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Un'altra Coppa Davis è possibile?
27 nov 2025
Limiti, punti di forza e possibili miglioramenti del format attuale.
(articolo)
14 min
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IMAGO / ZUMA Press
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Quando ha annunciato la sua partecipazione alle finali della Coppa Davis, Alexander Zverev l’ha definita «solo un torneo di esibizione che si chiama Coppa Davis. Nel 2018 ho giocato contro Nadal in un'arena per corride, quella per me è la vera Coppa Davis». Non solo, ha pure esplicitamente ammesso di partecipare per fare un “favore” ai compagni, dicendo senza mezzi termini che «abbiamo un paio d’anni per poterla vincere con questa squadra». Dopo che la Germania ha battuto in modo rocambolesco l’Argentina ai quarti nel doppio decisivo, però, Zverev ha detto di aver «urlato da matti, mi sono sentito come in certe sere quando vai in discoteca», facendo anche implicito riferimento all’orario del doppio decisivo, finito dopo l’una di notte.

L’Italia si è presentata con una formazione rimaneggiata ma ha vinto il suo terzo titolo consecutivo sfoderando tutta la profondità della sua rosa, come se fosse il Real Madrid. Molti, tra cui il capitano Filippo Volandri, sono già almeno al loro secondo, se non (come Simone Bolelli) al terzo successo di questa irripetibile generazione, eppure la festa è stata grandiosa come se fosse stata la prima volta. Volandri stesso ha detto di aver pianto per questo trionfo e non per gli altri due: «Ha un sapore diverso, di fronte al nostro pubblico, significa molto per me».

La Coppa Davis è, oggi, una competizione stretta in questo limbo ormai sempre più indefinibile tra il suo valore percepito quando non è in corso di svolgimento, cioè scarso, e la sua sacralità storica, un’aura che emana dal momento in cui parte la stretta finale per vincerla. L’attesa per il suo svolgimento non è ormai lontanamente paragonabile a quella degli Slam e neanche alle Olimpiadi, non più snobbate nel tennis come un tempo. Eppure guardando le celebrazioni di chi si aggiudica un qualsiasi passaggio del turno parrebbe, all’occhio di uno spettatore occasionale, l’equivalente tennistico del Mondiale di calcio o della Formula 1.

IL VERO FASCINO DELLA COPPA DAVIS
La Davis non è soltanto lo scenario che rinvigorisce l’orgoglio patriottico, in cui i tennisti scendono in campo con i colori nazionali dopo aver cantato l’inno. Il vero fascino sta nella sua connotazione di torneo a squadre attraverso il quale giocatori sconosciuti al pubblico di massa si trasformano in eroi omerici, vivendo un giorno di gloria così unico da essere paragonabile a quello dei grandi one-hit-wonder, degli artisti che costruiscono la propria legacy attorno a un unico brano di clamoroso successo.

In questi tre trionfi consecutivi dell’Italia è stato soprattutto Matteo Arnaldi nel 2023, con la sua epica vittoria contro Alexei Popyrin in finale, a conquistarsi questo ruolo nella storia dello sport italiano. Stavolta il grande pubblico, sempre più appassionato al tennis grazie soprattutto alle imprese di Sinner, ha fatto la conoscenza anche di Flavio Cobolli, della sua storica amicizia romana con Matteo Berrettini e delle sue potenzialità, delle sue speranze.

In passato gli eroi più insoliti erano stati ovviamente tennisti di altri Paesi. Andando a ritroso, il francese Pouille nel 2017, il ceco Stepanek nel biennio 2012-2013, il serbo Troicki nel 2010, il croato Ancic nel 2005, il russo Youzhny nel 2002, fino ad arrivare a Carl-Uwe Steeb, tedesco dell’Ovest, nel 1988 in compagnia di Becker. Tutti giocatori che gli appassionati più o meno fedeli ovviamente conoscono, ma che non sono mai stati associati ai grandi titoli o ai palcoscenici più prestigiosi. Giocatori disabituati alla tensione di un incontro così importante e così irripetibile nella propria carriera, spesso sovraccarico di paura e proprio per questo dalla dimensione così tremendamente umana, fallibile.

Stepanek-Almagro, quinto e decisivo incontro della finale 2012, una delle partite più simboliche in questo senso.

L’abitudine a veder arrivare nelle grandi finali soltanto giocatori leggendari come i Big 3, e ora Sinner e Alcaraz, ormai ha condizionato l’impressione che la Coppa Davis sia un torneo in cui il livello di gioco è più basso rispetto a tutti gli altri big titles, e che per questo motivo non abbia un grande valore. Dobbiamo però a questo punto interrogarci su cosa ha davvero fascino nello sport, e quindi quale sia la nostra scala di valori anche culturali che attribuiamo alle varie competizioni.

Preferiamo assistere a mille straordinarie ma ripetitive battaglie tra Sinner e Alcaraz, piuttosto che alle storie più svariate di tennisti emergenti, o declinanti, ma capaci di sferrare un ultimo colpo di coda in una competizione che ti inchioda alle tue responsabilità di fronte al tuo Paese? Preferiamo assistere venti volte all’anno a Real Madrid-Barcellona, magari a volte ininfluenti, nella fase a gironi di una fantomatica Superlega, piuttosto che a uno spareggio salvezza o a una finale dei playoff di Serie B o di Serie C? Davvero la bellezza di uno sport risiede unicamente nel suo livello massimo di eccellenza tecnica e fisica?

La Coppa Davis, soprattutto per i circoli e le scuole tennis, significa anche appartenenza a una grande piramide nella quale tutti si sentono coinvolti nel sorreggere dal basso il momento d’oro del tennis italiano, innescando dinamiche virtuose e rivoluzioni culturali i cui effetti positivi possono ricadere anche al di fuori del contesto tennistico. Anche per questo motivo, non solo a fini propagandistici, il trofeo conquistato ha fatto il giro dei circoli italiani, dove già foto di Sinner campeggiano come quelle di Mattarella nelle scuole. Anche un modo per dire, retoricamente ma non troppo lontano dalla realtà: questa coppa è di tutti noi.

Il secondo incontro della finale, quello tra Cobolli e Munar, è stato visto in Italia da oltre 5 milioni di persone, un numero in linea con quello delle grandi finali Slam tra Sinner e Alcaraz. È anche in questi dati che risiede questa discrepanza così strana tra la considerazione che si ha della Coppa Davis e il livello di interesse che effettivamente suscita, almeno nei Paesi coinvolti nelle fasi finali. Una contraddizione che si può risolvere solamente attraverso un serio dibattito sui suoi possibili format e soprattutto sulla sua capacità di attirare i suoi giocatori più importanti.

Sinner-Djokovic, semifinale 2023. Forse la partita di Davis di livello più alto dai tempi di Becker-Edberg nel 1989.

I PUNTI DI FORZA DEL FORMAT ATTUALE
Vale la pena riassumere i cambiamenti rivoluzionari del regolamento della competizione a partire dal 2019, ovvero da quando Gerard Piqué e la Kosmos hanno messo le mani sulla Davis, e solo parzialmente rivisti negli anni successivi. I turni a eliminazione diretta del World Group – cioè delle Nazioni più forti, che si giocano la coppa – sono passati dall’essere spalmati nel corso dell’intero anno e in casa di una delle due contendenti all’essere accorpati in un unico evento di una settimana, in sede unica. Le singole partite ora si svolgono al meglio dei 3 anziché dei 5 set, e anche le partite stesse per decidere la vincitrice della grande sfida – del tie, come viene nominata – sono state diminuite da cinque a tre. Se prima c'erano due partite per ogni singolarista, che sfidava sia il numero 1 che il numero 2 della nazione avversaria, ora ce n'è solo una. È rimasto invariato il doppio, che prima "spezzava" le due coppie di singolari.

Il primo effetto che si può notare a colpo d’occhio dal nuovo format è ovviamente l’aumento in percentuale di importanza del doppio. In quest’ultima settimana molti tie si sono decisi con doppi estremamente spettacolari: su tutti quello che ha visto la coppia tedesca Krawietz/Puetz sopravvivere a quella argentina Molteni/Zeballos dopo averle annullato 3 match point. Altrettanto notevole è stata la prestazione soprattutto della vecchia volpe Marcel Granollers nella vittoria in semifinale proprio contro la Germania.

Il rocambolesco tiebreak che ha deciso Germania-Argentina.

Il doppio, tuttavia, influisce sulle dinamiche di gioco e sulla psicologia dei giocatori anche quando non viene disputato. Come dimenticare le due sfide contro l’Australia, in finale nel 2023 e in semifinale – in realtà una finale anticipata – nel 2024, dove il secondo singolarista italiano è stato sottoposto a una pressione asfissiante con la consapevolezza che Sinner avrebbe vinto, ma che il doppio azzurro avrebbe probabilmente perso. Le rispettive coppie Ebden/Purcell ed Ebden/Thompson, senza scendere in campo, si sono materializzate come un’entità invisibile, come in Suspiria di Dario Argento, inducendo prima Arnaldi e poi Berrettini in una sensazione di claustrofobia con poche possibilità di uscita, senza appello.

L’attuale formula della Davis restituisce dignità e interesse a una specialità che forse proprio nella Davis da sempre ricava il suo massimo splendore. È nel doppio in cui viene sublimata quella trasformazione in sport di squadra che il tennis fa durante gli eventi per Nazioni. Non solo perché l’azione simultanea in campo di due giocatori ci suggerisce automaticamente la loro alchimia, ma anche per una questione, più tipicamente calcistica, inerente a possibili discussioni sulla formazione, su “chi schieriamo?”, soprattutto adesso che il doppio è l’ultimo e decisivo incontro.

È una domanda che è balzata alla mente di molti tifosi italiani domenica scorsa durante il difficile incontro di Cobolli, con la memoria ancora fresca dell’esclusione della coppia Bolelli/Vavassori a vantaggio di Berrettini/Sinner nei quarti contro l’Argentina un anno fa. Volandri si era preso con successo questa responsabilità, dando involontariamente argomenti a favore di chi sostiene che i singolaristi siano più forti delle coppie consolidate anche in doppio. Una dinamica che ha suggerito che anche la coppia Berrettini/Sonego potesse essere presa in considerazione per quest’ultima Davis.

La potenza disordinata ma stratosferica di Berrettini e Sinner, irresistibile per le alchimie più leggere di Gonzalez e Molteni.

Un altro elemento almeno in parte positivo della nuova formula, anche se negativo per buona parte dell’opinione pubblica, sta nell’accorpamento di tutta la Final 8 in un’unica sede. Se questo fattore frena fortemente l’atmosfera ostile delle grandi tifoserie del passato, dall’altro lato conferisce almeno televisivamente la percezione del grande evento, disputato in sede unica come i campionati mondiali di qualsiasi altro sport. Forse la riduzione del numero di partite di un singolo tie toglie un po’ di sacralità alla competizione, ma almeno trovo divertente fare ipotesi su chi possa andare avanti o meno in un determinato turno nel corso della settimana, fino anche a gufare un avversario scomodo con l’andare del torneo.

I PUNTI DI FORZA DEL VECCHIO FORMAT
Sascha Zverev dopo i quarti di finale si è però rammaricato proprio del fatto che «se avessimo giocato in Argentina o in Germania ci sarebbero state 15mila persone, è triste vederne solo mille in tribuna». L’elemento che più manca in questa nuova formula è proprio quello del tifo calcistico, soprattutto in Sudamerica, e del richiamo che un evento del genere può avere nei territori delle Nazioni coinvolte. Per non parlare anche dell’indotto generato anche da attività commerciali collaterali che ormai sono confinate in un numero molto più ristretto di Paesi.

Il fascino della vecchia Davis era anche quello delle grandi trasferte. Quella infestata dalle polemiche in Cile nella finale del 1976, quella sportivamente drammatica nello Zimbabwe nel 2003 con la retrocessione nel World Group II, l’equivalente della Serie C. Ma anche delle trasferte dure per i nostri avversari, da sempre accompagnate dal commento passionale di Giampiero Galeazzi che assecondava più che volentieri l’umore della folla. Trasferte che spesso diventavano un incubo per via della scelta della superficie del Paese ospitante, come fu per Andy Roddick impantanato da un giovanissimo Rafa Nadal nella finale di Siviglia del 2004 sulla terra battuta, davanti a 27mila persone.

Qualcuno indica anche nello svolgimento in tre giorni di un tie, anziché in un giorno solo come nella formula attuale, un ulteriore punto di forza del vecchio format. L’attesa dilatata per i vari incontri costituiva una colonna portante dell’evento: quella per il doppio del sabato dopo un 1-1 nei primi due singolari del venerdì, quella estenuante per il quinto decisivo singolare, quello tra i numeri 2, dove spesso sono state fatte scelte teoricamente sorprendenti, contrarie ai valori del ranking. Così, ad esempio, il Kazakistan ci sconfisse nel 2015 schierando nel quinto match Nedovyesov anziché Golubev per espressa volontà del presidente federale kazako Utemuratov, contrario alle intenzioni del capitano.

CHE COSA FARE DI QUESTA COMPETIZIONE?
Soprattutto negli ultimi giorni, riguardo alle possibili modifiche da effettuare per rivitalizzare la Coppa Davis, si sono scatenate le opinioni più varie. La soluzione secondo alcuni sarebbe semplicemente quella di tornare al vecchio format. Altri invece puntano sul renderla più dilatata a livello temporale, a cadenza biennale o quadriennale, al fine di creare una maggiore esclusività dell’evento. Una prospettiva, quest’ultima, che personalmente mi convince molto di più della prima.

Preferirei decisamente un’edizione ogni due anziché ogni quattro anni, a quel punto troppo rara considerando un certo valore tradizionale che tuttora persiste, almeno in parte. Forse però la cadenza annuale è uno dei fattori che toglie valore alla competizione, e che induce un big a pensare di poter rinunciare e avere ancora innumerevoli occasioni per rifarsi. Nel caso di alternanza tra anni con e senza le finali di Davis, la programmazione potrebbe essere mirata a evitarle negli anni olimpici, magari disputandole negli anni dispari.

Credo sia ormai impossibile, però, tornare alla formula delle partite al meglio dei cinque set, che in un’epoca stracolma di infortuni come questa rischiano di creare strascichi, anche solamente di affaticamento, difficili da smaltire per gli atleti in pochi giorni. Ridurre la lunghezza e la quantità delle partite di singolo da disputare ciascuno in ogni tie – una anziché due – non ha però limitato il fenomeno delle rinunce eccellenti che si protrae, in epoca recente, dai tempi del primo Federer.

Anche lo stesso Federer, però, a un certo punto non ha potuto esimersi dal provare a vincere la Davis. Riuscendoci, nel 2014.

La Coppa Davis non assegna più punti ATP a partire dal 2016. Questo significa che un tennista, ragionando in termini di puro materialismo e quindi scevro da slanci patriottici o di completamento del proprio palmares, ha un solo interesse materiale a disputarla: quello economico. Ecco spiegato perché i doppisti specializzati e i singolaristi di seconda fascia, che non hanno un futuro economico blindato come i primi 20 del mondo, hanno comunque un interesse materiale a giocarla a differenza di chi arriva sempre in fondo in tutti i grandi tornei individuali.

Il montepremi della Davis, oltretutto, nel 2025 è stato ridotto del 6,7%: la vincitrice, l’Italia, ha incassato complessivamente 1 milione e 740mila euro, la Spagna finalista 1 milione e 305mila euro, le semifinaliste Germania e Belgio 652.500 euro e così via, il tutto ovviamente da dividere tra i vari giocatori. Cifre che non spostano nulla nel conto in banca ultramilionario di Sinner e ormai anche di Musetti, ben più focalizzati già alla preparazione del prossimo Australian Open.

Un primo passo per convincere i tennisti più importanti a giocarla potrebbe appunto riguardare il ripristino dei punti ATP assegnati per ogni singolo incontro. Alle ATP Finals ogni vittoria nel girone porta in dote 200 punti: se dal 2009 al 2015 ogni singolo successo in Davis valeva, a salire, 65, 70 e 75 punti rispettivamente in quarti, semifinale e finale, a cui si aggiungevano eventualmente altri bonus, potrebbe non essere sbagliato piazzare – almeno nella Final 8 – un jackpot di 100 punti per ogni singola vittoria.

Questo incentivo in termini di punti non andrebbe però a risolvere il problema che vede le finali di Davis come fastidiosa appendice che allunga una stagione già logorante, accorciando i tempi di riposo e di programmazione per quella successiva. Il tennis mondiale è ormai completamente focalizzato su cicli di preparazione agli Slam, per cui forse va anche rivisto il posizionamento della Davis nel calendario. Spostandola dallo slot attuale, due mesi scarsi dal primo Slam dell’anno successivo, a magari poco dopo l’ultimo dell’anno corrente, lo US Open. In questo modo, mettendo punti ATP in palio, molti giocatori potrebbero essere invogliati a partecipare. Sfruttando così l’occasione di immagazzinare un buon tesoretto di punti che potrebbe, a fine anno, fare la differenza nella qualificazione alle ATP Finals a Torino.

Si tratta ovviamente solo di ipotesi, considerando anche che l’organizzatore della Davis non è l’ATP ma l’ITF, e che piazzare le Final 8 di Davis a settembre rischierebbe di oscurare un altro evento a squadre (ma di esibizione) molto popolare patrocinato però dall’ATP, ovvero la Laver Cup, innescando conflitti politici. Difficilmente però tornare alla formula con gli incontri spalmati su tutto l’anno, e in casa di uno dei due contendenti, può rivitalizzare una competizione che proprio negli ultimi anni con quello stesso format, fino al 2018, era già in declino e implorava modifiche.

Come dicono gli indici di ascolto in tv e le presenze allo stadio, la Coppa Davis è ancora un gancio importante per consolidare il pubblico tennistico e per attrarne di nuovo. ATP e ITF dovranno lavorare in sinergia per trovare nuove soluzioni a un torneo che non può essere abbandonato a se stesso, evitando di dilapidare tutto il patrimonio storico e culturale, ma anche tecnico, che ha saputo costruirsi in più di un secolo di vita.

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