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Foto di Chris Graythen/Getty Images
NBA Dario Vismara 23 gennaio 2020 6'

L’esordio di Zion Williamson è stato memorabile

Un momento che potrebbe restare nella storia della NBA.

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Sono ormai al quarto anno in cui, per lavoro, la mia sveglia suona alle 4 del mattino praticamente ogni giorno.

 

Non che non abbia i suoi vantaggi, perché alla fine sono sufficientemente fortunato da fare il lavoro che sogno da quando avevo 6 anni, e cioè il giornalista sportivo, scrivendo tra l’altro di una delle cose che più amo al mondo, e cioè la NBA. Svegliarsi e non sapere di che cosa scriverò è una delle cose che più amo del mio lavoro. Ma ovviamente questo non esclude che questo tipo di vita sia pesante, e non solo per me, ma soprattutto per chi mi sta intorno, per ragioni che credo sia facile immaginarsi. A uno verrebbe da pensare che alla fine ci si abitua, ma già nel primo anno ho capito che a questa cosa non ci si abitua davvero mai — specialmente per una persona come me che fino a qualche anno fa alle 4 del mattino era abituata a chiudere gli occhi, non ad aprirli.

 

Non vorrei trasformare questo articolo in un lungo lamento funebre della mia condizione psico-sociale — “Scrivi di NBA tutto il giorno, di che cosa ti lamenti?” è la cosa che mi sono ripetuto di più in assoluto dal 2016 a oggi —, ma era solo per far capire a chi legge qual è la condizione con cui ho aperto gli occhi questa mattina per seguire l’ennesima notte di regular season NBA. 

 

E sarebbe stata una giornata come un’altra, se non fosse che stanotte debuttava Zion Williamson.

 

Zion on his way into the arena tonight: pic.twitter.com/6zmnTRftIQ

— The Draft Class (@the_draftclass) January 23, 2020

 

Come si arrivava a questa notte.

 

Un debutto a lenta carburazione

All’inizio, in realtà, sembrava che non fosse un momento da ricordare. Con un occhio aperto e uno ancora chiuso ho visto il video dei primi due punti in carriera di Zion: un canestro a rimbalzo d’attacco in mezzo a due, non esattamente il canestro più iconico della storia ma comunque mostrando grande presenza. Ma non essendoci nient’altro online o sui social deduco che il primo tempo sia stato avaro di soddisfazioni per lui e per i Pelicans, che all’intervallo sono sotto di 60-51.

 

Il tabellino di Zion Williamson recita: 2 punti, 3 rimbalzi, 1 assist e 2 palle perse in 8 minuti con 1/2 al tiro. Non entusiasmante, diciamo. Mi metto a vedere la partita e lo vedo subito perdere un pallone banale andandosi a schiantare contro Trey Lyles in maniera anche imbarazzante, e poco dopo ne perde un altro andando a sbattere su Dejounte Murray che dall’altra parte deposita due punti facili. Insomma, non sembra proprio il debutto del secolo, nonostante un canestro buttando dentro in qualche modo un passaggio che stava rischiando di farsi sfuggire.

 

Coach Alvin Gentry lo richiama in panchina dopo appena tre minuti e mezzo della ripresa, cercando di rimettere in piedi una partita che per i Pelicans ha comunque implicazioni di classifica, alla ricerca di un ottavo posto a Ovest non così distante. Complice una serata non brillantissima di Brandon Ingram e una circolazione di palla pressoché inesistente, la squadra rimane sotto in doppia cifra per tutto il terzo quarto, cominciando l’ultima frazione di gioco con 12 lunghezze da recuperare.

 

La sfuriata

Zion Williamson rientra sul parquet all’ultimo quarto per raggiungere la quota di minuti che lo staff tecnico ha prefissato per lui, presumibilmente attorno ai 15. Il registro della sua partita, però, sembra non cambiare: Zion sbaglia un tiro e perde un altro pallone banale, il quinto della sua partita, e su Twitter gli account americani che seguo si lamentano del fatto che in telecronaca Jeff Van Gundy e Mark Jackson stanno ripetendo all’infinito che è grasso e fuori forma.

 

Poi, però, succede qualcosa di particolare: Zion recupera un rimbalzo difensivo con un salto dei suoi e prende improvvisamente fiducia, gestendo il contropiede e regalando un assist perfetto per E’Twaun Moore che va a segnare sotto canestro. Quell’azione lo sblocca mentalmente, come se gli facesse dire: “Ah, ma allora queste cose che ho sempre fatto mi riescono anche in NBA”. Gregg Popovich chiama immediatamente timeout perché i Pelicans sono tornati a -6 e hanno un quintetto in cui Zion è il 5 insieme a Ball, Hart, Moore e Jackson. Ma la mossa del tecnico dei San Antonio Spurs non è altro che uno scoglio in mezzo al mare perché a 8:52 al termine della partita ne comincia un’altra. E cioè lo show personale di Zion Williamson.

 

La difesa degli Spurs, però, non lo capisce subito e lo sfida al tiro. Zion risponde con la tripla del -5. Poi Lonzo Ball lo pesca in area con un lob: altri due punti al volo spiccando sopra DeMar DeRozan. Derrick White dall’altra parte lo lascia fermo con un’esitazione strepitosa, ma Zion risponde subito con un’altra tripla a segno per tenere i suoi a contatto. Quindi prende il rimbalzo difensivo, va dall’altra parte, prende posizione in area, sbaglia contro le braccia di Jakob Poeltl, si avventa sul pallone come Blanka di Street Fighter e poi ribadisce il suo stesso errore, salendo a quota 10 punti in un minuto e mezzo mentre lo Smoothie King Center comincia a caricarsi sempre di più — e con esso tutti gli altri che guardano.

 

Coach Alvin Gentry a questo punto vorrebbe sostituirlo e chiama Nicolò Melli al cubo dei cambi, ma Williamson non gliene dà il tempo e segna un’altra tripla per il -2 punendo ancora una volta la scelta difensiva degli Spurs, che lo sfidano apertamente a tirare da fuori. Passano altri 40 secondi e Zion si ritrova sul lato e non più in punta, isolato contro LaMarcus Aldridge: ancora lo spazio avanti a sé per sconsigliarli la penetrazione, ancora la fiducia di prendersi il tiro da tre, ancora un canestro — quello del sorpasso sul 107-106.

 

Delirio.

 

Fanno 16 punti in fila nell’arco di quattro minuti, a cui se ne aggiunge un 17° poco dopo in lunetta tra i primi cori di “M-V-P” della sua carriera. Subito dopo torna in panchina e sopra la testa di Alvin Gentry si può leggere chiaramente una nuvoletta con scritto: “Se ti succede qualcosa mi licenziano”, lasciando i suoi sotto di 3 e con la partita che si conclude con 4 lunghezze di vantaggio in favore degli Spurs. Quattro come le gare che ora separano le due squadre in classifica per una distanza che chissà se sarà più colmabile.

 

Preso come chiunque sia davanti allo schermo in quel momento, da qualche minuto sto scrivendo frasi sconnesse ai miei colleghi su WhatsApp, come facciamo di solito quando non possiamo vedere assieme prestazioni del genere. Era da un po’ che non ci capitava: serve a tenerci in piedi l’un l’altro quando la stanchezza che proviamo sembra l’unico argomento di cui riusciamo a discutere. Stamattina però non ce n’era neanche un po’: l’adrenalina di quei quattro minuti pazzeschi di Zion — resi ancora più memorabili dal fatto che il suo debutto così atteso sembrava destinato a un nulla di fatto — ha spazzato via tutto il resto. 

 

Da quanto tempo non vedevamo una cosa del genere? Quanto tempo abbiamo dovuto aspettare per vedere finalmente Zion Williamson prendere possesso di una partita NBA? Aveva tutti gli occhi del mondo addosso, aveva passato tre quarti ben al di sotto delle sue possibilità, eppure ha comunque trovato la scintilla mentale per accendersi e mettere 17 punti uno in fila all’altro, riportando di peso i suoi in una partita in cui non avevano alcun motivo di essere a contatto. È quello che fanno i grandi giocatori: si danno una chance anche quando non dovrebbero averla. A Zion Williamson è bastato un quarto per dirci che ha tutto quello che serve per caricarsi la NBA sulle spalle nel nuovo decennio.

 

Magari sto esagerando e il futuro finirà per smentirmi, ma non posso non pensare che ho assistito a qualcosa di diverso, che momenti come questo sono esattamente il motivo per cui faccio questo lavoro e per cui vale la pena alzarsi ogni giorno alle 4 del mattino. Perché non c’è nessuna lega sportiva che possa fornirti così tante storie a getto continuo come la NBA: ogni giorno c’è qualcosa di nuovo da poter raccontare, ogni stagione c’è una nuova infornata di giocatori da poter scoprire, ogni mossa di mercato ha ripercussioni di cui magari si vedranno gli effetti solo due anni più avanti. Le storylines e gli incroci delle narrative dei giocatori sono troppe per poterle ricordare tutte, e il tempo sembra dilatarsi all’infinito (vi ricordate di Kevin Durant? Sembrano passati sei secoli da quando ha giocato l’ultima volta).

 

Ma soprattutto ci sono i momenti, quelli che anche a distanza di anni resistono alla prova del tempo. I 17 punti in un quarto di Zion Williamson al suo debutto in NBA sono sicuramente un momento destinato a essere ricordato, e grazie al cielo ero sveglio per poterlo vivere in diretta.

 

 

Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).

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