Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Simone Conte e Daniele Manusia
Diario Italia: vs Svizzera
16 giu 2021
16 giu 2021
È successo molto in questi ultimi quattro giorni, ma l'attesa di vedere la Nazionale di Mancini è rimasta intatta.
(di)
Simone Conte e Daniele Manusia
(foto)
Dark mode
(ON)

Venerdì scorso, alla fine, ha piovuto, ma il cielo di Roma ha fatto in tempo a riaprirsi prima che l’Italia iniziasse a giocare. Ho visto la partita in una piazza pubblica, in un maxischermo a Talenti, zona periferica di Roma nord non lontana da quella dove sono cresciuto. Mentre guidavo nel traffico mi guardavo intorno e pensavo: qui abitava quel mio compagno di classe; qui andavo a prendere la pizza a notte fonda, quando prima che chiudessero mi regalavano la pizza rimasta; qui abitava mio padre dopo il divorzio. Ero in uno stato emotivo particolare, al tempo stesso nostalgico e pieno di aspettative. Vedere la partita in mezzo a degli sconosciuti mi è mancato, e forse è mancato anche a tutti gli altri a giudicare dall’atmosfera sinceramente entusiasta e divertita. Nelle prime file ragazzi tifosi della Lazio gridavano «Vai Cirooo» appena toccava palla Immobile, mentre quelli romanisti ogni volta che Immobile toccava palla senza segnare li provocavano: «Fai entrare il Gallo!». Tutti insieme avranno chiesto quattro o cinque rigori solo nel primo tempo e invocavano come una forza mistica il «tiro a giro» di Insigne. Quando la regia inquadrava Mancini partiva il coro: «Sei bellissimooooo». C’era… leggerezza?


 

Sembra strano dirlo dopo un anno del genere, ma credo si trattasse proprio di quello. Oltretutto, per una volta, ero in sintonia con il contesto intorno a me: con quella strana nostalgia per Italia ‘90 (l’ultimo torneo internazionale giocato a Roma, prima di questa parte di Europeo) accompagnata dalla voglia di veder giocare un’Italia giovane, e tanto per cambiare divertente. Lo ha notato persino Rory Smith, che sul New York Times ha scritto che «per la prima volta dopo tanto tempo, il Paese sembra in grado di guardare alla propria storia con leggerezza». Anche tutto il resto è andato bene, cioè, intendo in campo. È stata la solita Italia di Mancini, a cui forse ci siamo abituati troppo presto, che domina anche avversari forti fisicamente come la Turchia con e senza palla, che cerca di aprire spazi anche nelle difese chiuse, come quella turca, con pazienza, che resta alta sul campo soffocando sul nascere le ripartenze avversarie. Ma è anche una squadra concentrata, per niente superficiale, che se perde palla in modo ingenuo sulla trequarti avversaria – come è capitato a Insigne nel secondo tempo, quando ha lanciato verso la porta Under – insegue l’avversario fino all’ultimo metro. Il 3-0 finale è sembrato persino troppo facile, demerito loro o è l’Italia che li ha fatti giocare così male?


 



Sabato, poi, è stata una bellissima giornata. La mattina ho portato mia figlia al parco di Piazza Vittorio, una zona dove ho abituato pochi anni fa. Mentre mia figlia di due anni saltava piano in tappeti elastici in cima a delle piccole collinette vulcaniche, mi è tornato in mente quando, prima che lo ristrutturassero, in quel parco ho visto il corpo di un ragazzo morto per overdose. Indossava un maglia da calcio nera, con un numero 3 sul petto, piccolo e bianco come un fiore spuntato mentre se ne stava là, steso a terra. Mia figlia si è bagnata alla fontanella, l’abbiamo cambiata. Poi ha mangiato per la prima volta in vita sua cibo cinese. Poi si è addormentata protestando e quando si è svegliata era già pomeriggio e sua madre e suo padre si sentivano troppo stanchi per uscire di nuovo. Mentre guardavo le partite sul divano – Galles e Svizzera mi sono sembrate poca cosa, ma dopo ne parlo meglio – mia figlia saliva e scendeva dal divano, mi portava dei libri da leggere, che io sfogliavo citando a memoria, senza distogliere lo sguardo dalla partita, delle macchinine, dei camion. Poi mentre guardavo distrattamente Danimarca-Finlandia mi sono accorto che c’era un giocatore a terra. Per uno scontro di gioco, pensavo. Avrà preso una botta in testa, pensavo, sarà andato KO e adesso si riprende, pensavo. Non ci ho fatto troppo caso a dir la verità, finché non ho visto le dita intrecciate delle mani del dottore premere ritmicamente sullo sterno di Eriksen. A quel punto sono scattato in piedi e ho tolto il computer dalla portata di mia figlia, come se dentro ci fosse qualcosa che potesse risucchiarla.


 

Lì per lì non c’era più nessun Europeo. Non c’era l’Italia, non c’era la Danimarca, non c’era il Belgio che avrebbe dovuto giocare poche ore dopo. Sono stati minuti terribili, in cui il gioco vedo/non vedo della regia internazionale amplificava l’angoscia. Quando dopo aver staccato sulle facce dei tifosi tornavano all’inquadratura larga il mio sguardo filtrava tra le gambe dei compagni di Eriksen che provavano a schermarlo, e quando vedevo che stavano ancora applicando il massaggio cardiaco sentivo il mio, di cuore, rimpicciolirsi, diventare della dimensione di un nocciolo di pesca, al punto che temevo di poterlo ingoiare. Non avevo mai visto un defibrillatore utilizzato su una persona vera, solo nei film e nelle serie. Ho pensato a mio padre, morto per un arresto cardiaco, rianimato, poi morto definitivamente, il tutto nella segretezza di un ambulanza, lontano dal mio sguardo. Se mi avessero dato la possibilità avrei voluto vederlo in quei momenti? Qui non potevo farci niente, i miei occhi cercavano le immagini in cerca di informazioni, volevo sapere se ce l’aveva fatta, ma non avevano scelta, vedevano quello che avevano davanti. Ho pensato a Eriksen, a tutte le volte che l'ho visto giocare, a quello che di lui mi è arrivato vedendolo giocare. Ho pensato al secondo marito di mia madre, che per me è un secondo padre, che ha avuto un piccolo infarto un mese fa, hanno chiamato l’ambulanza nel cuore della notte e per fortuna lo hanno preso in tempo, come si dice in questi casi. Ho pensato che vedere un uomo che muore è vedere tutti gli uomini che muoiono.


 

Sono riuscito a non piangere fino a quando è iniziata a circolare la foto di Eriksen con gli occhi aperti. A quel punto mia figlia era già nella vasca con la madre per il bagnetto serale, ho avuto il tempo di riprendermi poi le ho asciugato i capelli, le ho messo il pigiama e le ho letto un paio di storie prima di portarla a letto. Poi ho pianto di nuovo, sollevato e disperato al tempo stesso, perché quel pomeriggio sereno si era trasformato in qualcosa di troppo forte.


 




Insomma, la leggerezza ritrovata è andata perduta improvvisamente. Anche se quello che abbiamo vissuto resterà impresso nella nostra memoria per

è avvenuto, il senso che gli dà la fine – Eriksen, dopotutto, è vivo – cambia totalmente: abbiamo testimoniato uno dei momenti più drammatici della storia delle competizioni internazionali, Mondiali, Europei, Copa America, ma anche a un miracolo medico, al coraggio e alla perizia dei suoi soccorritori, alla solidarietà della sua squadra, alla fermezza di Kjaer e Schmeichel, soprattutto, alla forza di chissà quante migliaia di persone tutte insieme che sperano in una cosa e una cosa sola. In fin dei conti, abbiamo testimoniato del valore che ha per ognuno di noi una singola vita umana. Chissà, magari aiuterà qualcuno ad essere meno cinico in futuro.



 

Nel frattempo, la UEFA ha mandato avanti la macchina organizzativa, costringendo la Danimarca a scegliere se giocare quello stesso giorno (è stato francamente assurdo) o il giorno dopo a mezzogiorno (lo sarebbe stato lo stesso). Quella sera io non ho guardato con la coda dell’occhio Belgio-Russia, avevo bisogno di fare altro, e posso dire di essere tornato in “clima Europeo” solamente tra lunedì e martedì.


 

In tempo in tempo per l’Italia, quindi.


 



Mi sembra passata una vita da quando l’Italia ha battuto la Turchia. Devo fare uno sforzo per ricordarmi chi mi ha colpito, a chi affido le mie speranze di andare il più avanti possibile – a Jorginho, le affido a Jorginho. L’inviato a Roma del Guardian, Jonathan Liew, ha descritto la vittoria dell’Italia come «una vivida dimostrazione calcio offensivo brillante e paziente: una performance che è anche una dichiarazione d’intenti, che inserisce la squadra di Mancini tra le favorite del torneo». In Italia, invece, siamo più guardinghi. Sempre pronti a pensare che le cose possano finire male – retaggio dello stoicismo, forse, e della visualizzazione negativa che aiuta ad abbassare le aspettative per non avere delusioni, per apprezzare quello che già si ha – sui giornali italiani si parla dello spettro della seconda partita, si ricorda che l’ultima volta che l’Italia ha battuto la Svizzera è stato 18 anni fa e che la Nazionale di Sacchi, nel ‘90, con Mancini in campo, ci perse 1-0. Sulla Gazzetta dice di sentirsi come al secondo appuntamento dopo aver avuto un colpo di fulmine la notte prima in discoteca (bei tempi quelli in cui si poteva ballare): «alla luce del sole sarà ancora tutto così perfetto?». Sulla Repubblica, Bocca agita lo spauracchio del turn-over: «Non è che Mancini vuole dimostrare che l’Italia è soprattutto lui e cambia tutto?».


 

Adesso, pare che Mancini cambierà solo Florenzi, infortunato, con Toloi o Di Lorenzo, a seconda di quanto vorrà essere offensivo, ma la forza di questa squadra sta proprio (anche) nel fatto che in questi pur avendo cambiato molto l’identità di squadra è rimasta la stessa. Mancini ha fatto esordire 35 giocatori in 3 anni e se adesso abbiamo gli occhi pieni di Berardi dovremmo ricordare che fino a non molto tempo fa non era tra i titolari. E magari non lo sarà alla fine del torneo, perché sette partite – in un contesto in cui non ripeteremo mai abbastanza che i calciatori giocano troppo partite – sono troppe per pretendere che Berardi, o l’Italia, restino identici. Anche perché il nostro gioco, a differenza di quello della Francia o del Portogallo, per fare due esempi di squadre che controllano la partita vincendo duelli individuali, deve restare brillante collettivamente. Lo ha detto Mancini, ieri: «La nostra è una squadra di tutti titolari». Si direbbe una lezione troppo difficile da imparare, che non basti quello che ha dimostrato questa Italia, che non è soprattutto di Mancini né soprattutto di un giocatore in particolare. La profondità della rosa è una delle nostre forze e avremmo dovuto capirlo quando la palla decisiva per il primo gol è uscita dai piedi di Manuel Locatelli, che ha tagliato il campo in diagonale da sinistra al centro trovando Barella tra le linee, e che non avrebbe giocato se Verratti non avesse avuto problemi fisici.


 

Il che non significa che prendendo altri undici giocatori a caso il risultato sarebbe lo stesso, ma questo non è vero per nessuna squadra che giochi in maniera organizzata come l’Italia, nazionale o club che sia. Allo stesso modo non tutte le partite di un Europeo sono importanti allo stesso modo e questa con la Svizzera, grazie anche alla vittoria con la Turchia, potrebbe essere una delle meno importanti di tutto il percorso. Non so se serve davvero premettere che nel calcio è sempre tutto possibile eccetera eccetera, ma della Svizzera abbiamo poco da temere se giocheremo come contro la Turchia e come in tutte, o quasi, le partite degli ultimi anni. L’impressione, piuttosto, sia che non ci sarà tranquillità su questa Italia finché non avrà battuto una squadra considerata di livello pari o superiore. E dato che la Svizzera non lo è non cambierebbe molto rispetto al giudizio di molti, che magari adesso se lo tengono, ma sono pronti a dire: «bah, lo sapevo che in fondo era una Italietta».


 

Personalmente invece mantengo la curiosità che avevo alla vigilia. Perché la Svizzera è una squadra che gioca meglio con il pallone che senza e mi aspetto che, magari solo in alcuni momenti, verrà a pressarci in alto. E ben venga, così proviamo anche la fluidità nell’uscire dal pressing, e l’abilità nel giocare in spazi aperti, anche perché più avanti incontreremo di sicuro squadre aggressive e sarà bene arrivarci pronti, imparando dagli errori che adesso possiamo permetterci. Se invece al Svizzera si chiuderà, beh, buona fortuna, alla Turchia non è andata benissimo ma, ancora una volta, per l’Italia sarà un ottimo esercizio in vista di scontri davvero decisivi. Forse non ho abbastanza fantasia per “visualizzare negativamente”, per immaginare le cose che possono andarci storte. Certo, Seferovic viene da una grande stagione e contro il Galles in un paio di occasioni si è ricavato lo spazio per la conclusione in una frazione di secondo, e gli è mancata solo un po’ di precisione; così come Shaqiri e Embolo hanno qualità tecniche e fisiche fuori dal comune, sono tutto tranne che giocatori mediocri, ma insomma a parte qualche eccezione tutte le Nazionali a questo livello hanno uno o più giocatori in grado di svoltare una partita o una giocata.


 

La differenza, secondo me, la fa la solidità. E l’Italia è sì divertente – Mancini «dobbiamo fare felici i tifosi e giocare con gioia e allegria» – ma senza palla è una tortura per le avversarie. Contro la Turchia è stata soffocante in pressing e riaggressione mostrando una durezza e una resistenza tattica che secondo me in molti sottovalutano ancora. L’Italia difende bene, come alcuni ritengono sia nella sua “natura”, ma lo fa in modo diverso rispetto al passato. Sapete a cosa penso quando devo visualizzare la prossima partita dell’Italia? All’ultima azione di quella con la Turchia, quando Chiellini ha chiuso in scivolata un tiro di Yilmaz al novantesimo passato, da posizione defilata, con Donnarumma appena dietro che sembrava più grosso della porta stessa. Quello sarebbe stato l’unico tiro in porta della Turchia, che invece ha chiuso a zero.


 

Un Europeo e lungo e le cose cambieranno, prima o poi, ma ripartiamo da qui. Non c’è bisogno di abbassare le aspettative se restiamo semplicemente

.

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura