Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Tommaso Clerici
Cosa sappiamo sull'impatto delle concussion nel calcio
14 mag 2024
14 mag 2024
Una questione su cui non si hanno ancora grandi certezze scientifiche.
(di)
Tommaso Clerici
(foto)
IMAGO / Paul Marriott
(foto) IMAGO / Paul Marriott
Dark mode
(ON)

L’intervista di Rafael Varane, difensore del Manchester United, al quotidiano francese L’Équipe, ha fatto scalpore: per la prima volta, almeno in tempi recenti, un giocatore di alto livello ha parlato dei traumi cerebrali nel calcio.

Varane, 31 anni, campione del mondo con la Francia e vincitore di quattro Champions League con il Real Madrid, è considerato uno dei difensori più forti della sua generazione. «Nel corso della mia carriera ho subìto diverse commozioni cerebrali», ha confessato il difensore francese. «E alcune delle partite più brutte che io abbia mai giocato, le ho disputate dopo aver accusato colpi alla testa nei giorni precedenti». Varane spiega che negli ottavi di finale del Mondiale 2014, durante Francia-Nigeria, è stato colpito da una pallonata vicino alla tempia: «Ho finito quella partita con il pilota automatico, mi pesavano gli occhi. Non ricordo niente, probabilmente non sarei stato neanche in grado di parlare».

La partita successiva, quattro giorni dopo, sono i quarti di finale e va in scena Francia-Germania. Varane si sente male già nel pre gara: «Ero stanco, affaticato», sintomi tipici della commozione cerebrale «ma ho insistito per giocare, infatti non do colpe ai medici. Non ne ho mai parlato perché non volevo che sembrasse una scusa». D'altra parte, la Francia verrà eliminata per 1-0, con il gol incassato proprio a causa di un errore di marcatura di Varane: chi gli avrebbe creduto? Sei anni dopo il copione si ripete: il difensore prende una pallonata in testa durante una partita del campionato spagnolo, lascia il campo, riposa per cinque giorni ma gioca l’andata degli ottavi di finale di Champions League contro il Manchester City. Il Real Madrid perde e Varane sfoggia una performance opaca. All’Équipe ha confessato: «Avevo una commozione cerebrale in corso, non mi ero ripreso dalla pallonata in campionato. L’ho percepito sin dal riscaldamento, non ero reattivo né concentrato, mi sentivo intorpidito, stanchissimo. Era come se fossi uno spettatore, infatti ho giocato male».

«I calciatori sono abituati ai dolori, alle botte, allo sforzo fisico. Ma alcuni sintomi sono subdoli, invisibili, o magari li riconduci ad altro, come alla stanchezza di fine stagione. E poi mi chiedo: anche se avessi saputo cosa mi stava succedendo, avrei rinunciato a giocare partite così importanti? Non saprei. A quel tempo non ero un padre di famiglia, oggi con tre figli ragiono in modo diverso. So per certo di aver danneggiato il mio corpo, con gli infortuni alla testa non si scherza».

Varane è stato spinto a queste riflessioni dopo aver incontrato alcuni specialisti invitati dal Manchester United, che hanno suggerito ai giocatori di non colpire il pallone di testa per più di dieci volte in allenamento. Tuttavia, secondo il difensore francese in partita non bisogna limitarsi, perché si entra nell’ambito dei rischi del mestiere. Anche se afferma: «Da bambino facevo allenamenti interi sui colpi di testa, non è normale. Mio figlio di 7 anni gioca a calcio, ma gli ho consigliato di evitarli. Spero che le cose cambino, possiamo fare tanti progressi ed è un tema vitale per la salute dei giocatori».

Una questione spinosa

Che i colpi in testa in generale non siano un toccasana è noto. Ma se in alcuni sport che li prevedono nella loro pratica viene considerato un danno inevitabile – come la boxe, per cui paradossalmente il pubblico ne ha accettato di buon grado le conseguenze nei pugili (anche se la questione è più complessa di così) – in altri il discorso è molto diverso. È per esempio il caso del football americano, con la NFL, diversi media e tanti tifosi che hanno fatto fatica ad accettare che i loro beniamini morissero suicidi a causa dell’encefalopatia traumatica cronica (o CTE), scatenata dagli scontri di gioco (ne abbiamo già parlato approfonditamente), che fanno parte dello spettacolo del gioco. Ma si potrebbe parlare anche del calcio, dato che l’impatto con un pallone che viaggia ad alta velocità o con la testa di un avversario può provocare gravi conseguenze.

A sinistra un cervello sano, a destra uno afflitto da CTE (via Boston University Center for the Study of Traumatic Encephalopathy).

Prima di tutto, bisogna specificare che non esistono ancora prove certe di una correlazione tra i colpi di testa e i danni al cervello a lungo termine nei calciatori. In questi casi è sempre difficile stabilire un rapporto evidente di causa-effetto – il cervello umano è ancora complesso da decifrare - ma purtroppo questa complessità è spesso servita a denigrare o a ostacolare ricerche con risultati scomodi. Un esempio è di nuovo il comportamento della NFL quando è esplosa la questione della CTE, con una spasmodica resistenza della Lega ad accettarla e a prendere provvedimenti a tutela della salute dei giocatori, come infine avvenuto. Nel calcio ci sono diversi indizi a riguardo, e possiamo anche dire che la scienza ha individuato come probabili cause di demenza nei giocatori solo i colpi di testa, che sono diventati quindi gli unici sospettati.

Due studi accreditati, uno su una selezione di giocatori del campionato scozzese e un altro su quelli del campionato svedese, hanno paragonato un campione di calciatori a uno di persone comuni, riportando che i giocatori dimostrano fino al quadruplo delle possibilità di sviluppare demenza, Alzheimer, deficit cognitivi. Inoltre, chi ha avuto una carriera più lunga registra una propensione maggiore a incorrere in queste problematiche, e i difensori sono più esposti. Altre ricerche coordinate dalla Columbia University, che hanno monitorato un campione di calciatori per due anni, hanno evidenziato come "livelli elevati di colpi di testa sono associati a cambiamenti nella microstruttura del cervello simili a quelli osservati nelle lesioni cerebrali traumatiche lievi, ma anche a prestazioni inferiori nel campo dell'apprendimento verbale", spiega il responsabile del progetto. Non solo: comportano anche la modifica del confine tra materia bianca e grigia, rendendolo sfumato, mentre solitamente è molto netto, e ciò potrebbe scatenare disturbi cerebrali e cognitivi.

Nel 2016, intervistato da La Repubblica, Piero Volpi, capo della struttura sanitaria dell’Inter, ha dichiarato: «Già con l'Associazione Calciatori avevamo iniziato a lavorare per ricostruire una profilassi preventiva contro i traumi a carico della testa. I rischi maggiori non si corrono quando viene colpita la palla di testa da un corner, di solito sono sfioramenti, impatti relativamente pericolosi. Il vero problema può presentarsi quando, per esempio, una punizione colpisce il volto o la fronte di un ragazzo in barriera, non preparato a contrastare il pallone. Oppure nei contrasti aerei».

In aggiunta, sono stati registrati casi di encefalopatia traumatica cronica anche in ex calciatori morti di demenza, che presentavano cervelli molto simili a quelli dei pugili deceduti nelle stesse circostanze. D’altronde il neuropatologo Willie Stewart, che conduce ricerche sulle lesioni cerebrali da decenni, ha paragonato i palloni moderni ai guantoni da boxe, sia come peso che per somiglianza a livello di impatto, dato che «comportano un rischio superiore di traumi rispetto ai palloni usati in passato perché prendono maggiore velocità nella traiettoria, arrivano più lontano e colpiscono la testa con un’irruenza maggiore».

Un ulteriore, importante fattore di rischio è dato dal fatto che spesso la velocità del pallone provoca la rotazione della testa o un suo movimento repentino laterale, dinamica dannosa per il cervello umano perché comporta lo stiramento del tessuto cerebrale. Raramente questi colpi causano lesioni immediate, ma se ripetuti nel tempo possono generare danni permanenti.

L’infortunio in Chievo-Inter del 2010 di Cristian Chivu, che nell'occasione si fratturò il cranio.

È il caso di Jeff Astle, forse il più conosciuto perché ha contribuito a cambiare l’atteggiamento della FA sui colpi di testa (da quel momento in poi, come vedremo, è aumentata la prevenzione). Astle - attaccante del West Browmich e della Nazionale inglese, ritirato nel 1977 - muore a 59 anni con una demenza galoppante. Tempo dopo, l’autopsia scopre che era malato di CTE: il suo cervello assomigliava a quello di un novantenne.

Scott Vermillion, invece, aveva 44 anni quando è morto di overdose, dopo una carriera che lo aveva portato fino alla MLS. La famiglia ha raccontato che dal momento del suo ritiro, Vermillion aveva cominciato a soffrire di depressione, sbalzi d’umore, scatti d’ira, perdita di memoria. Giocava a calcio da quando aveva 5 anni. Esaminandone il cervello, i medici hanno evidenziato la CTE. Anche a Nobby Stiles, uno dei sei giocatori della Nazionale inglese vincitrice del Mondiale del 1966 ad aver sviluppato una forma di demenza, è stata diagnosticata la CTE, e la sua famiglia ha fatto causa alla FA.

Tra nuovi protocolli e gioco moderno

Insomma, tra ex calciatori preoccupati per la propria salute - come ha confessato di esserlo Aldo Serena in un’intervista a La Repubblica - e chi invece minimizza sostenendo quanto l’incidenza dei casi non sia significativa, che i campioni in esame siano esigui o che si concentrino solo su chi ha mostrato dei sintomi e perciò siano viziati, il tema resta divisivo. Che poi, anche se l’incidenza non fosse così elevata, sarebbe un dato abbastanza rassicurante per ignorare il problema?

Intanto, qualche cambiamento è avvenuto. In alcuni Paesi i colpi di testa sono già stati limitati nelle squadre giovanili – e anche la UEFA lo consiglia. Negli Stati Uniti è accaduto nel 2015, con un divieto che riguarda i bambini sotto ai dieci anni. Sulla decisione è stato fatto anche uno studio che segnalava l’aumento di commozioni cerebrali nei ragazzini nonostante il divieto. Lo stesso studio, però, ha concluso che "i nostri risultati siano stati influenzati da un aumento delle segnalazioni dovute a una nuova sensibilità sul tema”. Un anno fa il Regno Unito ha introdotto lo stesso divieto per le categorie Under 12, in un progetto pilota che potrebbe diventare una regola definitiva.

Da un altro punto di vista, il calcio stesso sembrerebbe evolversi escludendo sempre di più questo fondamentale. Gli attaccanti davvero abili nel colpo di testa ormai sono piuttosto rari e può essere presa come una buona notizia in questo senso anche lo sviluppo della costruzione dal basso, che ha diminuito molto i lanci lunghi, e il progressivo calo dei cross dalle fasce, ormai considerati inefficienti da un punto di vista statistico. Secondo un allenatore del campionato scozzese, il colpo di testa nel calcio è un’arte in via di estinzione.

Un parere autorevole

«Manca la prova provata ma c'è un ragionevole dubbio, un razionale logico, in parole povere: l'ipotesi che i colpi di testa possano causare danni cerebrali nei calciatori non è campata in aria», mi spiega Leonardo Pantoni dice, professore ordinario di Neurologia dell’Università degli Studi di Milano e direttore del reparto di Neurologia dell’Ospedale Sacco di Milano. «Non si è trovato un nesso dimostrabile tra causa ed effetto prima di tutto perché, per diagnosticare con certezza alcune malattie degenerative del cervello come l'encefalopatia traumatica cronica, l'unico esame disponibile è l'autopsia, e quindi è eseguibile solo post mortem. Ciò significa che si esaminano cervelli di persone, in questo caso di atleti, deceduti decenni dopo il ritiro dall'attività agonistica: nel frattempo ci possono essere altri, svariati fattori [vascolari, genetici, ecc, nda] che hanno influito sul malfunzionamento cerebrale. Insomma, il modello trauma uguale conseguenza comprovata, in questo campo non funziona. La svolta sarebbe poter osservare alcune dinamiche cerebrali con il paziente ancora in vita. Sono già state sviluppate nuove tecniche di risonanza magnetica che lo permettono, e il progresso aiuterà sicuramente la ricerca».

«Nell’ambito di questo discorso non ci riferiamo ai traumi cerebrali gravi, che comportano perdita di conoscenza, emorragie, incapacità fisiche e cognitive, ma di traumatismi subliminali, cioè meno intensi, che non hanno effetti immediati e riconoscibili ma che, se ripetuti nel tempo – si parla di anni e di un accumulo di migliaia di colpi - possono causare danni cerebrali permanenti», aggiunge Pantoni «Non si tratta quindi del calciatore che accusa un trauma cranico e crolla per terra, svenuto, ma di quello che colpisce il pallone di testa, subisce una lesione microscopica, un’emorragia piccolissima che sul momento non gli scatena nessun sintomo, ma che, ripetendo il gesto per un'intera carriera, rischia di innescare processi neurodegenerativi».

Peraltro, la CTE non è l’unica malattia accostata ai giocatori di calcio. «In passato c'è stata una segnalazione dei colleghi torinesi di un'aumentata incidenza di SLA nei calciatori», mi dice Pantoni «Si tratta di una malattia che coinvolge i muscoli, ma in realtà il danno è neuronale, dei centri nervosi. Anche in questo caso non abbiamo conferme definitive. Le ipotesi erano tre: che i calciatori avessero contratto la malattia respirando i pesticidi e i prodotti chimici usati nei campi di calcio per trattare l'erba, che si fosse sviluppata in seguito all’assunzione di doping, oppure che la SLA fosse il risultato di traumi cerebrali. I dati sono dibattuti anche perché la SLA è una malattia rara, quindi studiarla e fare ricerca è ancora più complesso».

«Se la ricerca progredisce e alcuni risultati vengono confermati, non escluderei che si possa arrivare a un calcio senza colpi di testa», mi dice Pantoni «In altri Paesi si è intervenuti sui bambini – misura su cui sono molto d'accordo - perché hanno una struttura anatomica che li espone di più al rischio di avere conseguenze gravi da adulti: il loro collo è poco solido e strutturato per sorreggere al meglio la testa in caso di impatti traumatici».

La situazione sul campo

Sulla questione ho sentito anche Giorgio Firpo, medico dello sport e responsabile sanitario della Virtus Entella, in passato medico sociale della Juventus Women. «È una questione controversa, in divenire. Nel mondo del calcio e tra colleghi è un tema attuale», mi dice Firpo «Ne abbiamo parlato recentemente al raduno dei medici dello sport a Coverciano e le Federazioni seguono da vicino potenziali sviluppi, soprattutto per capire, nel caso in cui alcuni indizi fossero confermati, come intervenire a livello di prevenzione».

Ma al di là della partita, quanto spesso i giocatori colpiscono di testa il pallone? «In allenamento può capitare che si faccia qualche esercizio specifico sul colpo di testa, ma a bassa intensità, per lavorare sulla tecnica, e comunque è raro», mi risponde Firpo. «Il calcio sta cambiando e lo si nota anche nelle serie minori: per la mia esperienza, i giocatori si allenano soprattutto palla a terra. Gli infortuni più frequenti sono muscolari, da stiramento, oppure articolari, soprattutto a livello di caviglia, e poi i traumi contusivi. Quelli cranici sono rari, specialmente rispetto ad altre discipline da contatto – ma al di là dei casi più eclatanti ci sono anche i traumi subconcussivi, cioè quelli meno gravi, che sono i più insidiosi perché hanno sintomi lievi [o a volte, come abbiamo visto, assenti, nda] e con cui si procede con una diagnosi clinica [dialogando con l’atleta e basandosi sulle osservazioni del medico, senza esami specifici, nda]».

Victor Osimhen esce dal campo dopo il celebre contrasto con Milan Skriniar che gli costa 3 mesi di stop, nel 2021. Il chirurgo che lo opera dichiara: «È come se fosse finito sotto una pressa».

«In caso di un infortunio di questo tipo ci sono dei protocolli secondo cui il giocatore deve stare a riposo per poi riprendere a fare attività gradualmente, dall’aerobica alla palestra fino al campo, valutandolo passo dopo passo. Se l’episodio è stato lieve, il recupero dura una settimana circa», precisa Firpo. Che poi rivela un’altra componente importante: «La comunicazione tra atleta e medico è fondamentale, il calciatore deve potersi fidare. Da parte mia devo saper intervenire al momento giusto, senza limitarlo né spaventarlo, è un equilibrio sottile. Aiuta il fatto che il rapporto sia quotidiano: seguo quasi tutti gli allenamenti per capire come si muove ogni giocatore, quali caratteristiche ha, per imparare a conoscerlo. E poi ci dev’essere collaborazione tra le diverse aree della società, dal preparatore atletico all’allenatore, fino alla dirigenza. In un ambiente sano e in cui si comunica, il calciatore si sente più libero di esprimersi».

«A livello di regole, le gomitate sono sanzionate duramente, sono state introdotte le mascherine protettive al rientro in campo dopo aver subìto fratture, eccetera. Anche da un punto di vista della consapevolezza, della sensibilità sul tema, le acque si stanno smuovendo» afferma Firpo. «Per arrivare a provvedimenti drastici, però, come vietare i colpi di testa, bisognerebbe avere basi solide che ne provino la pericolosità.

«Se arriveranno prove certe, come medico, ma anche nello spirito delle persone che gravitano intorno al calcio, non ho dubbi: la salute dell’atleta viene prima di tutto».

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura