Al tempo stesso, le sue parole incespicano di continuo. Si può azzardare che sia perfezionismo, ricerca del termine esatto, piuttosto che timidezza.
Ma pesano di certo i sette anni di lezioni in inglese alla scuola internazionale, un modo «per provare a vivere open mind». Qualche compagno per questo oggi lo soprannomina “l’Inglese”.

 

«Da piccolo ho sempre sognato di essere come lui» dice di suo padre. È un inciampo linguistico che suona come un lapsus: perché prende le distanze (“Da piccolo”) ma al tempo stesso conferma che la presenza di quel padre è una stella polare anche nel presente (“Ho sempre sognato”).
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La foto che ha scelto per postare su Instagram gli auguri per la festa del papà.

 

A settembre contro il Bologna ha segnato un gol che davvero ricorda quelli del padre. Gran controllo, rientro verso l’interno e tiro a giro al secondo palo, forte e secco. Un gesto legato alla brutalità piuttosto che all’estetica.
Le prodezze di Enrico, lui le ha conosciute soprattutto su internet. Ma ha studiato quelle reti, le ha viste “quasi tutte”.
«Mi sento un giocatore diverso da mio padre» insisteva Federico ancora qualche mese fa. Eppure, per quanto lo si vorrebbe aiutare a smarcarsi dal paragone, sembra sempre più il contrario.

 

Enrico Chiesa è stato un attaccante straordinario, capitato in un’epoca che pullulava di attaccanti straordinari. Oltre cinquecento partite ufficiali, quasi duecento reti, di cui 138 in serie A. Una coppa UEFA e due coppe Italia. Diverse presenze in nazionale, tra il 1996 e il 2001, anni in cui la concorrenza era terribile.
La sua modernità, già allora, è probabilmente il motivo per cui Federico può somigliargli. D’altronde non è comune, nel calcio, che padre e figlio abbiano caratteristiche tanto avvicinabili.

 

Il padre ha concluso la carriera al Figline Valdarno nel 2010. Uno dei compagni di allora, Emiliano Frediani, ha raccontato a un quotidiano locale di quando Enrico, dopo un gol, andò a esultare verso il raccattapalle. Che era il figlio Federico. Un ragazzino vivace, che lui accompagnava a prendere snack o patatine “dalla signora Patrizia” mentre il padre si allenava.
Frediani sostiene che la somiglianza tra i due, in campo, non riguardi solo il gioco: «Durante la partita fanno le stesse smorfie col viso».

 

Chiesa 1

 

A piccoli passi

Si iscrive all’università nel 2015, per crearsi un’alternativa in caso andasse male col calcio. Scienze dell’Attività motoria. Una materia che, gli ha fatto notare il padre, può essergli utile per il calcio: «Voglio capire bene come funziona il mio corpo».
Dopo alcuni mesi spiega che vuole cambiare. Pensa a Chimica. Non se la sente di provare con Fisica, il vecchio sogno: riconosce che sarebbe troppo impegnativo. Alla fine vira su Lingue, un percorso coerente con quello scolastico.

 

La prima squadra è la Settignanese, a pochi metri da Coverciano, da dove sono usciti altri giocatori di A come Lorenzo Tonelli. Il suo allenatore si chiama Kurt Hamrin. Federico si diverte e torna a casa sempre sporco di fango: «Ero un bambino felice». Verrà il padre, un giorno, a raccontargli la leggenda di “Uccellino”, quel signore svedese che lo allena.

 

Nel 2014 aveva giocato, con la Primavera viola, contro la Sampdoria allenata da suo padre. Oggi, racconta il figlio, Enrico non gli dà consigli tecnici. Per quello c’è il tecnico, prima Paulo Sousa ora Pioli. Al contrario, è lui a chiedere a Federico informazioni sui metodi degli allenatori, per migliorare abbastanza da poter guidare una prima squadra.

 

Chiesa 2

 

La maggior parte di noi ha conosciuto Federico Chiesa una sera di agosto del 2016. «È cambiata la mia vita» dirà. Prima giornata di campionato, Juventus-Fiorentina. Poche ore prima dell’inizio, Paulo Sousa gli annuncia che sarebbe stato titolare. «Sono sbiancato».
Si trova davanti Buffon, che a Parma era compagno di squadra del padre e Federico da bambino vedeva spesso a casa. Si trova davanti Dani Alves, che Federico aveva da poco acquistato per la sua squadra di FIFA alla Playstation.
All’intervallo, quella sera, Federico si attarda nello spogliatoio dello Juventus Stadium per gestire la tensione. Al rientro trova delle porte chiuse, e uno steward che lo trattiene: «Aspetta che ti deve vedere il mio superiore. Non possiamo far entrare in campo chiunque». Lui risponde: «Mi scusi ma io avevo giocato, prima».

 

«Ha forza, gamba, vede la porta». Se qualcuno non conoscesse Federico Chiesa, potrebbe affidarsi alla descrizione di suo padre. Che però, più di tutto, sostiene che ad averlo sorpreso in questi mesi è stata la personalità del ragazzo.
La completezza tecnica di Chiesa va insieme all’equilibrio delle doti fisiche che ne fanno un modello d’atleta moderno. Un aspetto del suo gioco, emerso negli ultimi mesi, è la qualità delle soluzioni in rapporto al tempo, all’opportunità del momento. Perché è già abbastanza maturo da non aver fretta, ragionare anche nei contesti più frenetici. E quando poi decide di affrontare la porta, ogni tiro sembra sempre l’ultimo che scaglierà nella sua vita: calibratissimo, violento, definitivo.

 

Esterno, seconda punta o “ala entropica” come lo definiva Emanuele Atturo quasi un anno fa. Il futuro dirà molto del ruolo che meglio può esaltarlo. Di certo la somiglianza col padre va aumentando, tiro a giro dopo tiro a giro.

 

Un complimento paterno gli ha fatto particolarmente piacere. Quando gli disse che è un generoso. E Federico se lo riconosce: «Non tutti i ragazzi della mia età pensano al noi piuttosto che all’io».

 

Arriva ai vent’anni con un livello raro di consapevolezza e una maturità che sta diventando anche tecnica. La crescita della persona si direbbe accompagnare, senza farsi lasciar dietro, quella del giocatore.

 

È cauto. Anche se si sta dimostrando uno dei grandi prospetti del calcio italiano, insiste a ripetere che non ha ancora fatto nulla. D’altronde il padre ha posto l’asticella molto in alto: Diventerai un giocatore di serie A quando avrai fatto almeno trecento presenze.

 

Intanto c’è la Fiorentina. E la Nazionale. Perché dopo il primo stage dell’aprile scorso e dopo queste settimane di conferma, tutto lascia intendere che Federico sia destinato alla nazionale maggiore. E a stretto giro strappare una convocazione, superando l’Under 21. Il Mondiale 2018 può essere un orizzonte verosimile, se l’Italia avrà accesso.

 

La spontaneità l’ha portato di recente a dire: «Mi piace il calcio delle bandiere». E in un’altra occasione ha ribadito che sogna di diventare capitano e simbolo della Viola: «Ci sono ancora giocatori che vivono il calcio come passione e amano legarsi per sempre a una maglia. Mi reputo fra questi».

 

Forse non è solo spontaneità. Forse davvero è così poco banale che ha in mente qualcosa del genere per sé, in un calcio che corre nella direzione opposta. Firenze l’ha accolto col calore che negli anni ha dedicato ai grandi amori. Lui si è presentato a firmare il rinnovo con il padre, non ha preso un procuratore, «anche in segno di rispetto per la società».

 

Certo, è presto per fare qualsiasi proiezione, e probabilmente è anche ingiusto. Di sicuro ci sono il presente e l’immaginario. Di sicuro c’è il bambino della provincia di Pisa che qualche mese fa, a sentire la maestra chiedere il disegno di una chiesa, ha disegnato Federico con la maglia viola.

 

 

Tags : ACF Fiorentinaenrico chiesafederico chiesa

Tommaso Giagni (Roma, 1985) ha pubblicato da Einaudi i romanzi L'estraneo (2012) e Prima di perderti (2016). Tra le antologie a cui ha partecipato: Voi siete qui (minimum fax, 2007) e La caduta dei campioni (Einaudi, 2020). Scrive per «L'Espresso», «Avvenire» e «l'Ultimo Uomo». Il suo ultimo romanzo è I tuoni (Ponte alle Grazie, 2021).

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