L’estate del 1969 è piuttosto movimentata già per i fatti suoi, ma per i tifosi di basket segna soprattutto la fine di un’epoca: il 4 agosto Bill Russell dà l’addio alla NBA. Sono passate due settimane dalla camminata di Armstrong sulla Luna, una decina di giorni dalla condanna di Muhammad Ali; ne mancano solo cinque alla strage di Cielo Drive e undici al concerto di Woodstock.
Anche per un ragazzo di Long Island di nome Julius Erving, 19 anni, è un momento di passaggio cruciale. È l’estate in cui perde il fratello piccolo, Marvin, affetto da varie patologie croniche, un fratello a cui aveva sempre fatto da padre perché quello vero, Tonk, se n’era andato presto e poi era morto per i postumi di un incidente d’auto. È anche l’estate in cui Julius entra al college e inizia a farsi crescere l’afro che di lì a un paio d’anni raggiungerà un volume degno della capigliatura di Pam Grier in versione Black Exploitation.
Quell’estate Julius, già noto agli habitué dei playground, la passa girando per tutti i campetti di New York in cerca di nuovi cestisti da sfidare, uno contro uno o in partitelle improvvisate. Un pomeriggio si avventura fino a Riis Park, nel Queens, per stanare un ragazzo poco più grande di lui che sta trascorrendo lì gli ultimi giorni prima dell’esordio nei pro. Lo chiamano ancora Lew Alcindor, benché si sia già convertito all’Islam a UCLA. Julius si mette a bere qualcosa davanti alla recinzione, ma sul campo non c’è neanche uno che sfiori i due metri. «Ehi, dov’è il due e diciotto?» chiede a un tizio che sta aspettando il suo turno per entrare. Quello gli indica un punto in fondo alla spiaggia, dove c’è un gigante filiforme seduto su una sdraio, con un libro in mano, un paio di sandali e un dashiki giallo.
Julius si avvicina, il gigante si alza gli occhiali da sole sulla fronte, sorridendo, poi posa il libro – l’autobiografia di un discepolo di Malcolm X – e gli tende la mano. «Oggi non giochi?» gli chiede Julius, stringendola. Lew scuote la testa. Non ha niente da dimostrare. A quel punto però fanno entrambi un gesto curioso, come se l’istinto da cestisti li spingesse comunque a misurarsi in qualche modo. Allentano la stretta, ruotano i palmi e li portano a contatto.
La mano più grande è quella di Julius.
L’afro e le mani: i due segni distintivi di Julius Erving all’apice della carriera. Un afro pittoresco e due mani enormi, fuori scala. Da piccolo era impossibile trovargli un paio di guanti che gli andasse bene. Da grande era capace di raccogliere la palla da terra con una mano sola, come fosse una mela. Aveva anche due braccia lunghissime, avvitate alle spalle con un’articolazione in grado di ruotare a 360 gradi con una violenza devastante (uno dei suoi primi soprannomi era «The Claw», l’artiglio). Era dotato di un’elevazione, un’agilità e un’intelligenza cinestetica che in pochi possono vantare. Quando spiccava il volo, con le gambe ciondoloni, quasi senza peso, un ginocchio appena più avanti dell’altro, era di un’eleganza impeccabile, l’artiglio ricurvo come il collo sinuoso di un cigno nero. Ma quando puntava il ferro, divincolandosi in una selva di braccia e corpi avversari, digrignava i denti e il volto gli si trasfigurava in una maschera di guerra.
Se mettiamo insieme le sue due carriere, nella ABA e nella NBA, Julius Erving è il terzo giocatore in ordine di tempo, dopo Wilt e Kareem, ad aver raggiunto quota 30.000 punti – ed è l’unica ala piccola a esserci riuscito, oltre a LeBron James. Ha vinto quattro MVP, tre titoli marcatori, tre anelli su sei finali giocate. È stato anche il campione del primo, storico Slam Dunk Contest.
Ma Julius Erving è molto più dei trofei e dei numeri che ha messo insieme in sedici anni di professionismo. È l’uomo che ha traghettato il basket da un’era all’altra, l’anello di congiunzione tra la pallacanestro classica degli anni Sessanta e quella pirotecnica di oggi. È l’uomo che ha trasfuso la creatività e l’improvvisazione dei playground nei polverosi palazzetti della NBA, rendendo il basket cool molto prima che questo esplodesse diventando lo sport americano più seguito del pianeta. È Doctor J, o The Doctor, come lo avrete più spesso sentito nominare.
Rucker, Harlem
Quando Julius Erving approda nella famigerata American Basketball Association, la sorellastra della NBA, nel 1971, è preceduto da un dato statistico e da una serie di leggende.
Il dato: in due stagioni di basket universitario ha viaggiato a una media di 26 punti e 20 rimbalzi a partita, il terzo di sempre a realizzare una doppia-doppia del genere. Il primo? Bill Russell. (A oggi sono cinque, nessuno con la media punti di Julius). Da UMass, il piccolo college che frequenta – da cui nessun giocatore prima di allora era stato mai selezionato per i pro – si porta dietro anche un soprannome, «Doctor», merito di un compagno di squadra del liceo, Leon Saunders, che Julius a sua volta chiamava «Professor» per la sua conoscenza maniacale del regolamento. A proposito di regole, nella NCAA a quel tempo non si poteva schiacciare (la cosiddetta «Alcindor Rule»), per cui nessuno conosceva davvero le doti del ragazzo di Long Island. Qualcuno pensava perfino che fosse ebreo, perché il Boston Globe, pubblicando qualche trafiletto sulla giovane promessa, aveva sbagliato a scriverne il nome: Irving.
Le leggende: quasi tutte fiorite alla Rucker Pro League di Harlem, il torneo all’aperto più famoso di New York, cioè del mondo, dove da anni si sfidano giocatori di strada e professionisti, e se il pubblico gradisce si spengono i cronometri e si va avanti all’infinito. Julius si presenta lì nell’estate del 1971, subito accolto come una rock star. Ci sono anche Willis Reed e «Clyde» Frazier, Nate «The Skate» Archibald e Earl «The Pearl» Monroe. Gli spettatori sono ovunque: sugli spalti, alle finestre della scuola che affaccia sul playground, arrampicati sul tetto e sui cornicioni, sulle recinzioni, tra gli alberi, allineati lungo il viadotto che passa lì dietro. Le tribune pullulano di groupie, tra cui le hostess di Pan Am e Braniff (una diventa la ragazza di Julius). C’è gente che d’inverno va a vedere i Knicks, allora forse i numeri uno della NBA, e ora vuole godersi uno spettacolo perfino migliore. E fanno un chiasso pazzesco, si tolgono le magliette e le agitano per aria, entrano in campo fingendo di svenire a ogni giocata prodigiosa.
Julius ne regala più d’una, che saranno poi tramandate di padre in figlio: un giorno per poco non spezza le dita contro il ferro a Tom Hoover, vecchia gloria degli anni Sessanta; un altro schiaccia con tale violenza e così in verticale che la palla rimbalza sul cemento e ripassa dentro il canestro, privo di retina (e il pubblico grida: «Quattro punti!»); un altro ancora si batte fino al triplo overtime con Joe «The Destroyer» Hammond, selezionato al Draft dai Lakers, da lui però snobbati perché accettare un contratto di 50.000 dollari lo avrebbe costretto a rinunciare ai più lucrosi profitti come spacciatore di eroina e marijuana. In uno dei pochi filmati esistenti, girato probabilmente in 8 mm, si vede Julius schiacciare un alley-oop lanciato da Charlie Scott (suo futuro compagno nella ABA) dalla metà campo opposta. Fioccano anche i soprannomi: «Houdini», «Black Moses», «Little Hawk», piccolo falco, che allude non al rapace ma allo stile del funambolico «globetrotter» Connie Hawkins. Ma quello che gli rimane attaccato, e che la folla ripete a gran voce, è uno: Doctor J, Doctor J, Doctor J.
Gli Squires
Alla fine del secondo anno di college lo avvicina un agente, Steve Arnold, per dirgli che c’è una squadra interessata a lui: i Virginia Squires della ABA. Julius non li ha mai sentiti nominare – com’è logico, visto che hanno appena cambiato nome. Un anno prima si chiamavano Washington Caps, ma erano iscritti alla Western Conference. L’anno prima ancora erano gli Oakland Oaks e avevano sede in California. Ora si sono stabiliti a Norfolk, Virginia, ma alcune partite casalinghe le giocano a Roanoke, Richmond, Hampton Roads.
La ABA è la lega più folle d’America. Nata solo nel 1967, aveva cercato da subito di strappare talenti alla NBA o di scoprire campioni in erba, attirandoli con contratti sontuosi e una serie di idee provocatorie o semplicemente kitsch: la palla a spicchi bianchi-rossi-blu, il tiro da tre, le raccattapalle in bikini, il gioco affidato alla fantasia, dominato da guardie ed esterni, e non ingabbiato in rigidi schemi. Un basket quasi di strada, ricco di adrenalina e coup de théâtre. Il primo fuoriclasse a saltare da una lega all’altra era stato Rick Barry, dopo una stagione da record nella NBA in cui, tra le altre cose, aveva segnato 55 punti con una media di 40.8 a partita nelle Finals (numeri rispettivamente uguagliati e superati da un solo giocatore tre decenni dopo, superfluo dire chi). Barry era diventato il cestista più pagato d’America, provocando un’impennata nei salari di tutti i giocatori.
È proprio su questo che fa leva Arnold: è probabile che le due leghe tra poco si fonderanno, dice a Erving, perciò è meglio approfittare subito dei vantaggi economici dovuti alla loro rivalità. Julius si unisce al circo della ABA quando gli offrono 500.000 dollari per quattro anni e sua madre ne porta a casa ottomila. Come fa a dire di no? Ma a convincerlo sono soprattutto due figure chiave degli Squires: il coach Al Bianchi, di Long Island, un uomo schietto che aveva giocato nei Sixers con Wilt Chamberlain; e il GM Johnny «Red» Kerr, altro ex cestista d’indole sanguigna, che forse ricorderete come commentatore dei Chicago Bulls (i siparietti con Michael Jordan che gli spruzzava il talco in faccia). È Kerr a fargli la più insidiosa delle domande: cosa succede se al college ti infortuni e al Draft nessuno ti vuole più? Gli Squires, per aggiustare i conti in rosso, hanno appena ceduto ai New York Nets la loro stella, Rick Barry. E ora vogliono rifondare la squadra intorno al play Charlie Scott e a Julius.
I cinque anni che seguono sono tra i più strabilianti e irripetibili nella storia del basket. Irripetibili anche perché in larga parte irriproducibili, cioè mai registrati su nessun supporto. Si dice che il termine posterize sia stato coniato vedendo Doctor J umiliare al ferro gli avversari. Una giocata in preseason potrebbe essere l’origine del neologismo: gli Squires affrontano i Kentucky Colonels, che hanno la frontline più imponente della ABA, con il bianco Dan Issel e soprattutto il nero Artis Gilmore, 2.18 come Kareem, ma più muscolare. (Gilmore, tanto per capirci, si ritirerà una quindicina d’anni dopo con la miglior percentuale dal campo della storia, tra ABA e NBA, e una media di 3.1 stoppate, in linea con Kareem, Duncan, Ewing e Shaq. Ma nel 1971 ne stoppava 5 a partita). A un certo punto Erving entra in area da sinistra e salta a canestro, accorgendosi troppo tardi che sia Issel sia Gilmore sono saltati anche loro e gli sbarrano la strada. Ma tutt’a un tratto gli sembra che Issel scivoli giù, e poi anche Gilmore… mentre lui continua a salire, a fluttuare verso il canestro. E schiaccia in testa a entrambi. È l’epifania dell’airbreak, la sospensione in volo, il cambio di ritmo a un metro da terra. Una giocata così non si era mai vista in una lega professionistica, tranne forse in qualche lampo del grande Elgin Baylor, idolo di Julius da bambino.
In quella prima stagione Scott e Erving segnano insieme 62 punti a partita (sempre per dare un’idea, nel loro anno migliore Shaq e Kobe ne fanno 57). L’egoismo di Scott, che insiste nel prendersi trenta tiri a partita, costringe però Julius a contare soprattutto sui rimbalzi offensivi (categoria di cui è leader nella lega). Poi, a nove partite dalla fine della stagione, Scott pianta tutti in asso e fa il «salto» nella NBA, ingelosito dalla crescente popolarità di Erving. Che nei playoff sale ancora di livello, mettendo a referto 30 punti, 20 rimbalzi e 8 assist nelle prime due partite, per poi segnarne 54 nella terza (un record ABA mai più superato) con 27 rimbalzi. Ma nelle semifinali con i Nets, dopo un’estenuante serie di sette partite, gli Squires vengono eliminati negli ultimi secondi da una bomba da tre dell’ex Barry.
L’estate del 1972 è un tale groviglio legale-contrattuale da non sfigurare nemmeno accanto all’ultimo ballo dei Bulls. Alla Rucker Julius aveva fatto amicizia con Frazier dei Knicks, che oltre a introdurlo ai vestiti pacchiani e ai diamanti, gli aveva presentato l’agente Irwin Weiner. Weiner spiega a Julius che Arnold l’ha fregato, perché era in conflitto di interessi quando negoziava il suo contratto nella doppia veste di agente (di Julius) e dirigente (degli Squires). E lo convince a ribellarsi. Gli procura subito un contratto con gli Atlanta Hawks della NBA: 250.000 dollari di bonus firma più 200.000 all’anno con ritocchi progressivi, più un appartamento a Atlanta e una Jaguar nuova di zecca. Ma l’aspetto più interessante è la prospettiva di giocare con «Pistol» Pete Maravich. Per sottrarsi a una ritorsione degli Squires, Erving attraversa così i confini di Stato e si stabilisce in Georgia.
Ma ecco che accade l’imprevisto: quell’anno sarebbe eleggibile per il Draft NBA. Gli Hawks, avendo già il contratto in cassaforte, aspettano il secondo giro per formalizzare il tutto. I Milwaukee Bucks invece hanno due scelte al primo giro e ne spendono una per lui. E Julius si ritrova sotto contratto per due squadre in due leghe diverse, mentre una terza – Milwaukee – ne detiene legalmente il «cartellino» NBA. In Wisconsin, ovviamente, ci sono già Kareem e Oscar Robertson: con Doc sarebbe un trio leggendario, da quattro-cinque titoli di fila assicurati, malgrado The Big O non sia più un ragazzino.
Nel frattempo Weiner ha avviato un procedimento legale a New York per terminare il contratto con gli Squires, a cui chiede un risarcimento di 300.000 dollari di mancati guadagni in virtù del comportamento scorretto di Arnold. Purtroppo, mentre la coppia Erving-Maravich fa scintille in preseason lasciando intuire una stagione da sogno, la NBA multa Atlanta di 25.000 dollari per ogni partita in cui schierano Erving (il che innescherà una mega-causa degli Hawks contro la lega per violazione dello Sherman Antitrust Act). Nel frattempo, il tribunale di New York – con un arbitrato affidato all’avvocato Archibald Cox, di lì a poco pubblico ministero nel caso Watergate – stabilisce invece che Erving è di proprietà degli Squires.
New York
Il pasticcio si sbroglierà solo un anno dopo con un accordo complicatissimo, fino allora senza precedenti, che coinvolge quattro squadre e due leghe, orchestrato ancora una volta dall’abile Weiner: Julius dopo un anno passerà ai Nets, che nel frattempo hanno ceduto Barry, «saltato» di nuovo nella NBA; come indennizzo per la perdita di Doc i Nets pagheranno mezzo milione agli Hawks, che per lo stesso motivo ne gireranno metà ai Bucks, insieme a due scelte al Draft; i Nets verseranno poi un milione agli Squires, sommersi dai debiti (in parte dovuti alle spese legali dell’estate precedente), firmando con Erving un accordo quinquennale da due milioni di dollari.
Il resto è storia, sempre orale o scritta, ma con pochi documenti video. Tornato in Virginia, Erving gioca una seconda stagione in cui guida la lega con 32 punti a partita, e intanto fa da mentore a un altro rookie di belle speranze, George Gervin, espulso dal college per una rissa e riacciuffato a un passo dal baratro dai geniali talent scout degli Squires. L’anno dopo, finalmente, si trasferisce a New York. E lì, al Nassau Coliseum di Long Island, vicinissimo a casa sua, con la maglia stellata dei Nets, il numero 27, l’Afro, il pizzetto da Pantera Nera, Erving si aggiudicherà tre MVP consecutivi, trascinando la squadra a due titoli ABA, conditi da altri due titoli dei punti e due MVP dei playoff (nella ABA non c’è il premio per le Finals, ma fa lo stesso). Chi ha avuto la fortuna di essere sugli spalti e lo ha visto giocare di persona può dire di aver assistito alla nascita del basket moderno. O contemporaneo. O anche del futuro – perché, come dice Magic Johnson, «Doc faceva delle cose che non riescono a fare nemmeno i giocatori di oggi». Con una leggerezza e una semplicità a dir poco stupefacenti.
L’anello del 1974 Julius lo vince con l’aiuto di Wendell Ladner, un’ala che da avversario non aveva fatto altro che riempirlo di botte e che ora invece diventa il suo miglior amico, il suo «scudo», come più tardi sarà – all’ennesima potenza – Moses Malone. Ladner, un bel tipo che va in giro con un paio di baffoni, cappello e stivali da cowboy, è noto per essere un inguaribile playboy (forse per una marcata somiglianza con Burt Reynolds) e un difensore tostissimo. Quasi in ogni partita finisce sugli spalti per recuperare una palla vagante, e spesso si appiccica con gli avversari già nel tunnel che porta al campo. È il leader della lega in espulsioni e risse provocate.
Ma Wendell muore in un incidente aereo a soli 26 anni, nel 1975, e il titolo del ’76 Doc dovrà vincerlo quasi da solo, battendo in sette partite gli agguerriti San Antonio Spurs del suo ex pupillo Gervin e poi i Denver Nuggets dell’astro nascente David «Skywalker» Thompson nelle Finals – in cui, marcato da Bobby Jones, uno dei migliori difensori di sempre, Doc fa segnare 37.7 punti, 14.2 rimbalzi e 5.3 assist a partita, con 45 punti e un tiro vincente dall’angolo sulla sirena in gara-1. Tutto questo mentre la ABA sta letteralmente colando a picco, come il Titanic dopo l’urto con l’iceberg, privata com’è dei diritti tv e delle platee delle grandi città.
Per provare a salvarla, i dirigenti organizzano nel 1976 il primo Slam Dunk Contest della storia, che poi dagli anni Ottanta diventerà un appuntamento fisso per i fan della NBA. A sfidarsi la stella e i due enfant prodige della lega: Erving, Gervin e Thompson. Vincerà, naturalmente, Doctor J, con una schiacciata monstre dalla linea del tiro libero, fatta quasi per scherzo, anzi per scommessa. Prima di allora si diceva che ci fosse riuscito solo «Jumping» Jackie Jackson, leggenda della Rucker e degli Harlem Globetrotters, ma nessuno ci aveva mai provato su un palcoscenico ufficiale. È la stessa schiacciata, ormai divenuta un simbolo, che sarà replicata con qualche variante d’autore da Jordan un decennio dopo, un omaggio esplicito al suo idolo seduto in tribuna – Doctor J, «the guy who started it all», l’uomo da cui tutto è cominciato, come avrebbe dichiarato lo stesso MJ ai microfoni.
«Doctor J è la ABA», titolano i giornali, benché lui con umiltà si dissoci. Altri scrivono che la NBA non potrà mai dire di avere il basket migliore finché non avrà Doctor J. Il che puntualmente accade nell’estate del ’76, quando avviene infine la famosa fusione – il merger – che molti attribuiscono proprio al desiderio della lega maggiore, la NBA, di avere nelle sue file l’artista del parquet.
Philadelphia
Le stagioni di Erving nella NBA – soprattutto i primi anni Ottanta – sono forse quelle che molti ricordano meglio, grazie anche all’ausilio delle immagini televisive, un po’ vintage ma sempre godibili. Sono gli anni in cui il basket americano si scrolla di dosso i fantasmi del passato, le polemiche sulla droga, le risse, le scommesse, gli stipendi, le quote di afroamericani, e comincia a essere seguita da milioni di appassionati. Sono gli anni in cui Sixers – a cui Erving è stato ceduto dai Nets, sull’orlo del collasso con i soldi che devono alla lega e ai Knicks dopo la fusione – danno vita a una doppia rivalità incandescente: da un lato con i Boston Celtics di Larry Bird, affrontati in tre memorabili finali di Conference consecutive (1980-81-82), di cui due decise in gara-7 a Boston; dall’altro con i Los Angeles Lakers di Kareem e Magic, incrociati nelle Finals per tre volte nel giro di quattro stagioni (1980, 1982, 1983).
È una sequenza ininterrotta di momenti esaltanti, ormai entrati nella storia. Come la battaglia per il titolo del 1980, quando nella sfida a lungo rimandata tra Julius e Kareem si inserisce a sorpresa, in modo sensazionale, il giovanissimo Magic, che solo un anno prima era andato a bussare alla porta di Erving in cerca di consigli. O come l’ormai classica baseline move di Erving, in gara 4 di quella stessa serie: un volo sotto il tabellone per aggirare il «muro» di Jabbar e Landsberger, concluso con un lay-up impossibile, tutto di polso e dita. O come la windmill dunk sulla testa di Michael Cooper, impressionante per fluidità e coordinazione, da molti considerata la più bella schiacciata di tutti i tempi, con cui i Sixers detronizzano moralmente i Lakers prima ancora di spazzarli via nelle Finals. O come la clamorosa scazzottata con Bird, con cui possiamo datare l’inizio del rapido declino di Doctor J.
C’è una foto che illustra bene, meglio di qualsiasi racconto, il senso di quegli anni. È stata scattata il 23 maggio 1982, non in una partita qualunque ma nel quarto quarto di gara-7 delle finali della Eastern Conference, al vecchio Boston Garden. La foto ritrae Erving, 2.01, di spalle, in aria, con i capelli corti e la maglia rossa di Philadelphia, pronto a inchiodare una schiacciata sopra le braccia protese di Larry Bird, 2.06, e Kevin McHale, 2.10, seminascosto dagli altri due. Da sotto guarda l’azione, impotente, il rookie Danny Ainge. La punta delle Converse di Erving è più su delle caviglie di Bird, tale è la differenza di elevazione. McHale è perfino più in basso del compagno. Sembra invece che Erving stia ancora salendo, che abbia ancora mezzo secondo e un paio di centimetri di autonomia. È un’immagine che la dice lunga sulle capacità atletiche di Erving, a trentadue anni e mezzo. I Celtics non possono che fargli fallo.
Quella sera i Sixers, che hanno appena dilapidato un vantaggio di 3-1 nella serie, sono dati per spacciati. Alla vigilia, il coach Billy Cunningham (ex bandiera di Philly, a cui aveva regalato l’anello del ’67 insieme a Chamberlain) e il suo vice Chuck Daly (futuro allenatore dei Pistons e del Dream Team) lasciano i giocatori da soli a parlare nello spogliatoio. Ne esce fuori un motto, una frase motivazionale, che in italiano suonerebbe: «Dipende solo da noi». In inglese: «It’s just us». Just us, dice Clint Richardson, uno dei giovani del gruppo. Just us, ripete convinto Erving, il capitano. E tutti gli altri si accodano. A quel punto interviene Darryl Dawkins, un centro che sarebbe potuto diventare un piccolo Shaq, se fosse stato più maturo e meno incline all’abuso di stupefacenti. «Yeah, justice!» dice Dawkins. «No, j-u-s-t u-s» gli spiegano i compagni. «Yeah, justice!» ripete lui. Un gioco di parole involontario che richiama uno slogan antirazzista, ma che quel giorno diventa la formula magica per giocare la partita perfetta: i Sixers espugnano il Garden e colgono una vittoria che per Erving sarà sempre più dolce perfino del titolo del 1983, conquistato in coppia con lo straripante Moses Malone.
Se la guardate bene, però, quella foto con Bird e McHale, vi accorgerete anche che le gambe di Erving sono fasciate da due vistosi tutori. Necessari per proteggergli le ginocchia, acciaccate dopo tanti infortuni (il primo da bambino, sotto casa, quando si era rotto i legamenti) e affaticate da un problema ricorrente all’inguine che lo costringe a poco a poco a modificare la postura. Un problema che nell’estate del 1979 lo aveva portato sull’orlo del ritiro, perché non riusciva quasi più nemmeno a camminare, prima di intraprendere un lungo e doloroso percorso di riabilitazione. Ma l’esplosività, la rapidità nei cambi di direzione, nelle finte, nelle giravolte, non sarebbe più stata quella di prima.
Tutto questo per dire che si dimentica spesso che Erving arriva a Philadelphia a quasi 27 anni, e che ha ormai passato i trenta quando duella con Bird e Magic, di una generazione più giovani. Eppure, nel 1981, beneficiando anche di alcune trade azzeccate che gli levano un po’ di intralci dalla squadra, riesce a tirare fuori l’ennesima stagione da maestro e a portarsi a casa il titolo di MVP della lega. È la prima volta in diciassette anni, e la terza in assoluto, che il premio non viene assegnato a un centro. Da lì in avanti – da Julius in poi – il rapporto si inverte: nei dieci anni successivi solo due volte un centro avrebbe ricevuto l’MVP, e la tendenza non farà che accentuarsi negli anni a venire - basta sfogliare l’albo d’oro di inizio millennio. Erving è la prima ala piccola ad aver vinto l’MVP nella NBA (dopo di lui Bird, LeBron e Durant).
Ecco perché, nel secondo episodio di The Last Dance, Scottie Pippen dichiara: «Doctor J era l’eroe della mia infanzia. Volevo solo giocare e schiacciare come lui». Julius Erving ha creato un immaginario che persiste ancora oggi, e se la NBA è diventata quello che è diventata, lo deve anche alla sua figura diventata immortale.