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Per la Roma contro il Siviglia è o tutto o niente
30 mag 2023
Che partita aspetta i giallorossi e che clima si respira a Roma.
(articolo)
15 min
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A Roma negli ultimi giorni si è parlato molto di una cosa: sono più importanti i figli o è più importante la Roma? O anche: è più importante il diploma/laurea dei propri figli, o la propria squadra del cuore? La risposta, che magari in altri angoli del mondo sarebbe scontata, a Roma non lo è. Curiosamente, due casi molto diversi hanno sollevato il tema.

Daniele De Rossi - capitano, leggenda, icona giallorossa - ha scritto su Instagram che la Roma lo ha gentilmente invitato a Budapest, in occasione della finale d’Europa League che i giallorossi giocheranno con il Siviglia. Purtroppo, scrive De Rossi, lo stesso giorno si diploma sua figlia Gaia e non potrà essere presente: «Non c’è finale che tenga».

Qualcuno legge il messaggio di De Rossi e decide di scrivere a Fanpage: «Mi chiamo Marta e vorrei raccontarvi una cosa che mi sta facendo rimanere male. Mercoledì mi laureo in biologia, ma mio padre non sarà alla cerimonia perché mi ha detto di aver trovato dei biglietti per la finale di Europa League tra Roma e Siviglia a Budapest. Per un uomo di 60 anni la laurea della figlia viene dopo la sua squadra di calcio».

Da questa lettera di Marta è nata una delle wave meme più gloriose viste di recente, ma se ne è discusso anche seriamente, perché in effetti il tema è tutt’altro che sciocco: che importanza occupa nella vita di una persona la propria squadra del cuore? Se bisogna scegliere tra un evento importante della vita di un proprio figlio e uno della propria squadra del cuore, come si fa? Sembra una di quelle domande che si pongono per gioco, oppure l’anticamera di quegli aneddoti morbosi che suonano come prove d’amore estreme: padri che si perdono mezza festa di matrimonio della figlia per guardare il secondo tempo di Fiorentina-Sampdoria. Più trascurabile è la partita più la prova d’amore è cieca e rasenta la follia. Capannelli di invitati che dopo qualche iniziale indugio si radunano avidi attorno a un telefono che trasmette un prato verde. Un amico che si assenta per un’ora per andare a sbirciare in un bar un pezzo di partita. Almeno un pezzo. Se, come spesso si dice, l’etimologia della parola “tifo” fa riferimento a una malattia, qui stiamo parlando dei sintomi più problematici.

Carovane di romanisti sono partite per Budapest, con o senza biglietto, in quello che somiglia a un pellegrinaggio santo. Sono sicuri di entrare in ogni caso, o magari si faranno solo un giro sul “pullman dei turisti”, come dice De Rossi: l’importante è essere fisicamente più vicini alla squadra. La Roma arriva a questa partita con una striscia di risultati da brividi, se solo l’ambiente non avesse già svuotato di importanza tutte le partite diverse dalla finale col Siviglia. La Roma non vince in campionato da metà aprile e da quel giorno ha vinto una sola partita, l’1-0 col Bayer Leverkusen, sufficiente a qualificarsi in finale. La rosa è arrivata sciancata al momento decisivo della stagione, piena di infortunati, di giocatori stanchi e acciaccati. Mourinho ha mandato in campo formazioni surreali, piene zeppe di ragazzi della primavera, e ha perso o pareggiato partite più per insufficienza di mezzi che di voglia.

Il tecnico si è anche lamentato di aver saputo troppo tardi dei punti di squalifica alla Juventus. Magari ci avrebbe pensato due volte prima di scollegare completamente la testa della squadra dal campionato. Dopo un’altra sconfitta, una partita persa per superficialità e stanchezza sabato contro la Fiorentina, Stephan El Shaarawy ha scritto sui social “O tutto o niente”. Se la Roma vince, si porta a casa il trofeo e la qualificazione in Champions, se perde, beh, meglio non pensarci.

Eppure, nonostante questo clima da apocalisse imminente, l’ambiente è meno teso e schizofrenico della vigilia dello scorso anno, quando la Roma ha giocato la finale di Conference contro il Feyenoord. Perdere quella finale avrebbe confermato la narrativa di squadra maledetta. Avrebbe significato un altro secondo piazzamento, un’altra occasione mancata, un altro dolore. La vittoria invece ha placato parzialmente l’isteria dell’ambiente romanista: questa finale è un segno tangibile di una crescita sportiva, ma anche la sensazione che le cose belle possono ricapitare. Facendo le cose fatte bene le narrazioni si possono ribaltare: nessuno è condannato davvero al proprio destino.

Cosa deve temere la Roma del Siviglia

Il potere della narrazione, invece, il Siviglia sta cercando di abbracciarlo in pieno. La squadra sembrava dentro una stagione da incubo, ai limiti della retrocessione. A marzo era appena due punti sopra la zona calda. Il tecnico subentrato, il basco José Luis Mendilibar, sembrava un semplice traghettatore in un momento di sventura. Invece il club, come sempre, ha usato l’Europa League per risorgere dalle proprie ceneri. Come ha scritto Emanuele Mongiardo: «Il tempo sembra sospendersi in Europa League per il Siviglia. Cambiano gli allenatori, la posizione in campionato, gli avversari, ma non la mistica dei nervionesi il giovedì sera». Il Siviglia, come sappiamo, ha una tradizione inspiegabile in questa coppa. Ha vinto sei volte il trofeo, il doppio delle volte della seconda. In più, lo ha vinto sempre da quando questo ha cambiato nome da Coppa UEFA a Europa League: lo ha vinto 6 volte negli ultimi 17 anni, un dato assolutamente senza senso. Ci sono stati dei cicli, ma ovviamente in questi anni il Siviglia ha cambiato dirigenti, giocatori, allenatori. Ha attraversato periodi floridi e altri tristi, mantenendo però quasi sempre immutata la capacità magica di vincere le partite il giovedì sera. Uno dei fenomeni paranormali del calcio contemporaneo.

La versione del Siviglia che arriva a questa finale è quella che più di tutte è stata costretta ad aggrapparsi alla mistica, visto che i propri valori calcistici sono ormai flebili e la società sembra comunque in un periodo di transizione. Questo è un punto in comune tra Roma e Siviglia: entrambe sembrano squadre piene di problemi, ma con in mano le qualità intangibili così importanti nelle sfide europee a eliminazione diretta. Una qualità intangibile del Siviglia, per esempio, è l’esperienza.

A vedere la formazione, tra veterani della Liga e scarti della Serie A, sembra una squadra zombie. Giocatori usciti dalle tombe, agitati solo da un’energia di vendetta o dalla magia europea degli andalusi, che già si sono presi lo scalpo della Juventus e che ora ambiscono a vincere una delle coppe francamente meno pronosticatili della storia recente. A destra gioca ancora Jesus Navas, 38 anni a novembre, principe dei giocatori che pensavi ritirati. Ormai definitivamente terzino, la sua faccia si è scavata attorno agli occhi stretti e azzurri, ancora bellissimo, ma comunque vagamente somigliante ai non-morti di Game of Thrones. «Nelle serate di Europa League ci trasformiamo ed è incredibile vedere la nostra reazione in ogni partita» ha detto Navas in questi giorni, come se guardasse dal di fuori un fenomeno paranormale. A centrocampo, a dirigere il gioco, due vecchi lupi come Fernando e Rakitic, che contro la Juventus è stato il giocatore con più palle recuperate nella partita (12). Davanti, nella batteria di trequartisti, un all star team di talenti mai sbocciati in epoche diverse: il nuovo Bryan Gil, il vecchio Ocampos, il feticcio Oliver Torres - una specie di Simone Verdi della Liga. E poi il mancino onanistico di Suso, la classe antica e spaventosa di Erik Lamela, ex della partita. Ha deciso la partita contro la Juventus con un colpo di testa e con varie pettinate di suola che ci hanno rimandato a una decina d’anni fa, quando era uno dei talenti più entusiasmanti del calcio mondiale.

Davanti gioca Youssef En-Nesiry, centravanti stravagante, difficile da inquadrare. Qualità tecniche modeste, ma dinamismo infinito, le sue partite sono lunghe sequele di duelli fisici con i difensori, e in area è sempre teso e pronto all’anticipo.

È difficile immaginare in che modo il Siviglia affronterà la partita, e qual è il modo migliore di affrontarlo. È una squadra senza caratteristiche tattiche troppo spiccate anche se, dopo la confusione di Lopetegui e Sampaoli, Mendilibar si è preoccupato soprattutto di fare le cose semplici. Innanzitutto ha rinunciato al dominio del pallone (la percentuale di possesso si è abbassata del 10%) e ha costruito un gioco più diretto e verticale. Per costruirsi lo spazio non disdegna anche fasi di difesa posizionale (è tra le ultime in Liga per PPDA), a cui seguono lunghi attacchi in transizione. Ocampos è diventato un animale da contropiede. L’effetto più evidente è che con Mendilibar sono migliorati tutti i numeri difensivi della squadra. Qualcosa che magari non avremmo detto dopo la partita contro la Juventus - in cui il Siviglia ha comunque concesso molto in termini di occasioni.

A sinistra prima di Mendilibar, a destra dopo.

Il Siviglia però è diventato anche più pericoloso: tira di più, e soprattutto tira molto in contropiede. Solo il Villarreal calcia di più verso la porta in contropiede, e solo 3 squadre subiscono meno tiri in contropiede. È una squadra esperta, dura, che impone un forte impatto fisico nelle partite e sa scegliere i momenti in cui accelerare e gli altri in cui rallentare. In alcuni momenti si rintana sorniona nella propria area, ma in altri porta una grande pressione in avanti ed è brava a riconquistare palla molto in alto, anche approfittando di attacchi sporchi, costruiti con lanci lunghi e seconde palle. Una squadra né proattiva né reattiva, melliflua invece, capace di fare più cose insieme.

È una squadra dunque molto differente da quelle che la Roma ha affrontato finora nel proprio percorso europeo, tutte curiosamente molto simili. Betis, Real Sociedad, Feyenoord e Leverkusen volevano tutte dominare la partita attraverso il pallone, e hanno esasperato la natura reattiva della Roma. La squadra di Mourinho si è scoperta matura e a proprio agio contro queste formazioni dal palleggio fitto e complesso, ma incapaci di tradurre il proprio dominio in occasioni da gol. Il Siviglia non darà mai una partita così polarizzata e pulita alla Roma, anche perché ha armi consistenti anche contro difese schierate.

Sono in particolare due le situazioni a cui la Roma dovrà fare attenzione. La prima è quella dei tiri da fuori. Contro la Juventus, un’altra squadra che si abbassa molto, il Siviglia ha bombardato di conclusioni la porta di Szczesny: i tiratori temibili sono tanti, a cominciare da Suso e Rakitic. Sappiamo quanto la Roma non si faccia problemi a concedere tiri da fuori: a volte va bene, come col Leverkusen, altre volte no, come nella partita casalinga contro l’Atalanta.

L’altro aspetto che la Roma deve temere è la qualità, fisica e tecnica, delle ali del Siviglia. Alle spalle dei propri esterni, e nella zona ambigua tra i quinti e i braccetti, la Roma soffre non poco. È uno spazio che soprattutto Ocampos e Lamela sanno attaccare con grande pericolosità. È una squadra che crossa tanto e i centrali della Roma saranno chiamati a giocare una gara di grande concentrazione. Ogni errore, ogni sbavatura, può costare cara. Anche per questo si sta discutendo molto sulla presenza di Roger Ibanez, un difensore di grande talento, spesso dominante, ma troppo incline all’errore decisivo in partite importanti. L’alternativa è Llorente, che però non ha giocato molto in stagione e non offre troppo garanzie in più. Di sicuro sarà una scelta importante, perché da quella parte gioca Ocampos, che è un esterno ma colpisce di testa meglio di un centravanti. I suoi attacchi aerei sul lato debole sono complicatissimi da gestire per qualsiasi difesa. Non è un caso che la partita contro la Juventus sia infine stata decisa proprio da un colpo di testa di un esterno offensivo, Lamela. Ovviamente anche En-Nesyri è molto forte di testa e a dicembre ha superato in elevazione il record di Cristiano Ronaldo. A differenza delle squadre affrontate dalla Roma finora, il Siviglia non aspetterà solo le occasioni pulite per tirare in porta ma proverà a creare caos attorno all’area giallorossa. Saranno importanti le seconde palle, i duelli aerei, la furbizia e la concentrazione in area, le palle che restano a metà. Una buona notizia per la Roma è che mancherà il miglior crossatore del Siviglia, il terzino argentino Acuna.

Dentro la propria area, lo sappiamo, la squadra di Mourinho si trova a proprio agio, ma potrebbe non essere una buona idea abbassarsi troppo con il Siviglia e col suo volume di tiri e cross. Al contempo provare un approccio più intenso e aggressivo si porta dietro il rischio di esporsi agli attacchi in transizione. Insomma: serve una partita furba, preparata bene da Mourinho certo, ma soprattutto interpretata con intelligenza dai suoi giocatori, che dovranno capire bene cosa richiede la partita in ogni momento. Il Siviglia è una squadra dura ed esperta, ma anche la Roma lo è.

Questo lungo periodo senza vittorie per la Roma coincide con l'assenza di Paulo Dybala, che da solo cambia la fisionomia della squadra. Le condizioni della sua caviglia sono circondate dal mistero: dopo la partita contro l'Atalanta non sembrava essere niente di grave, e invece da metà aprile ha finito per saltare 7 partite. Dybala è fondamentale non solo per essere pericolosi negli ultimi metri, ma anche per attaccare in modo ordinato, per non perdere subito palla ed esporsi a transizioni pericolose. Eppure non è sicuro che parta dal primo minuto: ha giocato troppo poco e bisogna centellinarlo, e allora tanto vale forse metterlo in campo a partita in corso per massimizzare il suo impatto. Contro il Feyenoord, dalla panchina, ha risolto la partita con uno degli ultimi palloni disponibili.

Comunque vada

Forse non è un caso che si sia discusso proprio intorno alla Roma se sono più importanti i figli o la propria squadra. I giallorossi sono uno dei club che più ha costruito un’auto-narrazione mitica sul proprio tifo. «Ci sono i tifosi di calcio, e poi ci sono i tifosi della Roma» diceva Agostino Di Bartolomei, frase scritta anche nell’area “hospitality” dell’Olimpico. Certo, ogni tifoseria si sente speciale, ma ultimamente i tifosi della Roma stanno cercando di fare tutto per dimostrarlo, e per alimentare la narrazione di tifoseria più passionale d’Italia. C’è qualcosa di esagerato, di senza misura, nelle manifestazioni d’amore recenti dei tifosi giallorossi. I sold-out perpetui: non importa la partita, non importa l’orario né il giorno. Ogni sold-out pare generare il successivo, e ciascuno è come se rappresentasse una vittoria di per sé. Quando risuona l’inno “Roma, Roma, Roma” prima della partita e i tifosi dispiegano le sciarpe e si guardano mentre cantano a squarciagola, sentono già di aver vinto.

I motivi di tutto questo entusiasmo li abbiamo raccontati. La capacità di Mourinho di cementare un ambiente storicamente balcanizzato, di creare un respiro unico tra squadra e tifosi. Un entusiasmo che nasce dalla vaga sensazione che qualcosa di bello possa succedere. Una sensazione che si è diffusa dal primo giorno di Mourinho nella capitale e che non si è mai spento. «La Roma è appartenenza, essere parte di qualcosa» ha detto in queste ore.

Le reazioni esterne a tutto questo amore sono diverse: scherno, ammirazione ma soprattutto incomprensione. Come si fa a essere così pazzi di una squadra di calcio. Una squadra che per di più non gioca nemmeno così bene e che sta ottenendo risultati ambigui. In campionato la Roma rischia di chiudere col più basso numero di punti da oltre dieci anni, dalla stagione 2011/12, la prima della Roma americana, con in panchina l’esperimento Luis Enrique.

È però proprio il fatto che questo amore non sia direttamente connesso con i risultati, o almeno lo è solo in parte, che rende interessante la Roma da fuori, perché relativizza i concetti di successo o insuccesso nel calcio. I tifosi della Roma sono, o almeno sembrano, felicissimi. Lo sono indipendentemente dalla qualità del gioco della propria squadra e dalla posizione in classifica. Indipendentemente, persino, dalle due sconfitte nel derby. Allora la Roma è interessante perché ci fa domandare “cos’è che rende felice i tifosi?”, che poi sarebbe in fondo l’unico scopo sensato di una squadra di calcio - nonostante non facciamo che ripeterci che le squadre sono aziende e il loro scopo è allora il fatturato.

A rendere felici i tifosi della Roma c’è principalmente la possibilità di giocarsi un trofeo, certo, ma anche l’attitudine della squadra. Mourinho, su questo, è stato chiaro: «Non penso ci sia un segreto. La questione è semplice. Spesso ci si dimentica che la cosa più importante, nel calcio e non solo, sono i rapporti umani. Posso parlare anche per i miei giocatori: noi diamo tutto. E penso sia per questa attitudine che i tifosi ci rispettano così tanto e sono in grande empatia con noi». Il modo in cui gioca la Roma non è esteticamente gradevole, almeno in senso canonico, e a volte non è nemmeno efficace. Eppure c’è grande epica nel modo in cui la squadra affronta le partite, in quello spirito ruvido, spigoloso, distruttivo. È qualcosa di controculturale non solo in termini tattici ma anche estetici. Mentre le migliori squadre al mondo cercano di costruire un gioco offensivo attraente in termini di marketing, Mourinho alla Roma ha dimostrato che si può fare un gioco esaltante per i tifosi anche con uno stile reattivo. È questo un modo secondo me inedito di guardare alla Roma, invece di usare concetti vuoti come “anti-calcio” o “catenaccio”: una squadra estrema, radicale, che ha creato un’esperienza estetica unica, e che è perversamente efficace nelle sfide europee 180 minuti. Una squadra organizzata e preparata, certo, ma la cui dimensione mentale ed emotiva inghiotte tutto il resto.

Magari non può funzionare ovunque, e non può funzionare senza il potere da incantatore di Mourinho. Magari non può funzionare fuori dall’Italia, il Paese che ha tra i più cari ricordi una partita disperata e fortunata come la vittoria sull’Olanda a Euro 2000. In alcuni paesi lo stile astuto e distruttivo di Mourinho verrebbe - o è già stato - considerato inaccettabile, mentre per noi è il modo più puro di giocare a calcio.

Forse questa tracciata da Mourinho e dai Friedkin è anche una strada poco redditizia sul medio-lungo periodo, visto che la Roma sembra poggiare oggi su basi fragili - se il tuo futuro, anche finanziario, dipende da una sola partita qualcosa deve essere andato storto. Eppure guardare la Roma è un’esperienza realmente unica e quello fatto in questi due anni, questa energia passionale e squilibrata, resta indelebile.

“Tutto o niente” si dicono i giocatori della Roma per motivarsi prima della finale, ma l’impressione è che la squadra abbia già ottenuto qualcosa di persino più importante della coppa che si giocherà mercoledì sera.

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