
Un mese fa, intervistato dal direttore di Sky Sport Federico Ferri dentro l’istituto oncologico Candiolo, Jannik Sinner aveva cercato di cambiare narrazione attorno alla sua rinuncia alla Davis. Non dovevamo guardare alla sua assenza ma alla presenza degli altri: «La cosa che mi dà fastidio è che abbiamo una squadra incredibile anche senza di me, la possibilità di vincere è alta».
Un mese dopo l’Italia alza la sua terza Coppa Davis consecutiva, la quarta della sua storia. L’ultima capace di riuscirci? Gli Stati Uniti di Stan Smith e Arthur Ashe tra il 1968 e il 1972, per cinque volte di fila, in un periodo in cui la vincitrice uscente però era direttamente in finale l'anno dopo. Un’altra - l’ennesima - dimostrazione del momento d’oro del tennis italiano, verso cui stiamo esaurendo le parole all’altezza.
L’Italia vince la Coppa Davis senza i suoi due migliori singolaristi: il numero due e il numero otto al mondo. Vince grazie alla profondità del suo movimento, capace di esprimere nove tennisti tra i migliori cento al mondo. Vince grazie a Matteo Berrettini e Flavio Cobolli, cresciuti insieme al circolo Aniene, compagni, amici. Vittoriosi in tutte e sei le loro partite, che hanno reso inutile il doppio di Vavassori e Bolelli.
È difficile scegliere l’istantanea per raccontare questo successo, ma di certo tutte racchiuderebbero Cobolli e Berrettini e la loro bromance. Matteo che stringe la testa urlante di Flavio tra le mani, o lo fa scomparire dentro il suo abbraccio.
La conferenza stampa post-vittoria completamente deragliata, con Matteo che dice “Stai a diventa famoso Flavié”. Il momento in cui l’insalatiera si rompe, letteralmente, e la devono riaccroccare in qualche modo.
Flavio che definisce Matteo “una guida”, Matteo che dice a Flavio “goditela”: «Questo mondo va troppo veloce, devono imparare a godersi un pochino di più i momenti: io in primis avrei dovuto farlo. L'unica cosa che gli ho detto prima delle due volte che è entrato in campo è stata "goditela", senti tutte le emozioni e proprio per questo secondo me lui ha sentito che per lui sono un punto di riferimento, perché non gli ho detto "vinci", non gli metto pressione. So da dove arriva lui».
Se però dobbiamo scegliere un momento, difficilmente ci toglieremo dalla testa quando Cobolli stava urlando così forte che la sua anima stava per uscire dal suo corpo. Senza potersi strappare la pelle, ha dovuto accontentarsi della maglia stracciata in due, dentro l'Unipol Arena in delirio totale, alla fine di un terzo set durato 98 minuti.
Cosa avevamo appena visto? Una delle più grandi partite di tennis a cui ci sia capitato di assistere quest'anno.
Cobolli aveva vinto dopo aver annullato 7 match point a Zizou Bergs, e dopo essersi visto annullare 6 match point. La bellezza del tennis è spesso soprattutto questo: l’estetica della fine rimandata, della morte scampata. Una partita che sembra arrivata alla sua conclusione, e poi non più, e i tennisti devono continuare a giocare gestendo rimorsi e rimpianti.
Cobolli pareva averne meno di Bergs, che stava giocando una delle più belle partite della sua vita. Dopo che il belga gli ha annullato il match point sul 9-8, con quella volée in allungo, Flavio pareva aver perso il momento, Bergs si batteva il pugno sul petto. Sembrava aver perso. Sul 15-14 Bergs sceglie la palla corta, mai usata per tutto il match, e la fa anche piuttosto bene. In teoria dopo tre ore Cobolli dovrebbe fare fatica a correre in avanti, ma l'italiano ci arriva, e tira il recupero profondo, annullando il tredicesimo match point. Sembrava aver perso. L'adrenalina però fa bene a Cobolli: lo rende più lucido e coraggioso. Quel tiebreak punto a punto era il suo territorio. Se non fosse che ci stiamo abituando all’eccezionale, ricorderemmo questa partita con l’epica tragica di Andrea Gaudenzi che gioca contro la Svezia con la spalla uscita. Solo che stavolta siamo dalla parte giusta della storia.
Il grande coraggio di Cobolli è andato in cortocircuito con la fragilità di Zizou Bergs, un giocatore che forse avrebbe una classifica migliore se fosse più capace di chiudere le partite. Cobolli lo ha consolato mentre era piegato nelle lacrime, la faccia dentro l’asciugamano. Tutte quelle ore di allenamento, dedizione, lavoro, per arrivare a una delusione così grande. Eppure si prova ancora ammirazione di fronte a uno sconfitto, e questo è uno dei significati più profondi che lo sport può offrirci. Lo ha scritto il padre di Bergs, in uno struggente messaggio su X: “Abbiamo perso il tiebreak ma vinto il rispetto del mondo del tennis. Felice di aver condiviso questo momento bellissimo con tutta la famiglia al mio fianco. Questi sono i momenti per cui viviamo”.
Dopo quella partita, e prima della sfida con Munar, Cobolli ha detto: «Il più bel giorno della mia vita era mercoledì, ora è superato». In finale contro la Spagna molto dipendeva da lui. Berrettini aveva fatto il suo, ma se lui avesse perso poi nel doppio l’Italia partiva sfavorita, contro la coppia Martinez/Granollers. Contro la Germania - la squadra favorita del torneo - sono stati un fattore decisivo, con Granollers in versione galattica.
Cobolli contro Munar non parte chiaramente sfavorito, ma potevamo immaginarlo stanco, scarico. Munar fa i primi cinque punti. Due ace nel primo turno di servizio, 0-30 nel primo turno di risposta. Cobolli, deve ancora attivarsi. Quando ci prova, trova un Munar ubiquo. Questo sotto è un punto che sul punteggio conta quindici, ma che in realtà sposta molto di più.
Dopo il primo set in cui Federer aveva giocato travestito da Munar, non sembra esserci molta speranza. E il break arrivato all’inizio del secondo lo confermava. Munar è un giocatore sottovalutato, reduce dalla migliore stagione della sua carriera. Un coltellino svizzero, buono per tutti gli avversari su tutte le superfici. Uno di quelli che fa sempre un po’ di più di quanto ti aspetti. Un account parodia su X lo chiama “El Magico”; un soprannome ironico per uno che sembra invece l’essenza stessa del realismo tennistico.
Munar protegge bene il centro del campo, e Cobolli sbaglia alcune scelte. Cerca più la forza che la precisione, non lavora bene con piazzamenti e traiettorie, e Munar si appoggia a questi colpi forti e piatti. Cobolli però comincia pian piano a gestire meglio lo scambio da fondo. Comincia a lavorare un po’ di più le traiettorie, a cercare di più la profondità per togliere a Munar il controllo del centro, e poi comincia a spingere col dritto. Soprattutto col dritto da sinistra inside-out, un colpo che sta diventando sempre più incisivo.
La palla di Cobolli va forte; sembra andare sempre più forte ogni partita che passa. Quello che sembrava un giocatore tenace ma leggero, un rematore ostico ma gestibile, sta diventando sempre più aggressivo. Il dritto, soprattutto, va veloce ed è diventato un colpo su cui costruire i punteggi. Il rovescio è sempre meno vulnerabile ed è sostenuto da una spinta sulle gambe notevole, che Cobolli riesce a reggere anche lungo tante ore di match.
Nel secondo set, proprio quando sembra perduta, la partita comincia a girare anche emotivamente, visto che Munar - che è soprannominato "Jimbo" come Connors - si mette a discutere col pubblico. Nel secondo e nel terzo set è una partita tesa, equilibrata, fatta di scambi che facevano venire il fiatone da casa. Una partita piena di un’epica proletaria che è stata la cifra di questa Davis, priva dell’aristocrazia tennistica. Il torneo ci ha ricordato anche quanto può essere bello il tennis anche quando non arrivano in finale i migliori. Si capisce che Cobolli ha girato l’inerzia: Munar - che ha servito con qualità impensabile - aveva sempre bisogno della prima per fare punto.
Cobolli ha vinto con pazienza. Non la prima qualità che ci verrebbe in mente, dopo due partite così passionali. La sua bravura, però, è stata soprattutto gestire il tempo lungo della partita, lasciar sfogare avversari che per lunghi tratti hanno giocato meglio di lui. Cobolli ha accettato questi momenti, aspettando che passassero. Appena Munar e Bergs sono calati, lui è salito, schiacciandoli attraverso la sua costanza e la sua resistenza. Dopo il match point Cobolli ha guardato i suoi compagni, ha baciato per terra, baciato lo stemma, alzato le braccia, sorriso, godendosi il momento in uno stadio di Bologna in delirio.
Con l’aria disfatta, Stefano Cobolli, padre di Flavio, non riesce a trattenere la sorpresa: «Non me l’aspettavo che vincesse questa partita. Non pensavo che avesse le palle per girarla. Non pensavo avesse l’età e le capacità per farlo ancora». Aveva raccontato che la carriera di suo figlio era iniziata un giorno preciso. Si giocava ad Antalya, in Turchia, e durante un match Flavio gli ha fatto perdere la pazienza. Così lui ha preso e se ne è andato, lasciandolo da solo, a 16 anni e mezzo. Flavio ha vinto poi il torneo.
È un aneddoto significativo della durezza di questo giocatore. È chiaro: l’assenza di Sinner ha responsabilizzato i giocatori rimasti, ma sono giocatori che sembrano vivere per la pressione. Tennisti che si esaltano nelle responsabilità e che soprattutto sapevano come condividerle tra di loro, all’interno di una squadra, anzi: tra amici. «Siamo una squadra», hanno ripetuto sempre. Chiunque abbia giocato dei tornei a squadre, anche in categorie infime, sa quanto è diverso il tennis quando si gioca un torneo a squadre. Quando si torna casa in macchina nel tramonto precoce di inizio novembre, nella malinconia dell’imbrunire la domenica pomeriggio, dopo una sconfitta. Il senso delle partite è molto diverso. Condividere lo stress mentale di uno sport così spietato può essere un sollievo; l’Italia era davvero una squadra e questo ha fatto la differenza, nel gestire la pressione, ritrovare energie, spronarsi a vicenda.
Una piccola tara al torneo è necessaria. L’avversario più alto in classifica affrontato dall’Italia per arrivare al titolo è stato Jaume Munar, numero 36. Il format della Davis lascia perplessi, e quando Cobolli dice a fine partita «Siamo campioni del mondo» è tecnicamente vero, ma dei Mondiali che si giocano ogni anno perdono di significato. Messa poi così a fine stagione, la Davis diventa uno strano torneo di sopravvissuti. Lo gioca chi si tiene ancora in piedi. L’Italia è stata aiutata anche dal sorteggio, che non l’ha vista affrontare le due squadre più forti del torneo - Germania e Repubblica Ceca. È stata però una buona prova sulla profondità del movimento maschile italiano. Abbiamo vinto la Davis nel maschile e la BJK Cup nel femminile, ma sono due successi molto diversi. Da una parte c’è un movimento trainato da Paolini ed Errani, dall’altra una squadra capace di vincere anche senza i suoi due giocatori migliori. In un format che, paradossalmente, con solo due singolari in teoria premierebbe più la qualità che la profondità. Non abbiamo mai fatto nemmeno scendere in campo né uno dei doppi migliori del mondo, come Bolelli/Vavassori, né un solidissimo giovane veterano della Coppa Davis come Lorenzo Sonego. Il numero 26 del mondo, Luciano Darderi, non è stato neanche convocato.
Alla fine Angelo Binaghi si è praticamente premiato da solo, quasi in imbarazzo. È la seconda settimana di fila che può premiare dei suoi atleti all’interno di un torneo da lui ospitato. Nel tennis ormai sembra fare tutto l’Italia: organizzare e vincere tornei. Avere i migliori giocatori al mondo e anche le migliori riserve. Binaghi è l'imperatore, un Cesare che non rifiuta però la sua corona.
Berrettini ha vinto la sua seconda Coppa Davis al termine di un’altra stagione difficile. Ha vinto sempre il suo singolare e ha confermato il suo incredibile record: imbattuto in Coppa Davis da sei anni. Ha vinto 11 partite di fila. Il suo ruolo dentro al movimento non è riducibile a quello che fa in campo, ad ascoltare le parole di quelli che lo circondano. Cobolli che lo tratta col rispetto che si deve a un padre, Sinner che dice di aver giocato lo scorso anno perché glielo aveva chiesto lui.
Cobolli è giovane ma a 23 anni, in una carriera che sembra appena cominciata, alla coda dell’anno della sua rivelazione, ha già realizzato qualcosa. Questa Coppa Davis è già qualcosa, e probabilmente gli regalerà esperienza e una nuova consapevolezza per il futuro.
In questi giorni sta giustamente girando molto il video di Flavio e Matteo nel 2011. Lo ha girato Alessandro Nizegorodcew. Hanno, rispettivamente, 9 e 15 anni e stanno giocando il Lemon Bowl, un celebre torneo giovanile. È impossibile non emozionarsi di fronte a queste immagini che ricalcano le stesse dinamiche di 15 anni dopo: un ragazzo più grande che sta dietro a quello più piccolo, che gli guarda le spalle. Al Lemon Bowl prima, in finale di Davis poi. Cobolli aveva vinto la sua partita al tiebreak del terzo set. Né Cobolli né Berrettini raggiunsero la finale, non erano considerati i più promettenti talenti del tennis italiano, ed era semplicemente impossibile immaginarseli spalla a spalla, vincitori della Coppa Davis.
Pochi sport come il tennis riescono a mettere a nudo le personalità dei tennisti, a scoprirne il carattere. Questa coppa Davis è stata bella per questo: ci ha mostrato ancora meglio il carattere di alcuni sportivi che già amavamo molto, e li abbiamo sentiti incredibilmente vicini. Probabilmente sarebbe stato così, forse solo un po’ meno, anche se avrebbero perso. Per questo Volandri ha definito "speciale" la vittoria di questa Coppa Davis; per questo ha pianto più che dopo le altre due.
Si dice che bisogna far caso quando si è felici, ma oggi è davvero difficile raccapezzarsi, da appassionati di tennis italiano. Una settimana dopo la vittoria di Jannik Sinner alle ATP Finals, l’Italia vince la Coppa Davis e noi facciamo fatica a tenere gli occhi aperti, accecati davanti a questo sole che non potevamo immaginare potesse brillare così forte.