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Andrea Lamperti
Il rapimento del padre di Luis Diaz e la storia della Colombia
15 nov 2023
15 nov 2023
Un episodio significativo per il difficile momento che sta vivendo il Paese sudamericano.
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Andrea Lamperti
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IMAGO / PA Images
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Dopo aver segnato al novantacinquesimo il gol dell’1-1 sul campo del Luton, Luis Diaz mostra una maglietta bianca sotto quella da gioco. Sotto c'è scritto: Libertad para papa, cioè "Libertà per papà". Era una partita che si stava mettendo male per il Liverpool, andato sotto a dieci minuti dalla fine e poi salvato da chi, quel giorno, non avrebbe neanche dovuto essere lì. È stato un effimero momento di gioia per Diaz, la cui famiglia ha vissuto momenti drammatici a partire dallo scorso 28 ottobre, giorno del rapimento di suo padre in Colombia. «Un gol che dice molto del suo carattere e della sua forza interiore», ha detto Alisson a fine gara, «Non posso immaginare cosa stia passando in questo momento».

“Questo gol è per la libertà di mio padre e di tutte le persone rapite nel mio Paese”, ha twittato Diaz quella sera, invocando l’attenzione di istituzioni e media.

Alla fine il padre di Luis Diaz è stato liberato, e quindi potremmo considerarla quasi una storia a lieto fine, se non fosse che attraverso di essa si potrebbe raccontare una storia più grande e drammatica. Quella cioè delle atrocità degli ultimi 70 anni in Colombia, dove ancora oggi non si intravede la conclusione di un conflitto sotterraneo che ha causato oltre 450mila morti, 120mila persone scomparse e 55mila rapite. Numeri agghiaccianti, che definiscono le proporzioni della crisi in cui versa il Paese e il contesto in cui si inseriscono i fatti degli ultimi giorni, in un momento delicato e potenzialmente di cruciale importanza per il processo di pacificazione in atto.

Il recente dialogo tra il governo e le organizzazioni paramilitari avevano aperto uno spiraglio di pace, provvisoriamente (illusoriamente?) raggiunto con il cessate il fuoco di quest’estate. Una ventata di speranza, se vogliamo, soprattutto dopo l’elezione nel 2022 del primo presidente di sinistra nella storia del Paese, Gustavo Petro. L’incidente degli ultimi giorni che ha riguardato il padre di Luis Diaz, però, si è trasformato in un affare di risonanza internazionale e potrebbe aver intaccato il precario equilibrio costituito. «Hanno distrutto la fiducia tra le parti, danneggiando seriamente la speranza di raggiungere la pace», ha commentato il presidente Petro. Come si è arrivati a questo?

Rapito per sbaglio

La vicenda ha inizio a Barrancas, cittadina dove ha sempre vissuto la famiglia Diaz e dove Luis Manuel, noto a tutti come “Mane”, ha cresciuto il figlio Luis Fernando, finché il calcio non lo ha chiamato in Europa. Siamo nella regione desertica La Guajira, abitata prevalentemente da famiglie dell’etnia Wayuu, devastata da secoli di colonialismo europeo, con standard critici di benessere sociale. Lo ricorda lo stesso percorso di Luis Diaz, che in adolescenza ha dovuto superare seri problemi di malnutrizione dovuti alle precarie condizioni economiche della famiglia. Avevamo raccontato la sua storia non troppo tempo fa.

È da queste parti che il 28 ottobre “Mane” e la moglie Cilenis Marulanda, alla guida del proprio furgone, vengono inseguiti e fermati da un gruppo di uomini in moto, armati. Un film già visto, un rapimento in stile classico, come descritto con rassegnata abitudine dai media locali. Dei due, però, solo “Mane” si trasformerà effettivamente in ostaggio, mentre Cilenis viene liberata poche ore più tardi.

Si mettono in moto le indagini - che spesso, in queste circostanze, è più proprio definire trattative - della polizia, con la ricompensa di duecento milioni di pesos (quasi 50mila dollari) per chi abbia informazioni sul rapimento. E inizia l’angosciosa corrispondenza sull’asse Liverpool-Bogotà. Il giorno successivo "i Reds" battono 3-0 il Nottingham Forest e dimostrano la propria vicinanza a Diaz (ovviamente assente), mentre suo padre - lo racconterà lui stesso dopo la liberazione - sta compiendo un lungo tragitto a dorso di cavallo, sotto la pioggia, su sentieri di montagna verso chissà dove. I sequestratori lo stanno portando sulla Serranía del Perijá, vicino al confine col Venezuela.

Le autorità colombiane pensano inizialmente che si tratti di una banda locale, ma emerge presto un’altra verità: l’ostaggio è nelle mani dell’Ejército de Liberación Nacional (ELN), a cui le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (meglio conosciute come FARC) hanno passato il testimone come principale forza parastatale presente nel Paese.

Considerando l’esposizione mediatica della famiglia coinvolta nel rapimento, potrebbe sembrare un gesto clamoroso da parte del gruppo ribelle di estrema sinistra, un atto dimostrativo nei confronti del governo. Invece, è solo un errore. Un caso, o almeno così rende noto lo stesso ELN sul suo canale Telegram: “La cattura del padre di Luis Diaz da parte del Fronte di Guerra del Nord è stata uno sbaglio”. Scambiato per chissà chi, o più probabilmente non riconosciuto in quanto qualcuno. “Mane” è finito in un incubo per sfortunate coincidenze quindi. Che sono tragicamente parte della quotidianità di chi vive da queste parti, e che stavolta, per pura fatalità, sono finite sotto gli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

Libertad para papa

Luis Manuel Diaz ha 58 anni ed è un punto di riferimento per i tanti bambini della scuola calcio Baller de Barrancas. «È un simbolo della Colombia, noi dell’ELN pensiamo questo di lui», ha detto lo stesso portavoce dell’organizzazione. Il gruppo ribelle si pone come facilitatore per la sua liberazione, facendo sapere di non essere artefice del rapimento e di non chiedere un riscatto. Le autorità confermeranno questa versione dei fatti e la responsabilità del rapimento per sbaglio ricadrà alla fine su “quattro uomini appartenenti allo smantellato gruppo criminale Los Primos”; i quali, una volta compresa la notorietà dell’ostaggio, avrebbero deciso di consegnarlo all’ELN. I quattro soggetti verranno individuati e arrestati dalla polizia colombiana in collaborazione con i servizi segreti britannici, mettendo un punto a questa faccenda. Più o meno.

Nonostante la collaborazione dell’ELN, infatti, i giorni precedenti alla liberazione, quelli di Luton-Liverpool, sono carichi di tensione. Nel dialogo con la delegazione governativa ci sono svariate interruzioni e le due parti si irrigidiscono: il gruppo ribelle accusa le istituzioni di non collaborare, il Ministero degli Interni la definisce «una presa in giro», la trattativa degenera nelle minacce.

“Il 2 novembre abbiamo comunicato al governo la decisione di liberare Luis Manuel Diaz”, si legge nel comunicato dell’ELN, “e da quel giorno abbiamo cercato di raggiungere il più rapidamente possibile questo obiettivo. Vogliamo evitare incidenti con le forze governative, ma la zona per ora è militarizzata e l’operazione di ricerca è ancora in atto. In queste condizioni non possiamo eseguire in modo sicuro la liberazione. Non vogliamo alcun rischio, a costo di rimandare il rilascio. Comprendiamo l’angoscia della famiglia Díaz Marulanda, alla quale promettiamo di mantenere la parola data”.

Di fronte all’ennesimo rinvio e alla crescente pressione internazionale, il presidente Gustavo Petro condanna duramente il comportamento dei guerriglieri, definendolo «un atto contrario al processo di pace». Parallelamente, la Procura e le forze dell’ordine proseguono con le indagini sul territorio, affermando la propria indipendenza dal tavolo dei negoziati. Finalmente, dopo due settimane di prigionia, giovedì scorso la tanto attesa liberazione.

Mane” viene consegnato dall’ELN a una commissione umanitaria composta anche da emissari di Nazioni Unite, Chiesa Cattolica e Croce Rossa. Subito dopo l’incontro, avvenuto in un’area inabitata nelle valli della Serranía del Perijá, la prima fotografia e le rassicurazioni sul suo stato di salute; poco più tardi atterra in elicottero a Valledupar e telefona immediatamente al figlio, prima di ricongiungersi con la famiglia e tornare a casa.

L’agonia della famiglia Diaz finisce qui, per fortuna. Quello di molte altre famiglie colombiane invece rimane. “Deponiamo le armi”, implora Luis Manuel Diaz, “prendiamo carta e penna, lavoriamo insieme per la pace in questo Paese”. Un appello rilanciato con forza dal presidente Petro, che ha chiesto la consegna immediata anche degli altri trentadue ostaggi attualmente nelle mani dei gruppi ribelli. Difficilmente verrà ascoltato, coperto dal rumore dei negoziati tra il governo e le forze armate rivoluzionarie, e dalla violenza che accompagna (e spesso costituisce) queste trattative.

La piaga dei rapimenti

Il sequestro di persone - esposte pubblicamente e non, a seconda della finalità - è una pratica largamente diffusa e radicata nella criminalità organizzata colombiana, e più in generale latinoamericana, oltre che nei gruppi armati. Il Paese vive questa condizione pericolosa già dal secondo dopoguerra, figlia della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Uno degli episodi che viene comunemente indicato come punto di inizio di questa lunga stagione di violenze è l’assassinio nel 1948 del candidato presidente Jorge Eliécer Gaitán, che innesca una tensione sociale incontrollata.

Questa instabilità ha plasmato tutto il panorama colombiano degli anni successivi. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta, un periodo denominato La Violencia, il governo è saldamente nelle mani del Frente Nacional, composto da liberali e conservatori e costituito per emarginare le forze politiche meno moderate. La discussione si radicalizza e arriva a comprendere organizzazioni sempre più vicine all’estremismo, che danno vita a gruppi armati che nel tempo si trasformano in vere e proprie forze parastatali. La cosa ironica è che per i libri di storia la guerra civile colombiana deve ancora ufficialmente iniziare. Siamo nel 1960 e il contatore delle vittime ha già superato quota 150mila.

È in questo contesto di violenza, ma anche disparità sociale ed economica, che nascono gruppi ispirati dalla rivoluzione di Cuba, che si riuniranno nel 1966 nelle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia. Le FARC arrivano a controllare diverse aree del Paese e rappresentano il principale antagonista dello Stato, ma non l’unico, per decenni di scontri. Alle violenze prendono parte anche altre organizzazioni di estrema destra e sinistra - tra cui l’Ejército de Liberación Nacional (ELN), l’M-19 (in cui da giovane militò l’attuale presidente Gustavo Petro), l’EPL. E questo senza contare i cartelli del narcotraffico come quelli di Medellín, Calì e Norte del Valle (con l’ingombrante, annessa presenza della politica statunitense delle estradizioni).

Questa convivenza più o meno implicita con la violenza è perdurata in Colombia praticamente fino ai giorni nostri. Solo nel 2016 il governo di Juan Manuel Santos e le FARC hanno firmato un patto per il disarmo delle organizzazioni, in cambio di significative riforme politiche e sociali. L’elezione nel 2022 di Gustavo Petro, poi, ha creato terreno fertile anche per il dialogo con l’ELN, che si stima conti oggi dai tre ai cinquemila guerriglieri. Queste ultime evoluzioni avevano fatto gradualmente calare gli episodi di violenza nel Paese, che in passato ha fatto registrare dei picchi da oltre tremila episodi all’anno. Negli ultimi mesi, però, si sta osservando una pericolosa inversione di tendenza, anche al di là al fragoroso caso del padre di Luis Diaz.

Secondo il Ministero della Difesa colombiano, nel primo trimestre del 2023 si sono verificati 71 rapimenti nel Paese, più del doppio dello stesso periodo nell’anno prima (35). Un dato che conferma l’aumento già registrato sul totale dei casi annui dal 2021 al 2022 (da 160 a 222, +38%). Insomma, quella che non ha mai smesso di essere una piaga per la popolazione locale, ora, sta tornando a livelli allarmanti per il governo. Tra queste hanno fatto particolarmente rumore la sparizione quest’estate dell’86enne (!) Heriberto Urbina, e quella del poliziotto Dayan Edmundo Poto, entrambe rivendicate dall’ELN.

Secondo alcuni, la spiegazione di questo aumento dei sequestri risiede nella crisi economica dei gruppi parastatali come l’ELN, dovuta al calo delle vendite di foglie di coca, un business centrale soprattutto per le organizzazioni narcotrafficanti che controllano le piantagioni del nord. Per ovviare a questo calo, molte organizzazioni hanno risposto ricorrendo ad altre fonti di reddito, come per l'appunto i rapimenti.

Così il padre di Luis Diaz è diventato, per caso ma fino a un certo punto, uno dei tanti padri che negli ultimi mesi, una sera, non sono tornati a casa dalle proprie famiglie. E all’orizzonte non sembra esserci una tregua, almeno per ora. Nei comunicati dell’ELN prima e dopo la sua liberazione non si è fatto alcun riferimento alle richieste del governo di rilasciare gli altri ostaggi, al cessate il fuoco firmato tre mesi fa, al dialogo per la pace. Anzi, un altro gruppo composto da ex membri dissidenti delle FARC, chiamato Estado Mayor Central e composto da quasi tremila guerriglieri, ha reso nota nei giorni scorsi l’interruzione delle negoziazioni con il governo. Una notizia che ha allungato altre ombre sul futuro del Paese.

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