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Cosa resterà di questa Copa América Centenario
30 giu 2016
30 giu 2016
Rivincite fallite, polemiche, errori, inadeguatezze varie, delusioni, tragedie nazionali della Copa América più melodrammatica degli ultimi anni.
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Due colonne

di Stefano Borghi

Sto ancora cercando i capire come abbia fatto il Cile a risorgere per confermarsi, perché eravamo tutti piuttosto convinti che la "Roja" sarebbe andata incontro a un ridimensionamento che ci sembrava razionalmente inevitabile e che invece non è per nulla avvenuto, confermando che: «Il calcio è uno dei mezzi migliori per trascendere la ragione» (la più bella immagine mai costruita dai Antonio Conte con le parole, peraltro); e il Sudamerica una zona del mondo in cui questo fenomeno trova un terreno molto indicato per verificarsi.

Le figure sono state inevitabilmente quelle di Vidal (il diamante, grezzo finché volete ma dalla caratura indiscutibilmente superiore) e Alexis Sánchez (il braccio armato, anzi meglio: una mitragliatrice). Però, se queste sono state le due pietre angolari nella costruzione del Macanudo Pizzi, finalmente premiato per meriti che ha sempre dimostrato ma che non sempre gli sono stati riconosciuti, le due colonne sono state Edu Vargas su un fronte e Claudio Bravo sull'altro.

Per parlare di loro, parto dalle due domande più immediate: perché Vargas nel Cile è una stella e nel Napoli (ma in generale in Europa) non ha mai dato dimostrazioni significative?

Al di là dei tormentoni di cui è onorificato: Il suo nome è Eduardo / sembra un dardo / quando scappa non lo puoi fermar!

Secondo me il motivo è questo: Edu Vargas ha nel cambio di passo e nei giri altissimi che riesce a prendere col suo motore la caratteristica più importante del suo gioco. Questa caratteristica diventa devastante nel calcio sudamericano, costantemente in grado di offrire un livello tecnico globale superiore a quello europeo ma molto meno esigente sul piano fisico/atletico, ragion per cui la sua rapidità e la sua capacità tecnica in velocità diventano più normali nel football che si gioca al di qua dell'oceano e contro avversari mediamente più allenati atleticamente.

Camargo era il primo dei titubanti circa una resurrezione di Claudio Bravo.

Seconda domanda: come si fa ad eleggere Miglior Portiere del torneo un giocatore che nella fase a gironi ha compiuto diversi errori ai limiti dell'inconcepibile? Anche qua voglio essere diretto: giusto così, Bravo è senza dubbio il miglior portiere sudamericano. Un giocatore splendidamente sobrio, tecnicamente completissimo anche con i piedi, fondamentale sul piano del temperamento e costantemente decisivo negli ultimi due anni, sia per il club che per la Nazionale.

La sua unica colpa è quella di essere meno appariscente di molti colleghi, però non è assolutamente distante dal lotto dei Magnifici Quattro: Buffon (sovrano assoluto), Neuer, Courtois e De Gea. Oltretutto, i problemi della figlia non sono solo una spiegazione sufficiente per archiviare le sviste dell'inizio, ma addirittura un ulteriore punto d'onore: riuscire a resettare la mente nei momenti decisivi è cosa.

Un unsung hero principesco

di Giulio Di Cienzo

Charles Aránguiz è l’unsung hero per eccellenza del Cile di questo biennio. È un elemento fondamentale non solo del centrocampo, ma di tutta l’organizzazione della "Roja": sa leggere tatticamente il gioco, ha un dinamismo unico, è solido nei contrasti, ha qualità e geometrie, corsa verticale e inserimenti. "El Príncipe", com'è soprannominato, può fare tutto in mezzo al campo e quando indossa la maglia del Cile lo fa con continuità e qualità, adattandosi ad ogni compagno, sobbarcandosi compiti che gli altri lasciano scoperti.

Non è un caso che la “crisi” vissuta da Pizzi fino, praticamente, alla fase ad eliminazione della Copa Centenario sia coincisa o con la sua assenza o con la fase di rodaggio successiva all’infortunio al tendine d’Achille che gli ha fatto perdere praticamente tutta la stagione con il Bayer Leverkusen, al suo suo primo, attesissimo, anno in Europa.

Charlie sbuca da una voragine spazio-temporale che a infilarcisi dentro si torna al 14 Giugno 2015.

La firma di Aránguiz sulla vittoria del Cile è arrivata nella sfida con la Colombia: la "Roja" si trovava in una situazione di emergenza pura, potenzialmente gravissima, con Vidal squalificato e Díaz infortunato. Praticamente era indisponibile il centrocampo titolare, unico superstite in mediana si è trovato a giocare con Hernández e Silva, non esattamente nomi di spessore, e ha risposto da leader: ha preso in mano la squadra e ha pure sbloccato il risultato indirizzando il Cile verso la seconda finale consecutiva, dove è tornato a giocare da riferimento davanti alla difesa affiancato dai suoi compagni abituali.

Se c’è stata una partita che ha tolto ogni dubbio sul suo pieno recupero e ha dimostrato che con lui in forma cambiano le prospettive del Cile, è proprio la semifinale contro la Colombia.

Dopo quello contro il Brasile del 2014, Charlie Aránguiz ha sfoderato un altro penal arrogantissimo che ha vinto a mani basse il premio per il rigore più bullo della Copa América Centenario.

Premio Miglior Polemica Poi Rivelatasi Inutile: Chi sarebbero stati i campioni in carica dell’America America?

di Fabrizio Gabrielli

In realtà si tratta di una questione di lana caprina, perché ovviamente i Campioni definitivi di tutte le Americhe, continentali e arcipelagiche, sono gli uomini che vestono la maglia della Roja, l’ha ribadito il campo e siamo tutti (più o meno) in pace con noi stessi così.

Però è interessante fare un passo indietro per capire quanto panico abbia saputo generare la conferenza stampa congiunta delle tre federazioni coinvolte nell’organizzazione della Copa América Centenario, cioè la CONMEBOL, la CONCACAF e gli Stati Uniti d’America (ragionevolmente, calcisticamente e non, una specie di confederazione a sé), in limine alla finale. Finale di tutto, o almeno così dava l’impressione di prefigurarsi.

Alejandro Dominguez, il paraguayano presidente della CONMEBOL, ha una faccia rassicurante (e di questi tempi, a quelle latitudini, non è poco): seduto al centro, durante la conferenza stampa, tra Montagliani (presidente della CONCACAF) e Sunil Gulati (presidente della USFF, la Federcalcio Statunitense), sembrava Winston Churchill alla Conferenza di Yalta, solo più giovane e imbolsito.

Una faccia che non sembra quella di un tipo che può gettarti nel panico. E invece per una manciata di ore lo ha fatto: se l’Argentina avesse vinto la finale, chi si sarebbe dovuto fregiare del titolo di Campione d’America, la vincitrice dell'edizione 2016 o quella dell'edizione 2015 (come era stato precedentemente stabilito)?

Potenzialmente, sempre se l'Argentina avesse vinto, si sarebbe potuta aprire una crisi proprio con il Cile per rappresentare il Sud America alla Confederations Cup dell’anno prossimo in Russia, sulla base di un principio di attualità non del tutto campato in aria ma che, di fatto, contraddiceva i presupposti con cui si era cominciato il torneo. Il dubbio - sulla cui ragionevolezza si può discutere - l’ha sollevato lui, Alejandro Dominguez.

Un motivo per essere felici, alla fine, lo hanno comunque trovato tutti: con un comunicato stampa stringato ma perentorio la CONMEBOL ha dimostrato di saper precorrere i tempi e azzeccare previsioni fuori dalla portata dei più acuti scommettitori (dato che in realtà che dovesse essere comunque il Cile era scritto già nel regolamento della Copa América 2015) salvando la credibilità sorniona del loro prez. In tutto ciò la CONCACAF ha intravisto nei propositi di collaborazione futura una specie di miniera d’oro oltre che un’opportunità di crescita senza precedenti, come se questa Copa América Enlarged fosse un fratello adottivo più grande da affiancare alla Gold Cup che, al confronto, agli uomini di Jamaica e Haiti e Panama, dovrà sembrare un torneo parrocchiale. E gli Stati Uniti, beh, con i loro 70mila spettatori di media e un seguito appassionato hanno definitivamente disvelato le proprie ambizioni a ospitare la Coppa del Mondo 2026 (per l’organizzazione della quale, secondo Gianni Infantino, sarebbero pronti già domani).

La battuta di Sunil Gulati: “Proprio stamattina con Victor (Montagliani, NdA) stavamo riflettendo sull’idea di un torneo con 10 squadre dalla CONMEBOL, 10 dalla CONCACAF e le quattro britanniche, Inghilterra Galles Scozia e Irlanda del Nord, che a quanto pare ora avranno bisogno di un posto per giocare; sarebbe un torneo a 24 squadre molto interessante, la risposta perfetta per gli Europei”.

La spensierata inadeguatezza di Haiti

Andrea Bracco

Un gol fatto e ben dodici subiti in tre partite, eppure una volta rientrata a Port-au-Prince la Nazionale di Haiti è stata accolta da vincitrice, come se a New York fossero stati loro ad alzare la Copa América. Innanzitutto perché quello haitiano è un popolo fiero ed orgoglioso di ciò che è stato ricostruito in questi anni, dopo il terremoto del 2011 il paese fu investito da ondate di crisi, fame e malattie, ed il calcio è stato il mezzo per ricominciare a vivere, portando un po' di leggerezza in un contesto decisamente difficile.

La qualificazione per una manifestazione di calibro internazionale ha rappresentato quindi l’apice di questa rinascita, dopo lo spareggio vinto contro Trinidad & Tobago in cui la selezione allenata da Patrice Neveu si è imposta addirittura a domicilio, grazie ad una rete nel finale.

Duckens Nazon ne sa a pacchi.

Con l’alzarsi del livello, però, Haiti ne è uscita ridimensionata: nel girone contro Perù, Brasile ed Ecuador, les Grenadiers hanno provato anche a proporre qualcosa di interessante, scontrandosi con l’effettivo valore tecnico di una rosa non propriamente di prima fascia. Nonostante ciò, nella partita con il Perù hanno rischiato di centrare un pareggio clamoroso al 93°, quando Kevin Belfort a porta vuota ha graziato Gallese, portiere del Perù, fallendo clamorosamente da due passi un pallone che chiedeva solo di essere spinto dentro.

GUARDA QUI IL VIDEO CHE HA COMMOSSO IL WEB!!1!

Ecco, questa è un po’ la fotografia della Copa América disputata da Haiti: generosità, imprecisione, un po’ di sfortuna. Insomma, la Cenerentola perfetta. Ma da qui bisogna ripartire, come ha detto pochi giorni fa Yves Jean-Bart, numero uno della federazione: «Il nostro obiettivo è crescere ulteriormente, iniziando a giocarcela con le nazionali più forti e - perché no - arrivare a disputare un mondiale».

La crescita, in termini di risultati, è un dato di fatto già da qualche anno. Della Nazionale del futuro, oltre al già citato Belfort, faranno parte alcuni ragazzi molto interessanti che “studiano” da professionisti in Francia: come il portiere Placide, perno del Nizza Genevois; o la punta Nazon. Nel frattempo, godiamoci l’esultanza dei caraibici dopo l’unico gol del torneo, segnato al Brasile: la vera essenza del calcio a queste latitudini.

A proposito di Haiti, abbiamo il vincitore per il premio La migliore Storiella Edificante

Fabrizio Gabrielli

Anche se non ha potuto partecipare alla kermesse per via di un infortunio al tendine rotuleo (e solo Jurgen Klinsmann sa quanto gli avrebbe potuto fare comodo), Jozy Altidore ha trovato comunque il modo di ritagliarsi un ruolo da protagonista in questa Copa affinché fosse ricordata un po’ anche come la sua Copa. Originario di Haiti, In collaborazione con la St. Luke Foundation ha fatto sì che decine di migliaia di persone potessero seguire les Grenadiers (e non solo) lungo tutto il cammino della competizione: non solo ha praticamente pagato la copertura televisiva di dieci partite (quelle di Haiti, quelle della USMNT, le semifinali e la finale), ma ha anche fatto trasportare da Miami a Port-au-Prince decine di maxi-schermi e organizzato watch parties. La squadra di Noveau le ha raccolte un po’ da tutti, ma questo conta relativamente.

Delusione Celeste

Stefano Borghi

L'Uruguay mi ha deluso. Più che deluso, un po' addolorato. Avevo qualche aspettativa: era chiaro come l'apice di questo ciclo fosse già stato toccato (e l'aver cambiato praticamente zero non ha certo portato aria fresca...), però pensavo si potesse vedere qualcosa. E invece, nulla. Mi dispiace in primis per il Maestro Tabárez, grande allenatore e soprattutto persona meritevolissima della stima di tutti: vederlo inchiodato alla panchina, zavorrato dai problemi fisici ma soprattutto dall'incapacità ormai acclarata di incidere davvero sia nell'evoluzione della squadra che durante la partita, mi hanno colpito il cuore. La fine arriva per tutto, anche per la grande parabola di un grande uomo di calcio.

Dispiacere anche per gli zero minuti di Suárez: lui ne avrebbe voluti anche se difficilmente avrebbe potuto fare qualcosa di diverso, visto che – concretamente - avrebbe al massimo potuto trovare una frazione di secondo tempo contro il Venezuela, troppo poco per poter costruire un vero rimpianto e una vera critica a chi, fondamentalmente, ha deciso di non fargli correre il minimo rischio in vista della prossima stagione.

Si sta / come d’inverno / sul divano a vedere serie TV / le scarpe lanciate.

Un pizzico di rabbia, ma giusto un pizzico perché i giovani vanno protetti, la riservo per due ragazzi dai quali ci si poteva legittimamente attendere di più: in primis Matías Vecino, una figura le cui caratteristiche possono dare qualcosa di nuovo e di molto importante a questo gruppo, e che invece ha giocato solo una quarantina di minuti prima di vedere il capolinea (per sé e per tutta la sua squadra) per un cartellino rosso che doveva assolutamente evitare.

Poi anche Josema Giménez: ha fatto qualche errore di troppo per un centrale con le sue prospettive e il suo status, così come era già successo più di una volta nei momenti di massima pressione della sua stagione. Giménez ha tutto per diventare uno dei migliori stopper del mondo, però è già una figura, per questo i suoi miglioramenti e la sua stabilizzazione sugli standard più alti deve avvenire quanto prima, altrimenti si rischia di sprecare qualcosa.

Chiedere a Varane.

Il miglior momento Confusione & Fastidio

Fabrizio Gabrielli

Che le cose per l’Uruguay non sarebbero girate per niente per il verso giusto ce ne saremmo dovuti accorgere già dai primissimi istanti della loro partita d’esordio nella fase a gironi, quella contro il Messico. Al Phoenix Stadium di Glendale, Arizona, qualcuno deve essersi distratto con le bandiere, la geografia, la vita, e ha spinto play su Soundcloud sull’inno sbagliato: quello del Cile.

Se col senno di poi pare evidente l’intento di spoilerare gli esiti del torneo, nell’immediatezza quel momento così eminentemente DaDa è parso una trollata in full-effect: voglio dire, Luis Suárez ha divorato cuori per molto meno.

Muslera è il più imbarazzato; Álvaro Pereira lancia uno sguardo che sembra una lingua di fuoco e anche il ragazzino biondissimo di fronte a lui dà l’impressione di essere sinceramente costernato. Laxalt semplicemente cade dal pero, mentre el Pistolero si porta la mano all’orecchio, all’auricolare nascosto che lo tiene in collegamento costante con il Governo del Mondo, come Ambra Angiolini quando si affidava a Boncompagni per interpretare il mondo che gli si spalancava di fronte, per accertarsi che qualcuno dovrà pur morire dopo essersi macchiato di quest’onta (il più confuso, alla fine della fiera, però, è sempre John).

Certo, l’organizzazionepoi si è scusata: resta il fatto che quella sera, comunque, le note della Celeste non si sono mai accese. Neppure il gioco degli uomini di Tabàrez, per dirla tutta.

Vogliamo pensare che ogni fine sia un nuovo inizio?

Andrea Bracco

Probabilmente l’Uruguay è arrivato a fine ciclo, ed era preventivabile, perché se ben ricordiamo è dal 2010 che (al netto di innesti ed addii) questa squadra conta sulla stessa spina dorsale. Il problema più grande, secondo me, è non aver (ancora) trovato il ricambio a livello caratteriale. Giocatori come Diego Lugano e Forlán erano dei veri valori aggiunti dal punto di vista della leadership, mentre ad oggi - con la sola eccezione di Godín e Suárez - l’assenza di grinta è ciò che più mi ha colpito.

A questo punto rimane da chiedersi se per Tabárez sia arrivato il capolinea: purtroppo, lo dico col cuore in mano, anche il Maestro ha le sue colpe per l’ultimo biennio sfocato di questa selezione, soprattutto dopo la maxi squalifica comminata a Suárez per il morso a Chiellini. In quel momento, Tabárez non ha saputo reinventare la squadra, ma anzi tatticamente l’ha forzata - snaturandola - insistendo sul 4-4-2 con esterni non di ruolo (Lodeiro?) e, in alcuni casi, anche disarmante pochezza tecnica. Molto spesso l’Uruguay si è salvato con le palle inattive, categoria in cui può contare su uno dei saltatori migliori al mondo: Diego Godín.

Che fare adesso? Innanzitutto servono forze fresche per dare l’assalto al Mondiale russo; ragazzi come Brian Lozano, De Arrascaeta, Nahitan Nandéz devono per forza entrare nelle rotazioni di questa Nazionale, alla ricerca disperata di una nuova identità.

La "Celeste" che verrà passa per Nahitan Nández e “Bochita” Fagúndez?

In secondo luogo, attorno agli uomini chiave andrà costruita un’intelaiatura congeniale, magari affidandosi ad un trequartista di ruolo (Gastón Ramírez?) di modo da permettere ai due attaccanti di giocare insieme e pungere di più . Insomma, secondo me c’è il materiale per tornare ai fasti del 2011, a patto che tutti - Tabárez in testa - si facciano un esame di coscienza.

La migliore Narrazione

Fabrizio Gabrielli

La forma è il settanta per cento dell’esperienza di narrazione di un contenuto. E qua il contenuto, di per sé, è strabiliante: i primi diciannove minuti di Messi in Copa América corrispondono a una manciata di napalm cosparsa sulla trequarti panamense.

Il telecronista di TyC, la piattaforma sportiva rioplatense che detiene (e ha detenuto) i diritti di qualsiasi manifestazione calcistica alla quale è associabile il termine argentino, conquista la Coppa Ta-Ta-Ta-Ta-Genio™ celebrando l’arrivo trionfante di Giulio Cesare a Roma in una maniera naif come quella di Víctor Hugo Morales e al tempo stesso gonfia di anglismi come una litania eucaristica di Víctor Hugo Morales non sarebbe mai potuta essere.

Una fotografia (o una gif) dei tempi, immagino, che ha la meglio soltanto di una pagliuzza sulla filastroccaHaiti a marqué un golandata in onda sulle frequenze di una radio locale antillana.

Il fallimento (anche) di Higuain & Di Maria

Giulio Di Cienzo

Giambattista Vico è famoso tra le altre cose come padre della teoria dei corsi e ricorsi storici. Il filosofo era convinto che la storia fosse caratterizzata dal ripetersi di cicli che non si susseguivano per caso, ma in modo predeterminato e regolamentato. Dubito si interessasse di sport, ma se per caso potesse interessarsi al calcio del nostro millennio troverebbe di sicuro stimolante il destino di Gonzalo Higuaín e Ángel Di Maria nelle tre finali consecutive perse dall’Argentina, e probabilmente i due diverrebbero i suoi giocatori preferiti. Vico tra l’altro era di Napoli, quindi il legame con il Pipita non sarebbe difficile da sviluppare.

La ripetitività degli eventi che riguardano il numero 9 e il numero 7, e purtroppo di riflesso tutta la "Selección", è infatti semplicemente incredibile. Contro Germania e due volte Cile tutto è andato secondo cicli chiarissimi, quasi uguali e tutti con lo stesso finale. Di Maria, uno dei giocatori più decisivi per la sua capacità di inventare fuori da qualsiasi canovaccio, non ha mai potuto dare il suo contributo nella fase finale a causa di problemi fisici più o meno seri.

A Higuaín è andata pure peggio: un giocatore da oltre 200 gol coi club in carriera, con una media di quasi una rete ogni due partite con l’Argentina ha sempre giocato, ma è rimasto sempre a secco, divorandosi occasioni che in condizioni normali, senza spartiti determinati dal destino, segnerebbe anche bendato. Difficile stabilire se sia peggio quella contro Neuer del 2014 su regalo di Kroos o quella di questa Copa Centenario contro Bravo su omaggio di Medel. Il risultato però è lo stesso: palla a lato, vittoria finale degli altri.

Higuaín e Di Maria, due giocatori tra i più forti della loro generazione, sono vittime di un destino fatto di corsi e ricorsi. Una specie di maledizione a cui nessuno dei due ha potuto ribellarsi.

Ci sono anche aspetti positivi, dài: pensiamo agli arbitraggi.

Andrea Bracco

No, di positivo in realtà non c’è proprio niente: purtroppo anche questa Copa América è stata caratterizzata da alcuni arbitraggi al limite dello scadente. Secondo me ci sono due episodi in particolare che non possono esistere su un campo da calcio. Entrambi hanno coinvolto il Brasile, prima nella partita contro l’Ecuador quando alla Trí è stato annullato un gol clamoroso (la palla non aveva assolutamente superato la linea di porta)

E poi nella “bella” contro il Perù, decisa da La mano de AD10S (sì, i quotidiani peruviani sono il massimo) di Ruidíaz. Più in generale, secondo me, è mancato anche il buon senso nella gestione delle partite: basti pensare alla finale quando - a metà ripresa - Argentina e Cile si sono ritrovate entrambe in dieci per due cartellini rossi decisamente esagerati.

Fermo restando che gli errori possono capitare e - come in questo caso - colpire tutti, la FIFA dovrebbe iniziare a chiedersi se la classe arbitrale internazionale sia davvero di buon livello. O se magari fosse opportuno metterci mano al più presto.

Un Superclassico: I cinque migliori tagli di capelli (e la migliore barba)

Fabrizio Gabrielli

5. Gyasi Zardes (USA)

In principio sono stati Dennis Rodman e Sisqo: poi è arrivato il tempo in cui il calciatore-nero-coi-capelli-biondi era una specie di cliché feticcio di noialtri echo boomers cresciuti con l’idea che il talento, l’estro e l’africanità dovessero per forza mescolarsi in un impasto sintetico fatto della stessa materia di cui è fatta l’acqua ossigenata. Gyasi (nome di origine Akan che significa bambino meraviglioso) Zardes ha rinverdito i fasti della biondità applicata all’afroamericanismo sfoggiando una cresta mohawk platinata che è ormai diventata un suo trademark: stando a quello che racconta lui, una capigliatura nata per permettere alla nonna di identificarlo meglio in campo in mezzo a compagni tutti uguali.

Una didascalia perfetta dell’apertura a nuovi orizzonti per il calcio (sud)americano: nessun nero al di sotto del Tropico del Capricorno avrebbe avuto la sfacciataggine di presentarsi alla Copa América così.

4. Pedro Gallese (Perù)

Le fonzies, il play-doh quando lo modellavi nel setaccio e ne uscivano dei lunghi spaghetti vermiformi, le spire flosce di un anemone pescato in riva alla pineta, dove l’acqua è bassa e caldissima: i capelli di Gallese per me sono un catalogo intero di madelenais dell’infanzia. Mi ricordano anche i tentacoli di un polpo, di quelli con cui si preparano ceviche clamorosi. Non è male neppure la barba, un negativo del pizzetto che andava di moda nei ’90.

(Premio della Critica per la Migliore Barba: Nicolas Otamendi)

La migliore barba della Copa América Centenario so far. Anzi: una Barbapar excellance. Perfettamente definita, né troppo lunga né troppo corta, né troppo folta né troppo rada. Per nienteapprossimativa (come quella di Aguero), affatto improvvisata e perciò implausibile (come quelladi Messi), la barba di Otamendi è così virile e gonfia di sé che sembra essere sempre lì per cominciare a vivere di vita propria, staccarsi dalla faccia del General e rincorrere un attaccante che gli è sfuggito dalla marcatura e falciarlo.

Cristian Cueva (Peru)

Questa non è semplicemente una cresta: è un’arrampicata verticale verso la sommità affascinante e perduta del Machu Picchu, dalla quale ogni giocata di Cristian è un tramonto mozzafiato sulla vallata dell’Urubamba.

Victor Ayala (Paraguay)

Equamente distribuiti sui due lati della testa, i capelli di Victor darebbero vita a una pettinatura che se da una parte potrebbe rivelarsi funzionale alla copertura delle orecchie, dall’altra determinerebbe un crollo verticale della sua street credibility tutta imperniata sull’idea di affiliazione honoris causa alla Mara Salvatrucha. Invece, con questa rasatura a contrastare la fronda di salice piangente che getta sull’occhio sinistro un’ombra di malinconia ed emozionalità (la malinconia è racchiusa nel dettaglio delle punte sfilacciate che coprono parzialmente l’occhio), Ayala riesce a convogliare esattamente la sensazione di quello che è: un giovanotto imbolsito che passa giornate intere a giocare alla Play in un salotto in cui devono per forza esserciun mobile in noce insindacabilmente brutto e un ghetto blaster fuori moda.

Rolf Feltscher (Venezuela)

Rolfie ha l’aria di chi si è appena svegliato da una nottata brava e non ha voglia di stare lì a perdere tempo a pettinarsi, tanto è bello lo stesso: riesce a ispirare quel timore misto a odio che abbiamo provato un po’ tutti, almeno una volta nella vita, per l’amico di amici surfista e forzatamente simpatico,piacione e caciarotto, che ci insidia la fidanzata durante una festa di fine anno al Liceo (e la nostra fidanzataun po’ si trastulla nell’idea).

Il vincitore morale della Classifica dei migliori tagli di capelli comunque è lui, non foss’altro per il suo processo avanzato diFellainizzazione: l’ideale ponte di congiunzione tra le nostre nottate in bianco e le frizzanti serate francesi, il taglio che annulla il fuso orario.

Il dolore più grande, ma proprio per distacco.

Stefano Borghi

Un pensiero fisso e costante che fa male, perché la sensazione – la prima di tantissime – è che Leo non se lo meritasse. È il calcio, è lo sport, forse è anche la vita che in certi casi ti mette di fronte a situazioni per le quali imponderabile è l'aggettivo che ti si stampa davanti agli occhi e maledizione, per quanto ci sforziamo di essere razionali, è l'unica spiegazione plausibile che ti si pianta nel cervello.

Gli occhi e il cervello sono stati i protagonisti anche del post partita di Messi. Anzi, lo sono già dal momento del rigore: due sfere prima sconcertate dal dover seguire un puntino rotondo che viaggia verso il cielo, e poi arroventate dallo sconcerto, bagnate da un pianto appena accennato, quasi sovrastato a sua volta dallo shock, uno shock totalmente inatteso, che gli ha paralizzato ogni muscolo.

Poi è toccata al cervello, quello che ha prodotto i pensieri del post, fregandosene e ingannando anche il cuore. Perché se Leo Messi avesse ascoltato il cuore, o forse la pancia, non si sarebbe arreso. La testa, è stata la testa a metterlo ko.

«È finita. Ho perso quattro finali, evidentemente non è cosa per me». Mancava solo «Sono Messi e questa era la MIA Copa América!» per completare il pensiero, perché effettivamente la Pulga la sentiva tutta sua questa Copa del Centenario, l'occasione perfetta e definitiva per chiudere con le ossessioni, chiudere con le dimostrazioni e lanciarsi verso un'eternità da numero uno.

E lo era anche stata, effettivamente: l'entrata in scena con un climax di attesa, saltando la prima, calando una tripletta in mezz'ora alla seconda e prendendo in mano la squadra dalla terza partita. Una Copa praticamente perfetta: 5 gol per diventare il massimo cannoniere della storia dell’Albiceleste ma anche 4 assist, per lasciare intendere che da oggi in avanti Messi sarà totale. Ancor più totale.

Proprio sull'ultimo gradino prima dell'Olimpo la scala si è sgretolata, il quasi-dio è caduto quando meno se lo aspettava ritrovandosi ad essere bambino, con gli occhi sgranati e quella spinta a mollare, a dire «non gioco più».

Non si può fare che non giochi più, Leo. E lo sai.

Perché mollare sarebbe l'unico modo per rendere eterna questa caduta. Rimarrebbe un timbro definitivo. E invece c'è ancora tempo, c'è ancora un Mondiale. Non tanto per vincere per forza qualcosa, perché la storia del calcio è ricca di Immortali che non hanno conosciuto la gloria con la propria Nazionale, da Puškas a Maldini passando per Cruyff.

Quanto per la sua dignità: timbri definitivi, così prematuri, Messi non li merita davvero.

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