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Cosa significa allenare nel calcio femminile in Italia
06 lug 2020
06 lug 2020
Intervista a Ugo Maggi, selezionatore della rappresentativa ligure.
(articolo)
16 min
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Il Torneo delle Regioni è una competizione organizzata dalla Lega Nazionale Dilettanti e dedicata alle rappresentative regionali di calcio e calcio a 5 delle categorie Juniores, Allievi, Giovanissimi e Femminile. Si svolge in primavera, dura una settimana ed è giunto alla 58^ edizione. Negli ultimi anni ha assunto un ruolo fondamentale nello sviluppo del calcio femminile. Le giocatrici convocabili nella rappresentativa di calcio devono avere meno di 23 anni e possono essere tesserate al massimo in Eccellenza, il quarto livello dilettantistico in Italia. Sopra questa categorie (e quella sottostante, la Promozione) ci sono i campionati organizzati dalla FIGC: la Serie C interregionale, la Serie B e la Serie A, entrambe a girone unico nazionale. In sostanza, il Torneo delle Regioni è la principale vetrina in Italia per le giovani calciatrici che non sono ancora tesserate in squadre dei tre massimi livelli.

Un’occasione per farsi vedere anche in ottica Nazionale Under 23 e Under 19, entrambi step importanti per certificare i talenti e aprire molte porte, mettendo le giocatrici di fronte alla scelta se proseguire o meno un percorso che sarà comunque privo di certezze, prima di tutto economiche, ma che può portare al professionismo (solo dalla stagione 2022-23 le calciatrici italiani potranno definirsi "professioniste", ma di fatto alcune già lo sono). Lo scorso anno la Liguria ha sfiorato a sorpresa il suo primo titolo, venendo sconfitta in finale dal Piemonte/Val d’Aosta per 3-1. Un grande risultato - il migliore della sua storia - per una regione che parte sempre da outsider.

In panchina sedeva Ugo Maggi, selezionatore della rappresentativa da 13 anni. E se il 2019 potrà essere ricordato come l’anno di svolta per il calcio femminile in Italia (che ha raggiunto un pubblico molto più vasto rispetto al passato grazie al Mondiale e alla Nazionale di Bertolini arrivata fino ai quarti) è anche grazie al lavoro precedente svolto da tutte le persone che, in tempi molto più bui di adesso, hanno posto le basi per iniziare la crescita del movimento (che resta comunque fragile al di là dell’onda di attenzione mediatica dovuta proprio al Mondiale francese).

Maggi, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori in Liguria dal 2009, è diventato un punto di riferimento per la categoria anche a livello nazionale, sempre presente sul campo e in aula: a 72 anni è stato uno dei pochi presidenti di regione che non mancava mai un corso di aggiornamento, e nel corso della sua carriera ha messo più volte in discussione i suoi metodi e le sue idee. Quasi tutte le settimane è ospite di Lady Soccer, una delle pochissime trasmissioni riservate esclusivamente al calcio femminile in Italia. Parlando dei suoi colleghi, Maggi ha detto: «Molti allenatori che passano al femminile, me compreso, non vogliono più tornare indietro».

“Il Trap dei poveri”

Maggi è nato nel 1947 e come tutti i bambini della sua generazione ha avuto un imprinting col gioco che oggi appare romantico e perduto: «Non esistevano le scuole calcio. Giocavamo per strada, in una via che era in pendenza, come tante strade qui a Genova. Ci davamo i turni per chi giocava in discesa. Si giocava contro le altre vie, contro i quartieri, quelle erano le squadre».

La prima squadra vera in cui ha giocato è stata quella dell’oratorio, poi tanta Promozione, che ai tempi era subito sotto la Serie C. È sempre stato uno di quelli che ci tenevano di più: «Ho smesso di fumare appena mi hanno detto che se avessi continuato non sarei mai diventato un calciatore. Ero un’ala veloce e robusta che correva tanto, poi negli anni ho iniziato a giocare sempre più spesso a centrocampo. I miei colleghi mi chiamavano “fosforo”, perché avevo cervello».

Quando parla di cosa gli hanno lasciato i suoi migliori allenatori dice che «quello che mi cambiò la visione fu un allenatore che mi disse di fare il “tornante”, e non l’ala. Era strano, di solito non dovevo tornare a difendere oltre il centrocampo. Potrei dire che quell’allenatore è stato un antesignano del calcio di oggi, dove non esiste più un giocatore che sta fermo lassù davanti. Sentivo che il mio calcio era quello, polivalente e dove i numeri dei moduli contano relativamente, ma credevo di essere pazzo, nessuno la pensava così».

A 27 anni Maggi inizia già ad allenare e rimane nella sua prima squadra per quasi 9 anni, nella seconda per 11, nella terza per altri 5: «All’epoca usciva un giornale sportivo esclusivamente sui dilettanti. Una volta mi hanno intervistato e mi hanno ribattezzato “il Trapattoni dei poveri”, perché stavo tanto nelle mie squadre». Con la pensione arriva anche più tempo libero, che Maggi decide di investire fondando una scuola calcio tutta sua.

Ad eccezione della prima esperienza in una squadra parrocchiale di Terza Categoria, Maggi si è sempre dedicato al settore giovanile. «Mi sembra che sia più utile formare i giovani. Non mi sento portato per allenare i grandi, quel tipo di calcio non mi ha mai attratto», dice in maniera abbastanza sbrigativa, come se per lui fosse sempre stato chiaro di non appartenere a quel mondo, che «sotto una certa categoria scimmiotta troppo il professionismo». Rifiuta un’idea di calcio ossessionato dal risultato, pieno di tensione, esasperazioni, eccessi, anche in contesti modesti.

In questo senso, sembra quasi naturale l’incontro col femminile, definito così dall’allenatrice della nazionale Milena Bertolini, ospite su Sky dello speciale “Le Signore del Calcio”: «Il calcio femminile manda messaggi diversi, di serenità e gioia. A livello maschile si sono persi. Quando vedi una partita di calcio maschile, gli aspetti che sono l’essenza dello sport mancano. Credo che ci si stia disinnamorando del calcio maschile. Perché è un calcio di tensione, aggressivo. Invece il pubblico ha voglia di vedere uno spirito sportivo e nel calcio femminile lo ritrovi. C’è molta voglia di questo».

I primi tornei con la rappresentativa

Maggi era già consigliere regionale AIAC per la Liguria quando, nel 2006, il vicepresidente nazionale gli dice che è il momento di rivoluzionare tutto nel sistema del femminile, e che vorrebbe affidargli la rappresentativa ligure. «L’obiettivo era innanzitutto mantenere un buon ambiente e fare una figura decorosa dal punto di vista disciplinare. Ti dico la verità: non ero entusiasta. Seguivo altri sport femminili, come la pallavolo, e poi era un mondo minuscolo, poco considerato. Scoprii che non c’era informazione, che le partite si giocavano in campi e orari improbabili. Non c’era niente. Però chiesi comunque di poterci pensare per un weekend. Sono andato a casa e l’ho detto a mia moglie, psicologa. Mi ha detto di andare di corsa e che mi sarei divertito».

L’inizio non è stato semplice: «Tre mesi dopo avevo già il primo raduno. Ho fatto le convocazioni per corrispondenza, non conoscevo nessuna giocatrice. Qualche società mi ha dato subito una mano, qualcun’altra è rimasta un po’ sulle sue». Dare attenzione al femminile non è mai stato scontato e anche le strutture della Liguria, geograficamente poco predisposta ad ospitare campi da calcio, non agevolano il compito: «La mancanza di campi tenuti bene, dove per altro viene sempre data la precedenza al maschile, e il numero di squadre sono i principali fattori che concorrono a marcare la differenza tra le regioni. Lombardia e Veneto hanno grande tradizione, sono molto più grandi e hanno molte più giocatrici. In certi paesini minuscoli ci sono addirittura due campi da calcio. Come rapporti di forza, sono un po’ come la Juve e l'Inter di questa Serie A»

Per questo, ogni successo della Liguria, pur nel contesto poco celebrato del Torneo delle Regioni, fa rumore. Dopo un primo torneo dignitoso, il secondo tentativo è stata una svolta cruciale: «Siamo arrivati terzi con una squadra bravina ma non eccezionale. Mi è rimasta impressa la finale per il terzo posto contro il Veneto, che era una squadra coi fiocchi, convinta di mangiarci. Vincemmo 2-1, una gara soffertissima, sudatissima. Prima della partita la capitana mi disse: “Vedrai che ti facciamo vincere”. Avessi visto come sono scese in campo. Una determinazione così non l’avevo mai vista nei maschi».

Ugo Maggi al Torneo delle Regioni 2019 (Foto dalla pagina Facebook della Lega Nazionale Dilettanti).

Il calcio è stracolmo di esempi di squadre tecnicamente inferiori che battono formazioni sulla carta più blasonate. Maggi però dice di aver visto quelle giocatrici sopperire alle loro mancanze con «una passione e un’intensità diverse». Da lì è stato un crescendo di risultati, anche con l’Under 15, che ha allenato per qualche anno.

Libertà

La sua filosofia ha trovato un punto di riferimento culturale in Francesco D’Arrigo, docente di punta del settore tecnico di Coverciano, dove tiene i corsi da allenatore anche agli ex calciatori professionisti. D’Arrigo è autore di un paio di libri che hanno messo nero su bianco dei pensieri che Maggi coltivava da tempo: «I giocatori, fin da bambini, bisogna farli ragionare. Secondo me troppo spesso gli viene detto cosa devono fare in maniera meccanica, vengono trattati come dei robottini. Li obbligano a giocare secondo certi schemi mentali. Invece devono essere lasciati liberi di scegliere in campo, di decidere cosa fare. Anche perché poi lo dovranno fare anche nella vita».

L’allenatore delle giovanili deve creare le condizioni perché ognuno si esprima liberamente, anche sbagliando. Come affrontare un errore e quando correggerlo è un nodo fondamentale che Maggi tocca spesso: «Tanti miei colleghi dicono “Eh, ma se non gli dico niente quello sbaglia e si fa gol da solo”. Bene, tu hai preso gol, ma lui cresce. Altri si lamentano perché devono far giocare “quelli scarsi”. Di apparenti fenomeni ne ho visti tanti, ma poi spesso finiscono per perdersi. Bisogna sempre far giocare tutti, non sai mai chi possa tirare fuori nuove potenzialità. Non ha senso dire “quello è scarso” e allora non gioca. Tu fai l’allenatore, fallo diventare buono. Sennò come fai a dire che sei bravo, tu?».

Con questo tipo di approccio ha costruito anche la sua rappresentativa femminile, che si riunisce circa 12 volte l’anno, in cui vengono valutate una sessantina di giocatrici (al Torneo delle Regioni, che dura una settimana, ne vanno solo 20). Prima di ogni allenamento, Maggi tiene una buona mezz’ora di discorso negli spogliatoi, insistendo su cosa significhi essere lì e rappresentare la loro regione. «Ricordo sempre che la rappresentativa è un giocattolo che funziona bene da molto tempo e non si romperà neanche quest’anno. Quelle che sono già venute spiegano alle nuove com’è l'ambiente e come funziona, quali sono le regole».

Quando si giocano delle amichevoli, prima della partita c’è anche una riunione tecnica: «Io come allenatore devo dare degli imput, soprattutto cercare di abituarle ad essere veloci di pensiero, ma le protagoniste sono sempre loro. Divido il campo in tre parti e dico quello che si fa o non si fa in ogni zona, specialmente quella difensiva. Dopodiché in campo le giocatrici si gestiscono il loro “fare”. Sanno che se sbagliano sono cavoli loro, è una loro responsabilità. Al raduno successivo, chiedo come sono andate le cose, faccio notare determinate azioni. E sono loro che mi dicono dove hanno sbagliato».

Maggi ha lavorato sulle sue attitudini nel corso degli anni: «Adesso non grido più come una volta. Sbagliavo, non serviva. E poi i ragazzi capivano che ero fatto in un altro modo. Una volta nello spogliatoio ho sentito un nuovo arrivato chiedere a un suo amico “Com’è il mister?”. Quello gli ha risposto “Grida un po’, ma poi è bravissimo, non ci far caso”».

Quando deve descrivere la voglia di giocare a pallone delle sue giocatrici, mostra fierezza e tranquillità. Questo metodo considera il calcio alla stregua di un atto creativo, dove è importante avere delle basi teoriche ma è altrettanto fondamentale eliminare la pesantezza del giudizio esterno dell’allenatore. Il gioco è sempre una manifestazione personale, interiore, che deve essere lasciata libera di venir fuori.

Appassionarsi al calcio femminile non è difficile se si conoscono le storie delle calciatrici. Laura Giuliani, portiere della nazionale e della Juventus, ha detto che «il calcio è una passione che mi chiamava, una forza, un qualcosa da dentro che mi diceva che quella era la strada da percorrere». Le giocatrici hanno un bisogno viscerale di esprimersi attraverso il calcio, qualcosa che spesso non viene da stimoli esterni: «Sì, ci tengono moltissimo; anche quelle che all’inizio vengono un po’ così alla leggera, alla fine sono le più coinvolte», dice Maggi.

Come esempio famoso cita Sara Gama, quella che lo ha stupito di più nell’Italia, insieme proprio a Laura Giuliani: «Gama è una molto volitiva, una tosta. Una donna di colore che gioca a calcio, in Italia. Della serie: buona fortuna. So che faceva un sacco di strada per andarsi ad allenare». Questo tipo di sacrificio viene fuori spesso anche nelle storie dei calciatori, che però inseguono un obiettivo diverso, sanno che una volta arrivati nel professionismo saranno a posto: per le giocatrici invece arrivare a un certo livello potrebbe non essere sufficiente per mantenersi. Il livello di sacrificio è doppio, in un contesto che spesso pone più ostacoli che agevolazioni.

Un abbraccio tra due giocatrici della rappresentativa ligure (Foto presa dalla pagina Facebook della Lega Nazionale Dilettanti).

La tecnica conta solo la metà

Gli ottimi risultati della rappresentativa ligure derivano innanzitutto da uno spogliatoio coeso, da una buona comunicazione tra lo staff e le giocatrici. Il livello tecnico si è alzato nel corso degli anni, complice qualche investimento in più nei settori giovanili femminili (da un paio d’anni tutte le squadre di Serie A sono state obbligate ad averne uno): «Sì, si è alzato tantissimo. Ma da anni le giocatrici sono preparate anche atleticamente, sono più seguite nella preparazione. E poi tatticamente sono bravissime. Conoscono la terminologia, vogliono sentirti parlare di tattica. Quello che cerco di passarle, ed è un meccanismo faticoso da apprendere, è che nel calcio di adesso ci si muove tutti ricoprendo più ruoli. Io provo a farle giocare bene in questo senso. Del resto sono perfettamente in grado di farlo, basta vedere la nazionale».

Ma quanto contano le capacità tecniche e tattiche di un allenatore nell’assemblaggio di una squadra come la rappresentativa, che di fatto è una specie di All-Star? «Se vogliamo sono quasi più un educatore. L’aspetto tecnico conta al massimo al 50%, poi c’è soprattutto la testa. A livello comportamentale due cose non accetto: espulsioni per proteste e lamentele sui cambi; sono io il primo a patirci quando le sostituisco. Una delle giocatrici più forti che abbia mai avuto non l’ho più chiamata quando ho visto che in una partita col suo club si era tolta la maglia dopo un cambio, lanciandola in aria. Un’altra invece, che non era certo tra le più brave; non la chiamavo da un po’, poi una sera in amichevole l’ho chiamata e le ho fatto marcare una delle più brave. Ha fatto una partita incredibile. Le ho detto “Che è successo?”. Mi ha risposto “Mister, mi sono resa conto di essere limitata. Ora vado a correre tutti i giorni, se cresco fisicamente forse riesco a sopperire il resto”. Mi ha stupito, sembrava una a cui non fregasse di queste cose. Che per me invece sono le più importanti».

Le difficoltà più grosse, Maggi le ha avute nella gestione dello spogliatoio: «Tra di loro possono essere molto amiche, ma anche abbastanza vendicative. Qualche anno fa una ragazza molto forte mi manda a dire che non verrà perché nello staff c’è un medico con cui si era scontrata qualche anno prima. Ho chiamato il suo allenatore, e ho aspettato che mi richiamasse lei. Ha voluto vedermi, abbiamo parlato e le ho detto chiaramente che il medico non sarebbe stato cambiato. “Se ti invito al mio matrimonio vieni per rispetto a me, anche se c’è un’altra invitata che ti sta sulle scatole”, le ho detto. Meno male che è venuta perché era proprio forte».

Nei rapporti personali Maggi ha dovuto aggiustare il tiro rispetto ai settori giovanili maschili: «Agli allenatori che approcciano il femminile dico sempre di essere trasparenti e di non raccontare storie. Sembra scontato ma non lo è, credimi. È fondamentale non dare finti contentini, tipo dire “Oggi non giochi, ma giochi la prossima”. Se poi non è così perdi completamente la tua credibilità».

Una piccola famiglia

Nella valutazione delle giocatrici, Maggi è aiutato da presidenti e allenatori dei club, con cui ha un rapporto costante. Tornando sulla nazionale, dice: «Bertolini è una grande allenatrice, con un ottimo secondo, Attilio Sorbi, che oltretutto è un mio grande amico». Quando parla di dirigenti e dei suoi colleghi allenatori che militano nel femminile, spesso si riferisce a loro come “carissimi amici”. Mi viene da chiedergli se il giro di persone sicuramente minore rispetto al maschile consenta di lavorare meglio e tra persone che si conoscono di più a livello umano. «Ormai siamo una famiglia. C’è assoluta confidenza con dirigenti e tecnici. Mi fanno allenare nei loro campi senza problemi, farebbero di tutto per la rappresentativa. Molti li ho portati in televisione, cosa che ha aiutato moltissimo ad aumentare l’indice di gradimento del femminile in Liguria».

La festa dopo la qualificazione alla finalissima. «Al ritorno, sul pullman, faccio scrivere le loro impressioni su un diario», racconta Maggi, «qualcuna scrive due parole, altre una pagina intera. Scrivono delle cose bellissime. Ne ricordo solo una: “a volte grazie non è abbastanza”» (Foto presa dalla pagina Facebook della Lega Nazionale Dilettanti).

Con la visibilità crescente del movimento femminile si continua ad alimentare il grande desiderio di emergere delle giocatrici e del movimento in generale, la strada da fare però è ancora molto lunga, se si pensa a quanto eravamo indietro anche solo due anni fa: «Cambiare la mentalità di un paese non è facile. Il calcio è ancora considerato uno sport non da donne. In questo momento sembrano tutte rose e fiori, ma è stata dura. Fino a qualche anno fa chi diceva di sostenere il femminile lo faceva solo come affermazione di facciata, alle tavole rotonde, alle riunioni; poi nella pratica si dileguavano tutti».

Nonostante questo, Ugo Maggi non ha mai pensato di tornare al maschile: «Non lo farei neanche a morire. Potrei pensare a una squadra di club femminile, ma ancora un anno di rappresentativa almeno lo voglio fare». Mi torna alla mente un’altra frase, pronunciata da Maggi in televisione: «Il femminile ti dà più opportunità di stimolare la tua fantasia di allenatore. Credo di essere invecchiato più lentamente grazie a questa scelta».

Proviamo a entrare nello specifico, a definire questo tipo di attaccamento: «È stata una sorpresa questa del femminile. Mi ha portato tanta soddisfazione e mi ha spinto verso le innovazioni. Le giocatrici sono ricettive, sveglie ed esigenti. Con loro raggiungi prima l'obiettivo, capiscono tutto alla prima. Capiscono anche subito come è l'ambiente, dopo due o tre allenamenti ho già un gruppo formato. Anche perché è qualcosa di nuovo e stimolante, io credo. Nelle società gli dicono tutti cosa devono fare. Io gli parlo di un calcio delle responsabilità, del coinvolgimento personale».

Diletta Barilla, conduttrice di Lady Soccer, è stata con noi per tutta la durata dell’intervista. Alla fine, quando Ugo è andato via, riflette su queste parole: «Il bisogno delle giocatrici è fortissimo, e fin da quando sono piccole tutto rema contro di loro. Riuscire a ottenere dei risultati, “farcela” con le giovanili femminili, è tostissima. Per questo poi la soddisfazione è enorme. Secondo me il succo è questo ed è ciò che tiene Ugo nel femminile».

Ogni anno la rappresentativa perde quasi una decina di giocatrici, perché fanno il salto di età o perché vengono tesserate da squadre di Serie C o superiori. Ma non è detto comunque che riusciranno a trasformare la loro passione in un lavoro. Dopo essere passate dallo sguardo di quel simpatico genovese coi baffi, però, forse saranno più consapevoli della loro voglia, a volte addirittura bisogno di giocare a calcio - quel fattore non misurabile, ma decisivo, che la scorsa estate abbiamo letto anche nei volti delle giocatrici della nostra Nazionale.

Una forza che abbiamo appena imparato a conoscere e che forse, alla luce del frettoloso annullamento della Serie A femminile per via della pandemia di Covid-19, ci stiamo già dimenticando.

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