Se nello scorso dicembre Giannis Antetokounmpo avesse deciso di non estendere il suo contratto con i Milwaukee Bucks, difficilmente saremmo arrivati fino a maggio senza scrivere approfonditamente di loro. Le pressioni e l’interesse nei loro confronti sarebbe stato enorme, e ogni loro sconfitta o vittoria sarebbe diventato un referendum sul futuro del due volte MVP: resta o se ne va? È contento oppure no? Chi può prenderlo la prossima estate?
Invece la sua decisione di dare fiducia all’unica squadra NBA per cui ha giocato e di non diventare free agent nell’estate del 2021 ha sicuramente avuto l’effetto di far tirare un bel sospiro di sollievo all’intera franchigia, ma anche quello di farla finire in un sorta di cono d’ombra mediatico. Non che ai Bucks dispiaccia: «Non c’è bisogno che si parli di noi, anzi non mi è mai piaciuto quando succedeva» ha detto lo stesso Antetokounmpo lo scorso marzo dopo una vittoria contro i San Antonio Spurs, la sesta consecutiva in una striscia poi arrivata a otto, la più lunga di una stagione passata fondamentalmente inosservata. «Mette solo più pressione su di me e sui miei compagni. Preferisco essere lasciato da solo: non mi piacciono le luci della ribalta, preferisco viaggiare a fari spenti».
Evitare di essere costantemente messo sotto pressione per ogni sua parola o ogni sconfitta è uno dei motivi per cui Antetokounmpo ha preferito firmare subito, risparmiando a sé stesso e anche agli altri mesi e mesi di speculazioni (certo, 228 milioni di dollari in cinque anni aiutano a schiarirsi le idee). Allo stesso tempo ha reso la regular season dei Bucks meno interessante da seguire: nei precedenti due anni avevamo già visto di cosa era capace questo gruppo di giocatori guidato da coach Mike Budenholzer tanto nel bene (una schiacciasassi da 116 vittorie a fronte di sole 39 sconfitte con differenziali storici in attacco e in difesa) quanto nel male (sciogliendosi ai playoff prima contro Toronto, sprecando un vantaggio di 2-0 nella finale di conference 2019, e poi nella bolla di Orlando contro i Miami Heat al secondo turno). Senza neanche la “Giannis Watch” da seguire, l’intera stagione 2020-21 di Milwaukee si è trasformata in un’enorme “Ok, svegliateci quando cominciano i playoff e diteci chi siete veramente”.
Una contender nascosta in piena vista?
Questo non significa che questa stagione sia poco importante, anzi. Come riportato negli ultimi giorni da Shams Charania di The Athletic, gli occhi di tutti sono puntati sulla panchina di Budenholzer, che rischia seriamente il posto di lavoro se non dovesse fare strada a lungo nei playoff — raggiungendo come minimo le finali di conference. Per questo l’intera stagione è stata impostata in entrambe le metà campo non per raggiungere un risultato immediato, ma per lavorare in vista delle serie che dovranno affrontare dalla seconda metà di maggio in poi — usando la regular season per testare cosa funziona e cosa no, quali giocatori meritano un posto in rotazione e quali no, raccogliendo il maggior numero di informazioni in vista dei playoff. Lo ha detto lo stesso Antetokounmpo: «Dobbiamo migliorare, vogliamo giocare la miglior pallacanestro possibile ma non adesso» ha detto negli scorsi mesi. «So che sembra divertente e sexy vincere 16 o 18 partite in fila: ti fa sentire bene, tutti parlano di te, dicono che sei la miglior squadra della NBA. Ma bisogna giocare al massimo alla fine della stagione. E personalmente quello è il mio obiettivo». La buona notizia per i tifosi dei Bucks è che la squadra sembra presentarsi alla post-season in forma e con il gruppo in salute, a differenza di molte altre contender.
Intendiamoci: non che in questa stagione i Bucks abbiano fatto schifo, anzi. Con un record di 44 vittorie e 25 sconfitte occupano il terzo posto nella Eastern Conference con ampio margine sulla quarta, potendosi permettere anche qualche scivolone in più come due strisce da tre sconfitte in fila, eventualità pressoché imponderabile nel precedente biennio. Anche i numeri su 100 possessi sono solidissimi: con un differenziale di +5.84 su base stagionale sono quinti nella lega dietro solamente a squadre della Western Conference, con rendimento sia offensivo che difensivo da top-10. Semplicemente, non sono stati dominanti come li abbiamo conosciuti nel recente passato (+8.5 nel 2018-19 e +10.2 nel 2019-20, entrambe le volte primi in NBA), ma pur nel relativo silenzio della lega sono rimasti una squadra d’élite. Anzi, secondo i dati di Cleaning The Glass hanno raccolto 1.5 vittorie in meno rispetto a quelle che avrebbe dovuto avere con quel differenziale (peggio di lei otto squadre in tutta la NBA, di cui una curiosamente è Utah).
Analizzando i dati, ci sono comunque i segni della squadra che ha accumulato un numero enorme di vittorie nei precedenti due anni. I Bucks sono quinti per percentuale effettiva al tiro, sono bravi nel tenere sotto controllo le palle perse e nel prendere rimbalzi d’attacco, pur andando molto poco in lunetta (26° dato di tutta la NBA), e sono tra i migliori nell’attacco a metà campo pur essendo maggiormente efficaci in transizione, che sfruttano più di chiunque altro in NBA. Allo stesso tempo in difesa, pur avendo fatto qualche cambiamento, mantengono la loro filosofia che ha la protezione del ferro come primo comandamento, concedendo un numero infinitesimale di tiri liberi agli avversari e quasi nessuna opportunità a rimbalzo d’attacco (quarti migliori della lega). Il contrappasso del loro conservatorismo difensivo è un numero sotto media di palle perse forzate, ma è un “trade-off” che Budenholzer accetta sempre volentieri pur di non compromettere la propria struttura difensiva.
La novità in attacco: l’uso del dunker spot
Pur mantenendo alcune convinzioni delle versioni precedenti, anche per via del roster a disposizione che non è cambiato così tanto attorno ad Antetokounmpo, coach Budenholzer ha cercato nuove soluzioni per rendere la sua squadra più imprevedibile ed evitare che andasse a schiantarsi contro lo stesso identico muro contro cui è finita nelle ultime stagioni — quello alzato per negare l’accesso in area a Giannis Antetokounmpo.
Se le versioni precedenti dei Bucks avevano una strutturazione offensiva predicata su un “cinque fuori” spinto all’estremo, circondando Giannis Antetokounmpo di tiratori sul perimetro e lasciandogli il centro del proscenio libero per attaccare in uno contro uno (e, nelle versioni peggiori, in uno contro tutti), ora Milwaukee cerca di posizionare stabilmente un uomo sotto canestro — quasi letteralmente sotto canestro, in quello che nel gergo viene definito “dunker spot”, il posto dello schiacciatore.
In questa ricostruzione di The Athletic il “dunker spot” è quello spazio sotto il canestro che deve essere sempre occupato da un giocatore, con gli altri quattro attorno al perimetro. Gli spazi sono effettivamente delineati sui campi di allenamento dei Bucks nella loro practice facility, così come fatto due anni fa con lo schema “cinque fuori”.
Non c’è un giocatore fisso che deve occupare quel posto, ma ognuno dei cinque giocatori in campo può piazzarsi lì — e in particolare il primo giocatore senza palla in transizione deve cercare di occuparlo il prima possibile, anche per procurarsi facili occasioni a canestro in una lega che (anche per l’esempio dei Bucks, che lo facevano fino alla scorsa stagione) cerca sempre di più di occupare gli angoli per creare poi linee di penetrazione per il portatore di palla, specialmente se si chiama Antetokounmpo (Giannis, non Thanasis).
Avere un uomo in quella porzione di campo serve però soprattutto per evitare che le difese abbiano un uomo in più per creare il famoso “muro” davanti a Giannis, o perlomeno avere uno scarico semplice e più vicino al canestro quando gli avversari aiutano, rinunciando a un altro tiratore sul perimetro contro cui le migliori difese della lega riescono a ruotare in tempo negando una conclusione pulita da tre punti, o anche per bucare meglio le difese a zona sempre più utilizzate contro Antetokounmpo. Arrivare a contestare un tiro a un giocatore che si trova già a meno di un metro dal ferro è più difficile, oltre ad avere anche un uomo sempre pronto a rimbalzo d’attacco per correggere eventuali errori.
Tre dei quattro assist della partita contro i Brooklyn Nets sono arrivati proprio per servire l’uomo nel “dunker spot”: il primo in transizione pescando Bobby Portis; il secondo per alzare l’alley-oop a Brook Lopez, mentre i Nets un po’ a memoria provavano a formare un muro contro Giannis; il terzo a difesa schierata con un bel taglio di Donte DiVincenzo mentre Holiday e Antetokounmpo giocavano il pick and roll sull’altro lato del campo. Da notare anche l’utilità dell’uomo nel “dunker spot” a rimbalzo d’attacco nell’ultimo possesso.
La soluzione è sicuramente interessante e contro-intuitiva: in un’era in cui aprire il campo e creare spaziature sono due obiettivi perseguiti in modo ossessivo, i Bucks sono andati dalla parte opposta anche a costo di cambiare la loro selezione di tiri, prendendosi meno triple (quest’anno sono 11esimi in NBA mentre nel due anni precedenti non erano mai usciti dalla top-4) ma mantenendo comunque alti livelli di efficienza. L’effetto collaterale dell’uomo sempre fisso in area è stato quello di congestionare ulteriormente il pitturato, facendo aumentare il numero di conclusioni dalla media distanza (sono decimi in NBA per long 2s) e diminuire quelle al ferro (dal 40.6% di due anni fa al 32.6% di quest’anno, solo 16esimi nella lega). Se sia davvero la soluzione giusta oppure no, come per tutto quello che riguarda questa stagione dei Bucks, lo scopriremo solo ai playoff, ma si tratta certamente di una trovata tattica degna di essere seguita nei momenti più importanti.
La novità in difesa: i cambi difensivi
Se un coach con ben due premi di Allenatore dell’Anno in carriera si ritrova con le spalle al muro è perché nei playoff tutti i suoi limiti sono emersi in maniera prepotente, sembrando sempre un passo indietro rispetto alla concorrenza in particolare quando c’era bisogno di ricorrere agli aggiustamenti. Le squadre di Budenholzer fin dai tempi di Atlanta sono sempre state incapaci di pensare ad un’alternativa: se il piano A non funzionava l’alternativa non era mai cambiarlo ma solo cercare di fare le stesse identiche cose, ma meglio. Ora, forse anche per la pressione che sente addosso, sta cercando di aumentare le carte nel mazzo a sua disposizione, chiedendo alla squadra di imparare a fare cose diverse per essere maggiormente versatile nei momenti che contano — anche a costo di perdere qualche partita in più in regular season.
La novità principale nella metà campo difensiva è l’uso sempre più sistematico dei cambi sui blocchi, specialmente tra gli esterni grazie alla presenza di un difensore capace di cambiare su tutti come Jrue Holiday. I Bucks sono andati all-in su questa stagione pur di prenderlo, ma fino a questo momento l’ex giocatore di Philadelphia e New Orleans ha ripagato l’investimento di tre prime scelte e due pick swap con la sua versatilità in entrambe le metà campo. Holiday è la solidità fatta giocatore di pallacanestro: può non essere scintillante nel suo gioco, ma commette pochi errori, è un muro in difesa (specialmente in post basso sui cambi difensivi) e in attacco è capace di gestire competentemente la squadra come Eric Bledsoe non è mai stato in grado di fare, accettando però anche di mettersi in un angolo per spaziare il campo (quasi il 40% da tre in stagione, miglior dato della carriera).
In back-to-back arrivando da Portland senza Antetokounmpo e con Middleton in serata da 4/16 al tiro, Holiday si è caricato i Bucks sulle spalle con 33 punti e 11 assist. Ok, erano i Sacramento Kings, ma tutti i tifosi dei Bucks dopo questa partita hanno detto “Finalmente un altro che ci può trascinare”.
I Bucks sono ancora abbastanza reticenti a concedere i cambi difensivi quando Brook Lopez viene coinvolto con un esterno, ma lo fanno quasi sistematicamente dall’1 al 3 (anche per le caratteristiche simili di Holiday, DiVincenzo e Middleton) e tra 4 e 5 lontano dalla palla. Soprattutto, con l’arrivo di PJ Tucker si sono messi in casa un Gran Maestro dei Cambi Difensivi, sbloccando una ulteriore possibilità nei loro quintetti.
Forgiato dagli anni sotto Mike D’Antoni, in cui cambiare su tutti i blocchi era l’unica reale strategia difensiva (ma eseguita talmente bene da mettere in difficoltà persino i Golden State Warriors con Kevin Durant), Tucker ha messo tutta la sua esperienza e le sue doti comunicative per aiutare i Bucks con la strategia denominata internamente come “Red”, cioè quella in cui tutti i cinque giocatori cambiano su ogni blocco. In questi anni abbiamo imparato come avere un quintetto del genere (e sapere a propria volta come attaccarne uno simile degli avversari) sia una condizione imprescindibile per fare strada nei playoff, ma i Bucks erano sempre rimasti indietro da questo punto di vista — come se non si fossero resi conto che la pallacanestro che si gioca ai playoff fosse profondamente diversa rispetto a quella che avevano dominato in regular season, cambiando sempre troppo lentamente rispetto agli avversari, o non cambiando per nulla.
Nel momento decisivo della partita contro i Nets, i Bucks accettano per due volte il cambio difensivo mettendo Connaughton su Kevin Durant, anche a costo di vedersi bruciati dal palleggio. Sembra una cosa da nulla, ma per Milwaukee rappresenta un cambiamento epocale.
Certo, i Bucks devono ancora imparare non solo quando cambiare, ma — ancor più importante — quando non cambiare sui blocchi per non concedere accoppiamenti favorevoli con troppa facilità. Ma è un processo che tutti hanno intrapreso con il giusto spirito a partire da Antetokounmpo, che dopo una pesante sconfitta in casa degli Utah Jazz ha detto: «Stiamo migliorando? Sicuramente. Stiamo cercando di fare cose nuove come cambiare sui blocchi fin da inizio partita, una cosa che non avevamo mai fatto. Dobbiamo guardare al grande schema delle cose: ovvio che non siamo a nostro agio dopo due anni in cui abbiamo sempre cercato di tenere tutto al centro del campo. Ma ci renderà migliori e mi piace che abbiamo questo approccio di ampie vedute».
L’effetto negativo è stato quello di marginalizzare di più Brook Lopez, che per struttura fisica è incapace di tenere il campo in uno schema del genere, ma rimane una risorsa preziosa per questo gruppo e un membro dello spogliatoio che tutti vogliono vedere contento e coinvolto. «Abbiamo due grandi difensori, solo diversi» ha detto recentemente Giannis. «Brook è importante per noi, ma avere il lusso di poter inserire un veterano come PJ che ti permette di andare ‘Red’ su tutto è assurdo. Possiamo essere versatili nei finali di partita, cambiare su tutto e rimanere davanti agli avversari. Se vogliono batterci, devono farlo segnando tiri difficili sopra di noi. Non devono riuscire a spezzare la nostra difesa».
La nuova centralità di Giannis
Le due vittorie consecutive contro i Brooklyn Nets della scorsa settimana hanno riacceso un po’ i riflettori sui Bucks, che in fin dei conti — tolta una sconfitta con Houston in cui hanno perso Antetokounmpo dopo 46 secondi di partita — dal 20 febbraio in poi hanno perso solo contro squadre da playoff o play-in. Resta comunque la sensazione di qualcosa di incompiuto, che di questa squadra non abbiamo ancora ben chiari né i punti di forza né tantomeno i limiti. È sicuramente encomiabile che Budenholzer, accusato da molti di essere “talebano” nelle sue scelte, abbia avuto il coraggio di mettersi in gioco e di cambiare il suo sistema. E a differenza di altre squadre, magari anche più profonde, la loro rotazione a nove giocatori per i playoff è già chiara e definita, con un quintetto base molto solido (+8.7 su 100 possessi) e un quintetto piccolo dal rendimento spaventoso, seppur su un campione esiguo (le tre stelle insieme a DiVincenzo e Pat Connaughton hanno +51.5 di differenziale, ma su soli 93 possessi — comunque il 10° più utilizzato in stagione).
Uno degli aspetti nuovi di questa stagione è anche un utilizzo più variegato di Antetokounmpo nel corso della partita, mettendolo in situazioni tattiche diverse rispetto al semplice uno contro uno partendo dalla punta delle scorse stagioni. Quest’anno Giannis sta giocando di più (33.1 minuti a partita, il suo massimo nell’era Budenholzer) e ha allargato il ventaglio di soluzioni a sua disposizione, non tanto aggiungendo il tiro da tre (anzi, ne prova meno rispetto allo scorso anno) ma diminuendo la sua dipendenza dai punti al ferro, che rappresentano solo il 45% delle sue conclusioni totali (dato più basso della carriera). In questa stagione Antetokounmpo sta esplorando molto di più il gioco dalla media distanza, aumentando sia le conclusioni nel pitturato fuori dalla restricted area (dal 16% in carriera al 19% di quest’anno) e quelle dalla media distanza (18.6% dei suoi tiri).
Nelle due partite contro Brooklyn si è preso l’enormità di 66 tiri dal campo, segnandone 32 di cui 8/20 da tre punti. Nel tentativo di punire la difesa ultra-conservativa dei Nets si è preso più responsabilità del solito, chiudendo con 85 punti nelle due gare — entrambe vinte — e mostrando un repertorio decisamente più ampio rispetto al passato, specialmente dalla media distanza. “Non mi interessa quanti punti ho segnato, l’importante è come sono arrivati nei miei punti preferiti, come sono riuscito a rallentare, come sono riuscito a prendermi un altro tiro dopo averne sbagliato uno, due o tre in fila” ha detto dopo la gara. “Questo è quello che voglio essere da oggi in poi e quello che credo di poter essere”.
Come sottolineato daMike Prada su Twitter, ora i Bucks hanno quattro modi per battere la scelta degli avversari di mettere un lungo contro Giannis e lasciargli metri di spazio: unpick and roll con Middleton; unpassaggio consegnato per dare spazio a un tiratore (in questo l’inserimento di Bryn Forbes è stato molto importante); il gioco in uno contro uno partendodal post basso sul lato sinistro; l’uno contro uno dal gomitosfruttando il “pinch post”, retaggio dell’Attacco Triangolo.
Non è detto che tutte funzionino sempre o che bastino per ogni situazione tattica che i Bucks si troveranno davanti da qui al termine della stagione. Ma è giusto che ci abbiano lavorato per arrivare pronti ad ogni evenienza, a differenza di quanto fatto in passato in cui l’enorme numero di vittorie era servito da tappeto sotto il quale nascondere la polvere di una squadra poco versatile. Il processo per arrivare fino a qui, insomma, è stato quello giusto sulla carta. Ma come per ogni squadra, sarà il risultato a determinare se si rivelerà anche vincente al termine della stagione — e tutto quello che è stato fatto fino a questo momento potrebbe non valere niente.