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Daniele Vallotto

Djokovic ha perso?!

È bastato Querrey a distruggere i sogni di Calendar Grand Slam del serbo.

 

 

Ventiquattro anni fa Jim Courier, numero uno del mondo, scendeva in campo di sabato per il suo incontro di terzo turno di Wimbledon contro Andrei Olhovskyi. Courier era un tennista americano atipico, perché sulla terra rossa si trovava più che bene, mentre sull’erba il suo gioco paziente e ragionato diventava meno efficace. Quell’anno però aveva un motivo in più per far bene a Londra: avendo vinto sia agli Australian Open che al Roland Garros, lo statunitense era ancora in corsa per il Grande Slam. Per dare l’idea della difficoltà di vincere Australian Open e Roland Garros nello stesso anno basti pensare che né Sampras, né Federer, né Nadal ci sono mai riusciti in carriera – per motivi molto diversi, certo. Novak Djokovic c’è riuscito quest’anno con Nadal e Federer ben lontani dal loro zenit. Eppure, proprio come Courier nel 1992, Djokovic non giocherà nella seconda settimana di Wimbledon. Ad Olhovskyi, dopo la clamorosa vittoria contro Courier, chiesero come aveva fatto a batterlo. «Non lo so», disse candidamente il russo.

 

È bastato un poco di Querrey
Presentando il torneo avevamo detto che per battere Djokovic a Wimbledon serviva il match perfetto al servizio e che forse nemmeno quello sarebbe bastato. Avevamo anche detto, però, che il serbo arrivava scarico mentalmente dopo la vittoria di Parigi e che stavolta non avrebbe trovato la chiave per rimontare l’Anderson di turno. Sembra un paradosso, ma le dolorose sconfitte nelle finali di Parigi del 2014 e del 2015 hanno aiutato Djokovic a giocare lo Slam londinese senza cali di tensione nervosa. La vittoria del Roland Garros di quest’anno, al contrario, ha spazzato le tante nubi che hanno affollato la testa di Djokovic negli ultimi anni ma al tempo stesso hanno fatto abbassare il livello di guardia: più che normale, quando si è abituati a vincere sempre, anche quando il gioco non va.

 

Pensavamo però che sarebbero serviti almeno il talento e l’audiacia di un Kyrgios o di un Tomic, invece è bastato addirittura il servizio di Sam Querrey, la prima testa di serie incontrata da Novak in questo Slam. Querrey è un giocatore che rappresenta alla perfezione la stagnazione che ha prodotto il disastro degli ultimi anni della scuola statunitense: giocatori quasi tutti uguali che servono molto bene, tirano molto forte di dritto mentre sul rovescio sono particolarmente deboli. Se John Isner è riuscito tutto sommato a ritagliarsi un po’ di spazio tra i grandi, arrivando in top 10 e giocandosi un paio di finali Masters 1000, Querrey è sempre stato considerato come la sua brutta copia, anche perché Sam si muove ancora peggio di John, pur essendo meno alto, e ha delle lacune evidenti dalla parte del rovescio.

 

A singhiozzo
La pioggia, una costante della settimana, ha spezzato la partita in due giorni e addirittura in cinque sessioni. Al venerdì Djokovic era sotto due set a zero, ma il 6-3 inflitto a Querrey al ritorno in campo, di sabato e con un sole di passaggio, lasciava intendere che lo statunitense fosse spacciato, in una riedizione paradossale della partita vinta in due atti lo scorso anno contro Kevin Anderson.

 

Come lo scorso anno il serbo si era ripresentato in campo concentrato, mettendo a nudo i difetti di un avversario senza la tecnica adatta per reggere il ritmo degli scambi da fondocampo: debolissimo sul lato del rovescio, tenuto in partita solo da un servizio devastante. L’ultima interruzione per la pioggia, quella che forse va interpretata come un segnale, ha però finito per favorire Querrey. Nel quarto set Djokovic ha servito per portare il match al quinto ma sul 5 a 4 ha perso in maniera incredibile un game giocato molto male, suggellato da una volée non degna di un campione di Wimbledon. Querrey è tornato in partita, ha allungato sul 6 a 5 e poi ha iniziato a piovere di nuovo. A questo punto i giocatori sono rientrati negli spogliatoi e le telecamere indugiavano su Djokovic che si sbracciava, aiutandosi con la racchetta, per fare cenno a Becker di raggiungerlo nella locker room. Il numero 1 del mondo stava chiedendo aiuto, disperatamente. Querrey, che lo seguiva, deve aver preso ancora più coraggio.

 

I due sono tornati in campo dopo un’ora. Djokovic teneva la battuta agevolmente e riusciva ad arrivare sul 6-6 del quarto set. I minibreak di vantaggio nel tie-break, prima l’1-o, poi sul 3-1, sembravano il preludio alla fine dei patemi serbi. Invece Djokovic prima ha perso un punto lungo, uno dei pochi della partita che sono andati a favore di Querrey, e poi ha commesso degli errori banali col rovescio. Al secondo match point è stato un altro errore del serbo, stavolta col dritto, a far diventare Sam The Man l’epigono di Roberta Vinci, che agli scorsi US Open aveva fermato la corsa di Serena Williams verso il Grande Slam.

 

 

Perché Djokovic ha perso
Querrey non è certo diventato improvvisamente un giocatore capace di battere i più forti, così come Olhovskyi non divenne tutto d’un tratto un fenomeno – e infatti, dopo aver battuto Courier a Wimbledon, non era riuscito più a battere neanche un top 10 nel resto della sua carriera. Sam ha fatto bene quello che fa di solito: tirare tanti ace, spesso al centro, chiudere qualche dritto, e sbagliare quasi tutto con il rovescio. Più che per merito di Querrey, insomma, è successo che la solidità mentale di Djokovic si è sgretolata, minata da tanti pensieri. E la tranquillità mentale è da sempre il presupposto, il cardine del suo gioco. Non si spiegherebbero altrimenti dei banali errori con il rovescio o con il dritto in fasi di punteggio delicate, o quelle volée affossate ancora più del solito, e quei back di rovescio insicuri e innocui anche per uno come Querrey.

 

È stata paradossalmente la poca caratura dell’avversario ad aumentare le difficoltà di Nole. Ci fossero stati Federer o Murray dall’altra parte, Djokovic avrebbe sicuramente giocato con un livello di attenzione più alto, evitando errori e sbavature che avrebbero un peso specifico teorico diverso. Invece contro Querrey, un tennista che aveva battuto 8 volte nei 9 match giocati prima di ieri, le sue certezze sono diventate presto insicurezze. Al Roland Garros il serbo ha dato spesso l’impressione di voler apparire disinvolto, quando invece era evidente che il tarlo dell’unico Slam che gli mancava lo stava consumando. Evidentemente le ansie di Djokovic non sono sparite dopo aver vinto il Roland Garros: hanno solo cambiato colore, dal rosso parigino al verde londinese. E Djokovic, questa volta, quelle ansie non le ha sapute gestire. Querrey, dal canto suo, è stato più che bravo ad approfittarne e a guadagnarsi il suo posto nella storia (e pazienza per Marcus Willis che voleva essere ricordato come il miglior attore non protagonista di questo Wimbledon 2016).

 

Col senno del poi, si può dire che a Djokovic avrebbe fatto bene a giocare almeno un torneo prima di Wimbledon, cercando magari di incappare in una sconfitta salutare, come quella con Jiri Vesely a Montecarlo. Non tanto appunto per una questione di confidenza con la superficie, visto che Nole ha già vinto a Londra senza giocare tornei di preparazione, quanto per la possibilità di un reset mentale. Il serbo aveva bisogno di perdere una partita per ritrovare voglia e motivazioni. Invece è arrivato Wimbledon forte del risultato di Parigi, la sua ultima partita giocata in poco meno di un mese, e le scorie di una vittoria a volte possono essere peggiori di quelle di una sconfitta.

 


56 vincenti, di cui 31 ace.

 

Un altro Djokovic

A fine partita Querrey si è dimostrato particolarmente rilassato e ha confermato che i tennisti danno molta meno importanza al tabellone di quanto facciano i giornalisti e i tifosi: «Non so nemmeno con chi giocherò al prossimo turno». In effetti, quando sul tabellone leggi di essere finito dalle parti di Djokovic, viene anche naturale non preoccuparsi del futuro. Querrey, tra l’altro, è un miracolato del primo turno, dato che all’esordio si trovava sotto di due set contro Lukas Rosol. La rimonta che è riuscita allo statunitense non è riuscita a Djokovic, anche se tutto faceva pensare che sarebbe successo esattamente quello che era avvenuto dodici mesi fa. Sotto di due set anche con Kevin Anderson il serbo era riuscito a pareggiare il conto prima che il buio costringesse il giudice di sedia a rimandare la partita al giorno dopo.

 

Anderson quel giorno giocò una partita ai limiti della perfezione, eppure perse al quinto set con qualche recriminazione, come un paio di palle break che forse avrebbero potuto cambiare il corso di quell’ultimo set. La differenza con la partita di oggi sta tutta nelle diverse prestazioni di Djokovic. Contro Anderson, il serbo non concesse più nulla al suo avversario negli ultimi tre set, soprattutto nei rari momenti delicati della partita. Contro Querrey, Novak ha giocato incredibilmente male, peggiorando proprio quando i punti pesavano di più, un fatto decisamente insolito per lui. Ha dovuto aspettare la dodicesima palla break prima di vincere un game in risposta nel quarto set, poi quando sembrava che la strada fosse finalmente in discesa ha combinato un disastro dietro l’altro, restituendo il break. A quel punto poteva succedere di tutto: negli ultimi dodici mesi è successo che Djokovic riusciva a vincere lo stesso, questa volta ha vinto il suo avversario. Prima o poi doveva capitare.

 

La sconfitta di ieri di Novak Djokovic è ancora più sorprendente di quella di Courier, anche se Jim giocava contro un qualificato russo che era allora al numero 193 del mondo perché Djokovic è un tennista di ben altro spesso spessore. Non solo ha vinto le ultime due edizioni di Wimbledon, ma è anche il campione in carica degli ultimi quattro Slam, una cosa che non capitava da cinquant’anni. Olhovskiy, poi, era un tennista molto bravo sull’erba. Querrey, invece, non si può certo definire uno specialista. Senza considerare che se una volta era abbastanza normale che i più forti perdessero nei primi turni, con l’iperprofessionismo di oggi bisogna tornare al Roland Garros 2004, dodici anni fa, per trovare il numero 1, Federer, eliminati prima della seconda settimana di uno Slam.

 

 

Il futuro
Djokovic, tra il 2015 e i primi sei mesi di quest’anno, ha vinto un numero impressionante di partite, eppure il suo gioco non è sempre stato brillante. Tra le sue peggiori prestazioni ci sono quella agli ottavi con Simon agli Australian Open, quando commise addirittura 100 errori non forzati, e quella con Thiem a Indian Wells, con l’austriaco incapace di approfittare delle tantissime chance concesse dal numero 1 del mondo. Eppure, in un modo o nell’altro, Djokovic è riuscito a vincere 108 partite e a perderne appena 10, accumulando uno score pugilistico. La decima, però, è anche la più amara, perché interrompe una striscia di 30 vittorie consecutive negli Slam e, soprattutto, rimanda di un altro anno la caccia al Calendar Grand Slam, avvenuto solo una volta in Era Open (nel 1969, quando ci riuscì Rod Laver).

 

Sarebbe davvero ingenuo pensare che il regno di Djokovic sia prossimo alla caduta, anche perché sono proprio queste sconfitte pesanti che rianimano il sacro fuoco della pazzia competitiva che brucia dentro Djokovic.  Il serbo non è mai riuscito a dominare per tanto tempo il circuito come è riuscito a fare Federer, ma ciò non toglie che Novak sia quasi sempre riuscito a rimanere in vetta alla classifica. Nell’anno successivo al 2011, la sua prima stagione da dominatore, vinse un solo Slam, eppure perse la prima posizione per una manciata di settimane. Dopo la parentesi concessa a Nadal, che nel 2013 si è ripreso il numero 1, Djokovic è tornato saldamente in testa alla classifica senza più scendere ma nel 2014, per dire, ha vinto uno solo Slam. Le sconfitte salutari, in fondo, hanno sempre fatto parte della sua carriera.

 

Non si può però ignorare un dato fondamentale: Djokovic ha compiuto poche settimane fa 29 anni e la lista dei tennisti che hanno smesso di vincere alla soglia dei 30 anni è molto più lunga di quella dei tennisti che hanno continuato a vincere. Roger Federer, il più vincente di sempre, ha vinto appena uno Slam dopo i 29 anni; Sampras ne vinse uno, quando ormai nessuno ci scommetteva più; Nadal ha vinto l’ultimo due anni fa, quando aveva 28 anni, e oggi sono in pochi a credere che riuscirà ad aggiungerne altri alla collezione. Insomma, per chi ha l’ambizione di diventare il migliore di sempre nulla è precluso, ma Djokovic dovrà andare non solo oltre sé stesso, ma anche oltre la storia. Dopo una sconfitta così umana, però, sembra che questo carico sia davvero troppo pesante, anche per le forti spalle del serbo.

 

 

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Daniele Vallotto è nato a Padova, poi ha vissuto a Roma e ha finito per trasferirsi a Berlino. Gioca malissimo a tennis e pertanto ne scrive diffusamente. Scrive su Tennispotting.