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Giocare per la Palestina, in Cile
21 ago 2025
La storia di resistenza e solidarietà del Deportivo Palestino.
(articolo)
18 min
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IMAGO / Photosport
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Lo striscione della Barra Los Baisanos è già al suo posto, in corrispondenza del settore sul centrocampo dell’Estadio Municipal de La Cisterna di Santiago del Cile. I tamburi, le trombe, le urla dei tifosi crescono di intensità in modo inversamente proporzionale al tempo che manca al fischio d’inizio. Le Ande innevate fanno da sfondo a quello che sembra, semplicemente, un classico prepartita di Primera División Cilena. Ma a volte le cose non sono come sembrano, né tantomeno sono semplici.

Non appena i calciatori del Deportivo Palestino fanno capolino dal tunnel, è ormai evidente che quella che sta per iniziare non è una partita come le altre.

Indossano giacche a vento nere; le braccia sono tese, leggermente staccate dai fianchi, e le mani serrate come se stessero stringendo quelle dei bambini che, di solito, accompagnano l’ingresso in campo delle squadre più o meno a qualsiasi latitudine del globo. Il fatto è che i bambini, però, questo pomeriggio, non ci sono.

Arrivati in corrispondenza del centrocampo, gli undici uomini del Palestino fanno scivolare le giacche davanti a loro, fingendo di appoggiare le mani sulle spalle dei bambini “fantasma”.

È il 24 maggio 2024. Nello stesso giorno la Corte Internazionale di Giustizia de L’Aia ha ordinato la cessazione immediata di tutte le operazioni militari dell’esercito israeliano in Palestina. È la terza sentenza emessa contro Israele nel giro di pochi mesi. Nelle stesse ore, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, sta chiedendo pubblicamente sanzioni internazionali contro Israele, colpevole di aver ignorato deliberatamente i precedenti pronunciamenti della stessa Corte.

Il gesto simbolico dei giocatori del Palestino genera, sui profili social del club, un traffico organico di più di 5 milioni di interazioni nelle prime 36 ore. È un gesto politico che fa parte di una campagna, dall’evocativo nome “Muertes Invisibles, nata nel tentativo di dare una voce ai bambini morti sotto i bombardamenti nella Striscia di Gaza.

«UN PRETE, UN POLIZIOTTO E UN PALESTINESE»
La partita alla vigilia della quale viene inscenata la protesta è quella che vede fronteggiarsi Deportivo Palestino e Unión Española, una delle tre sfide che costituiscono il cosidetto Clásico de Colonias: una rivalità a tre, un triello tutto santiagueño tra Audax Italiano, Unión e Palestino. Colonias, appunto, perché fondate in Cile tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento da colonie di immigrati, rispettivamente italiane, spagnole e palestinesi.

I grandi movimenti migratori provenienti dalla Palestina, e diretti un po’ in tutto il mondo, Sudamerica incluso, hanno principio sul finire dell’Ottocento e si protraggono per tutto il primo ventennio del Novecento. Sotto la dominazione ottomana le aree rurali palestinesi vengono marginalizzate, le condizioni economiche sono pessime, e come se non bastasse una riforma della leva obbligatoria costringe, in potenza, migliaia di giovani palestinesi ad arruolarsi per un esercito che li ha invasi, quello dell’Impero Ottomano. Ognuno di questi fattori concorre nello spingere decine di migliaia di palestinesi ad abbandonare le loro terre, ad emigrare. Quello verso il Sudamerica è un viaggio tanto lungo quanto pericoloso. Una volta arrivati via mare a Buenos Aires, i palestinesi sono costretti a un nuovo esodo verso il Cile, dove spesso arrivano superando la Cordigliera delle Ande a dorso di mulo.

Al loro arrivo diventano, indistintamente, los turcos: non tanto in un afflato di indifferenziazione mediorientale, ma proprio perché viaggiano letteralmente con un passaporto rilasciato dalle autorità di occupazione turche ottomane. La maggior parte di loro, però, non è di fede musulmana, ma cristiana.

L’integrazione non è facile. Nell’America Latina dei primi anni del Novecento impera la turcofobia, un sentimento comune di diffidenza e discriminazione verso i popoli arabi migranti, visti di cattivo occhio rispetto a quelli provenienti dalla Germania e dagli altri paesi dell’Europa occidentale.

Un detto di quegli anni, che non nasconde una vena di fastidio, dice «in ogni città del Cile c’è un prete, un poliziotto e un palestinese».

IL CALCIO COME STRUMENTO DI INTEGRAZIONE
Il lungo e accidentato processo di integrazione ha come carburante primario il commercio: nella produzione e vendita di tessuti si annida il comune sentire identitario dei migranti turcos. Come spesso accade nell’epica novecentesca delle migrazioni, però, quando fa capolino la necessità di un luogo simbolico in cui riconoscersi, quel luogo è un club: culturale, ricreativo, spesso e volentieri sportivo e quindi, per estensione, una squadra di calcio.

Il caso del Deportivo Palestino non si discosta da questa mistica: la diaspora è il primo catalizzatore e la cornice concettuale in cui si riannidano i fili creando humus fertile per la nascita e la crescita del club.

La prima testimonianza storica della squadra risale al 25 marzo 1919, giorno in cui, a Santiago, un gruppo di giovani emigrati palestinesi crea il Club Sportivo Palestina, una società sportiva che vedrà ufficialmente la luce ad agosto dell’anno successivo, nel barrio Patronato, il 20 agosto 1920, esattamente 105 anni fa.

Per i primi trent’anni della sua esistenza è una creatura ibrida: un club sociale, una polisportiva, un luogo di aggregazione. D’altronde il club non era stato creato con l’intento di competere ma con quello, ben più nobile, di provare a fornire gli strumenti sociali per resistere all’emarginazione. In una società che portava molti immigrati a castellanizzare il proprio nome – quel processo per cui gli Yamil diventavano Emilio, gli Al-Farid iniziavano a farsi chiamare Alfredo – la nascita di una comunità sportiva palestinese diventa non solo l’assoluto centro di gravità, ma anche un luogo in cui continuare a sentirsi a casa, lontani da casa.

La necessità di gridare al mondo la propria esistenza diventa ancor di più un obbligo sociale e morale dopo quella che i palestinesi definiscono nakba, la catastrofe.

Nel 1948 viene proclamata la nascita dello Stato di Israele: il piano di partizione ideato dall’ONU prevede che il 56 per cento del territorio vada concesso agli israeliani, e il resto ai palestinesi. Gerusalemme, inizialmente, resta territorio neutrale, governato direttamente dall’ONU. Una soluzione che porta a conflitti e soprattutto la migrazione di circa 700mila profughi palestinesi.

«Il calcio fino al 1948 non era né arabo né ebraico», dice Ilan Pappé, storico israeliano, una delle voci più autorevoli della Nuova storiografia israeliana. «Dopo il ‘48 iniziò ad essere solo ebraico. La professionalizzazione del Deportivo Palestino avvenne solo dopo la Nakba, non prima, e credo che questo avesse a che vedere con la volontà di ricordare la Palestina». 

Nel gennaio del 1950 il Palestino partecipa alle Olimpiadi Arabe di Osorno, a metà strada tra il Pacifico e le Ande. E subito trionfa. Il primo successo del club ha un’eco che risuona in tutto il paese.

Il club si iscrive al neonato campionato di Seconda Divisione Cilena e in un solo anno sale nell’élite del calcio cileno, vincendo per 4 a 2 la finale per la promozione contro il Rangers de Talca. La risonanza dei primi grandi risultati sportivi preoccupa la comunità ebraica cilena, che arriva addirittura a proporre ad Amadour Yarur, il presidente del “Tino” – il vezzeggiativo con cui veniva chiamato il Palestino – di modificare il nome della squadra in “Deportivo Arabe” in cambio di 200mila dollari. Se consideriamo che il prezzo di un trilocale nella Miami degli anni ‘50 era di 13mila dollari non costerà fatica comprendere la portata dell’offerta, che in una maniera non poi così ovvia, che trova motivazione solo nel forte sentimento di appartenenza, viene rispedita al mittente. È un’ascesa verticale: solo due anni dopo la storica promozione in Primera, nel 1955, il Palestino vince il suo primo campionato. È una squadra ricca, oltre che forte, e gli investimenti degli imprenditori palestinesi del settore tessile permettono al club di dotarsi di una rosa, negli anni, sempre più competitiva.

È così che il Palestino diventa una realtà sempre più potente nella società cilena, al pari della comunità che rappresenta: i “cilestinesi” cominciano ad occupare ruoli di potere, ad accumulare ricchezze, a rappresentare parti dell'élite del paese, a investire nel calcio. Dopo il primo storico successo in campionato, però, anziché inaugurare un’era di trionfi il club finisce in una corrente turbolenta, dal punto di vista sportivo piena di alti e bassi. Ci vorrà un ventennio, anno più, anno meno, per rivedere il Palestino sul tetto del Cile.

LA DITTATURA, LA FEDELTA' ALLE ORIGINI
Raúl Hasbún Zaror, per tutti "el cura Hasbún", sacerdote diocesano cattolico di origine palestinese, è una figura centrale nella storia del “Tino”. Nell’epoca amateur è stato dapprima giocatore, a centrocampo, e poi magazziniere, fisioterapista, segretario. Nel giugno del 1949 ha partecipato attivamente alle riunioni per la professionalizzazione del Deportivo. Nei primi anni Settanta, fresco di nomina come direttore della televisione dell’Università Cattolica del Cile, sale alla ribalta in maniera piuttosto polemica perché a più riprese, a cavallo tra il 1972 e il 1973, attacca più volte pubblicamente il governo Allende, in carica dal 3 novembre del 1970: non tanto il suo operato, quanto la sua ideologia. «Quella contro il marxismo è una lotta spirituale, nella quale devono unirsi tutti gli uomini che credono che a fare il Cile c’è solo il Cile», dice.

Il 1973 è un anno decisivo per le sorti politiche del Cile. Il primo Aprile di quell’anno, con la tensione già alle stelle, il quotidiano El Siglo pubblica un editoriale intitolato “Retrato de un Fariseo”. L’articolo, una vera e propria invettiva contro Raúl Hasbún Zaror, è firmato dal poeta Pablo Neruda, che attacca il sacerdote definendolo un ipocrita – per essersi fatto appoggiare dal Frente Nacionalista Patria y Libertad, un’organizzazione paramilitare in aperto contrasto con il governo socialista, in un’operazione di salvaguardia dei canali televisivi che il governo aveva decretato di oscurare. In realtà ciò che Neruda sta facendo, usando la parola fariseo, non è solo dare ad Hasbún dell’ipocrita, ma molto meno velatamente del colluso con i militari. Pochi mesi dopo, a settembre, Augusto José Ramón Pinochet Ugarte prenderà il potere rovesciando militarmente il governo di Salvador Allende.

Nel 1978, all'apice del governo di Pinochet, il Palestino è una realtà consolidata e le sue casse sono ricche come non mai. Allo stesso tempo, però, sembra come se in qualche modo si stia perdendo il legame con la madrepatria: il nome è lo stesso, i colori sociali pure, ma è come se la centralizzazione totale del potere in Cile sia riuscita a sopire il sentire politico di una generazione intera, incluso quello della comunità palestinese. Sono anni tumultuosi, quelli del regime, controversi, e mentre il club mantiene ufficialmente una comunicazione apolitica, Hasbún difende l’autorità del potere centrale, arrivando addirittura a ricoprire incarichi ufficiali come funzionario civile del regime presso l’ambasciata cilena in Germania, oltre che a diventare una specie di star televisiva, spesso e volentieri presente negli studio per sermoni e invettive politiche. Porterà in Cile anche Raffaella Carrà.

Quello degli anni Settanta è un contesto totalmente diverso da quello dei primi anni di vita del Palestino: la necessità di giocare per esistere, senza strategie societarie ambiziose, senza grandi investimenti, è soppiantata dal potere economico di un club sempre più vicino ai vertici della società cilena.

Dopo aver vinto nel 1975 e nel 1977, la Coppa del Cile, il Deportivo Palestino allestisce una rosa incredibile alla vigilia del campionato del 1978. A guidare la squadra, in campo e fuori, due autentiche leggende del calcio andino: Óscar Fabbiani e Elías Ricardo Figueroa.

Il primo, soprannominato “Braccio di Ferro” per via di un mento pronunciato che lo fa somigliare a Popeye, è un implacabile centravanti, che cesella il suo mito con l’abilità nel segnare con il puntete, di punta. Il secondo, Don Elias, è uno dei migliori difensori sudamericani della storia e tra i più grandi giocatori del calcio cileno.

Grazie alle 35 reti di Fabbiani (capocannoniere del campionato) e alla granitica difesa guidata da Figueroa, il “Tino” diventerà, per la seconda volta nella sua storia, campione. Quella squadra, capace di inanellare ben 44 partite consecutive senza sconfitte, diventa, per un breve periodo, celebre in tutto il Sudamerica. E i tragici eventi del 1982 non fanno che amplificare la sua fama, in Cile e nel mondo.

Tra il 18 e il 19 settembre, in Cile, si celebra El Dieciocho, la festa nazionale dell’indipendenza cilena. Ma il 18 settembre del 1982, la comunità “cilestinese” non ha proprio niente da festeggiare, scossa dalle notizie provenienti dal Libano: un numero imprecisato di palestinesi (tra i 762 e i 3500) è stato assassinato dalle Falangi Libanesi, l’esercito del Libano del Sud alleato di Israele, con la complicità dell’esercito israeliano. È il massacro di Sabra e Shatila.

Il Deportivo Palestino, nella partita del giorno successivo contro l’Audax Italiano, rispetta un minuto di silenzio. Qualche giorno dopo lo stesso club si fa fautore di una marcia di protesta: la manifestazione, sebbene non autorizzata, attraversa silenziosa Plaza Baquedano ed è la prima manifestazione pubblica che si tiene in strada da quando Pinochet ha preso il potere. Quel gesto di ribellione resterà per molti anni l’ultimo momento di vera solidarietà del Deportivo verso la patria palestinese.

Nel ventennio successivo, il club, scompare dai radar internazionali: la scarsità di risultati è lo specchio di una profonda crisi finanziaria che culmina nella bancarotta del 2003. È sull’orlo dell’abisso che la realtà si ribalta. È la comunità palestinese a sostenere il club con parole e manifestazioni di solidarietà. Tra i nomi di spicco, svetta quello di Yasser Arafat che, nel 2003 (un anno prima della sua morte), scrive una lettera di vicinanza al club chiedendo a gran voce sostegno economico per le casse del “Tino”. L’appello del compianto leader dell’OLP si rivelerà poi decisivo per la sponsorizzazione del club da parte della Bank of Palestine – organizzazione bancaria palestinese fondata a Gaza- nel 2009. Da quel momento il logo della banca è al centro delle divise del Deportivo.

FERVORE E POLEMICHE

Il fervore identitario trova il suo apice alle porte della stagione 2013/2014: il panorama politico, però, è drasticamente cambiato, e ogni gesto simbolico, ora, deve vedersela con le proteste della comunità ebraica. Il Deportivo scende in campo con una divisa simbolica in cui il numero 1 è sostituito da una mappa, ma non una mappa qualsiasi, bensì quella che rappresenta i confini della Palestina antecedenti alla nascita dello Stato di Israele.

La comunità ebraica cilena reagisce duramente chiedendo la squalifica del “Tino” e, contemporaneamente, esplode il dibattito sulla stampa, sui social e in federazione. Il “Tino” viene accusato di non riconoscere l’esistenza di Israele, di sostenere il terrorismo, di utilizzare lo sport come mezzo di discriminazione e antisemitismo. La bagarre per la proibizione della maglia va avanti per giorni fino alla definitiva riunione del Consiglio dei Presidenti dell’ANFP, la FIGC cilena, di giugno 2014: la maglia viene ufficialmente vietata. La notizia rimbalza però in tutto il mondo. I giocatori del Deportivo protestano e la mappa stessa trova nuove collocazioni: dipinta sugli avambracci dei calciatori, in punti meno esposti della divisa o lungo le mura di cinta dell’Estadio Municipal de La Cisterna.

La maglia, rimasta in vendita sullo shop del club, diventa un vero e proprio caso mediatico, oltre che un feticcio che scatena richieste da tutto il mondo, con un aumento delle vendite superiore al 300%.

L’eco della polemica si diffonde anche in Palestina, al punto che l’emittente televisiva araba Al-Jazeera acquisisce i diritti per trasmettere le partite del Deportivo Palestino per la Copa Libertadores dell’anno successivo.

Il 17 novembre 2018 il Deportivo Palestino vince quello che è, ad oggi, il suo ultimo trofeo. A segnare, in finale contro l’Audax Italiano, il goal decisivo per la vittoria della Coppa del Cile è Luis Jiménez, “Il Mago”, proprio quello Jiménez che dopo essere esploso nel Palestino a inizio anni Duemila ha girato l’Italia vestendo le maglie di Ternana, Fiorentina, Lazio, Inter, Parma e Cesena prima di svernare tra Emirati Arabi e Qatar e tornare a chiudere la carriera al Municipal de la Cisterna.

Dopo la partita, ai microfoni di Al Aire Libre, dichiarerà: «Siamo felici di aver regalato una gioia alla popolazione palestinese. Noi appoggiamo la loro causa. Per loro, come dicono, siamo una seconda Nazionale».

Sempre Jiménez, alla vigilia del match di Copa Libertadores dell’anno successivo contro il River Plate, farà un annuncio in arabo sui social per chiedere supporto dei tifosi del Deportivo presenti in Palestina. Durante la partita, in un settore dello stadio “La Cisterna”, i seggiolini verranno sostituiti da monitor in diretta video con i tifosi palestinesi. Una vera e propria “curva virtuale” per sostenere “Il Tino”.

La compenetrazione tra Palestino e Palestina si fa, in questo periodo, profonda. Nei mesi successivi il club organizza varie tournée in Medio Oriente, un interscambio che culminerà, nel settembre 2021, con la creazione della prima Academy a Gaza – che però non riuscirà mai ad inaugurare le attività per via della situazione nella Striscia – e successivamente a Ramallah.

L'IMPORTANZA OGGI

Il 13 ottobre 2023 Israele ha iniziato l’invasione militare della striscia di Gaza in seguito all’attentato, rivendicato da Hamas, del 7 Ottobre. Il numero dei morti, fin dai primi giorni dell’invasione, aumenta in maniera esponenziale. Non si può dire lo stesso, però, delle manifestazioni di solidarietà verso il popolo palestinese.

In questo scenario, il supporto incondizionato dei due gruppi principali del tifo organizzato del Deportivo, (che a queste latitudini si chiamano barras), la Barra Los Baisanos e la Barra Intifada Antifascista, è apparso come un unicum stridente. Le barras hanno istituito quello che hanno chiamato el minuto histórico por Palestina: al minuto undici – un chiaro rimando al doppio numero uno della maglia della discordia, quella in cui a disegnare la cifra era la mappa della Palestina libera – tamburi, cori e canti si fermano. Il minuto di silenzio è seguito dal coro: «Gaza resiste, Palestina esiste».

Il sostegno attraverso campagne di sensibilizzazione si è fatto ancora più importante nel 2024, di pari passo con l’inasprimento del massacro perpetrato a Gaza: a febbraio, giusto qualche mese prima della protesta “Muertes Invisibles”, Los Baisanos hanno lanciato una terza maglia commemorativa con il logo e i colori del Celtic, in omaggio alla Green Brigade, gruppo antifascista di tifosi della squadra di Glasgow, più volte schieratisi a sostegno della causa palestinese. E pochi mesi fa, a maggio, è stato il club stesso a lanciare una divisa in edizione limitata con i colori della keffiyeh, il tradizionale copricapo arabo, devolvendo i proventi all’Ayda Camp, un campo profughi palestinese nella periferia di Betlemme.

La “camiseta” del Palestino si è fatta, ancora una volta, ancor di più se possibile, simbolo di resistenza, strumento di identità, seconda pelle di un popolo che gioca per non morire.

Anche a distanza di dodicimila chilometri, il Deportivo Palestino continua a chiedersi settimana dopo settimana cosa resta di un campo da calcio quando l'erba smette di misurare la traiettoria di un pallone e inizia a registrare, come un sismografo, l'impatto dei crateri.

Dall’altra parte dell’Oceano, a partire dal 7 ottobre 2023, la Federcalcio Palestinese ha smesso di contare i gol e ha iniziato a contare i suoi morti. L'elenco è un pugno nello stomaco, perché sterminato: ad oggi ha superato le 300 unità, 300 vite di calciatori che, proprio come gli uomini del Palestino, sono scesi in campo per perorare un’ideale, un’identità, il loro diritto a esistere.

Hani Al-Masdar, il demiurgo della Nazionale Olimpica, guida del futuro del calcio palestinese, è stato ucciso durante un’incursione aerea; Suleiman al-Obeid, che tutti chiamavano il "Pelé di Palestina", il più grande giocatore di calcio palestinese, ha perso la vita giusto qualche giorno fa assassinato dall’IDF mentre attendeva gli aiuti umanitari nel sud della Striscia.

Degli stadi, completamente distrutti dall’inizio dell’offensiva israeliana, non restano che gli scheletri. Neanche lo stadio Yarmouk – che a dicembre 2023 ci era stato mostrato dai satelliti trasformato in un centro di detenzione a cielo aperto, una degenerazione che in Cile conoscono bene – è sopravvissuto alla devastazione.

La Nazionale Palestinese, una squadra senza casa, apolide del rettangolo verde, esiliata in Giordania, ha perso per un pelo l’occasione di gridare al mondo la sua esistenza dal palcoscenico maggiore, quello dei Mondiali: un rigore contro, assegnato a tempo scaduto, ha messo fine nel giugno scorso al sogno palestinese, decretandone l’eliminazione.

Nel silenzio assordante delle istituzioni, anche calcistiche, il Deportivo Palestino fa qualcosa di più di sollevare una domanda, come ha fatto Momo Salah sui social.

In questa geografia dell'esilio, nel vuoto creato dalla distruzione, la mera esistenza di una squadra come il Deportivo, che a tredicimila chilometri di distanza tiene alto il nome della Palestina, assume un valore trascendentale. A Santiago del Cile, il Club Deportivo Palestino smette di essere solo una squadra per diventare qualcosa di più: non solo una vera e propria ambasciata del calcio palestinese, ma una risposta. La risposta che si cela nella sublimazione del motto “Más que un equipo, todo un pueblo” (più di una squadra, tutto un popolo), nel suo farsi ponte che unisce esperienze, nel suo essere cassa di risonanza per la denuncia del genocidio in atto a Gaza.

Il Deportivo Palestino non è semplicemente una squadra: è la storia di un popolo, una storia di lotta, e di lotta per la sopravvivenza. Un simbolo di identità nazionale che trascende le nazioni. Un simbolo di solidarietà e di speranza.

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