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In finale di Libertadores a vincere è stato anche il calcio europeo
01 dic 2025
Oltre al Flamengo, si intende.
(articolo)
11 min
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IMAGO / Latin Sport Images
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Nella mitologia Inca gli Apu sono esseri di luce che vivono rintanati nelle montagne peruviane. Spiriti che mettono in connessione la sfera del divino con quella dell’umanità, per conto della quale intercedono. Vedendo la finale di Copa Libertadores, quindi, viene da pensare che deve esserci un Apu a cui sono cari i colori rosso e nero, i colori del Flamengo, annidata da qualche parte tra le rocce del Cerro Puruchuco, quello che si staglia dietro una delle curve dello Stadio Monumental di Lima, casa dell’Universitario. Sotto quella curva, nel 2019, Gabigol aveva segnato una doppietta con la quale, nel giro di tre minuti, il Flamengo aveva strappato la Copa dalle mani del River Plate.

Sotto quella curva, nella finale di sabato, Danilo – quel Danilo – ha segnato il gol decisivo, quello che ha regalato al "Mengão" la supremazia continentale.

Nel 2019, la curva che faceva da sfondo al trionfo era piena di tifosi del River. Sabato invece era piena di tifosi del Flamengo, la squadra che – secondo Eduardo Galeano – «dovunque giochi gioca sempre in casa», quella i cui colori «sono quelli di una divinità africana che incarna, allo stesso tempo, Gesù e Satana».

Sul Cerro Puruchuco, tifosi brasiliani arrivati all’ultimo si sono mescolati con i ragazzini che vivono nelle case con i tetti di lamiera e si sono inerpicati per provare a respirare un po’ di spirito della Libertadores.

L’unico spicchio di campo nascosto, però, è proprio quello in cui si è svolto il momento apicale, quello in cui la rete si è gonfiata, quello in cui le preghiere rivolte a una divinità andina della fortuna - un "ekeko" - si sono realizzate.

Il Flamengo è diventato così la prima squadra brasiliana ad aver alzato per quattro volte la Libertadores, e Rio de Janeiro la città capace di eguagliare Avellaneda nel portare questa coppa tra i suoi confini per la quarta volta consecutiva (l’Independiente ci è riuscito negli anni Settanta, Rio dal 2022 a oggi, anche se non sempre con lo stesso club).

La più adamantina realizzazione, se mai ce ne fosse bisogno, che le gerarchie del calcio per club sudamericano sono ben definite, e l’ultimo atto del più prestigioso torneo continentale non ne è stata che una conferma.

La Libertadores è diventata una questione brasiliana ormai da sette anni. Dal 2019 c’è sempre stata una squadra che parla portoghese a giocarsi la finale, e cinque delle ultime sette finali hanno visto proprio due club brasiliani affrontarsi.

Nell’edizione 2025, faccia a faccia c’erano le due squadre più forti del continente, ma non solo da un punto di vista sportivo: due veri e propri colossi, probabilmente, in Sudamerica, anche economici, capaci di una potenza di fuoco di spesa impensabile al di fuori dei confini brasiliani. Basti pensare che secondo i dati raccolti da Deloitte il Flamengo è stato, nel 2024, il trentesimo club al mondo per guadagni, qualcosa di decisamente fuori dimensione rispetto al resto del continente. E anche il Palmeiras, il club caro a Bolsonaro, il club presieduto da Leila Pereira — una delle più agguerrite sostenitrici dell’ingresso di capitali privati nella struttura associativa del calcio brasiliano, un tema molto attuale un po’ in tutta l’America Latina — la quarta donna più ricca del Brasile, patron dell’istituto di credito Crefisa, ha saputo spendere sul mercato cifre quasi europee.

Il risultato è che Flamengo e Palmeiras si sono giocati fino all’ultimo, oltre che la Libertadores, ovviamente anche il Brasileirao – che si è praticamente deciso lo scorso 19 ottobre, quando il "Mengão" ha allungato sul "Verdão" grazie a una partita sontuosa di Pedro e una vittoria per 3-2.

A questa finale, il Flamengo arrivava da favorito. Certo, c’era da vendicare la sconfitta subita a Montevideo nel 2021, quando Deyverson aveva punito lo scivolone di Andreas Pereira (oggi in forza al Palmeiras) con un gol che sapeva di beffa. Ma c’era soprattutto da chiudere, in qualche modo, un ciclo, la storia di un gruppo di giocatori all’apice della loro carriera, qualcuno anche un filino oltre. E a compierlo in maniera trionfante, questo ciclo, ci teneva soprattutto l’allenatore, l’uomo nuovo, quello capace di portare in rubronegro una ventata d’aria fresca, un calcio capace di declinare lo spirito brasiliano in maniera europea, qualsiasi cosa significhi. L’uomo che, in campo, nel 2019 aveva alzato la Copa e nel 2021 l’aveva vista sfumare: Felipe Luis.

Dopo una sconfitta nel Brasileirao che sembrava aver compromesso le chance di rimonta sul Palmeiras, Luis Felipe aveva detto: «Per prima cosa dobbiamo capire perché perdiamo, perché pareggiamo e perché vinciamo. Il mio compito è questo: trasmettergli la conoscenza, fargli capire come si svolgono le partite». Il Flamengo di Felipe Luis è, innanzitutto, e lo ha dimostrato anche nella finale, una squadra piena di consapevolezza in sé. Non solo nei propri mezzi, ma proprio nella maniera in cui interpreta il piano gara, in cui riduce al minimo gli imprevisti, in cui tesse la trama del controllo.

La finale di Lima, per lunga parte, è stata una masterclass del gioco che ha in mente Felipe Luis, fatto di possesso palla, di iniziativa, di riconquista subitanea del pallone una volta perso. Il predominio in termini di pallino del gioco è stato limpido, a tratti soverchiante: nel primo tempo ha raggiunto il 70%, a meno di mezz’ora dalla fine della partita quasi dell’80%.

Di contro, il Palmeiras ha affrontato la gara con il piglio resiliente che il suo allenatore Abel Ferreira gli ha inculcato, e che quest’anno si è appalesato soprattutto nella sanguinosa semifinale che gli ha permesso di disputarsi la Copa a Lima, quella doppia gara con la Liga de Quito terminata in rimonta, in casa, dopo una sconfitta per 3-0 in Ecuador.

Abel Ferreira, dalla vittoria back-to-back 2020-2021, è cambiato molto. Da allenatore umile, forte solo delle sue idee, si è trasformato in una specie di villain, gli si è accesa una specie di scintilla-Mou che deve accendersi in tutti i portoghesi: ha cominciato a fomentare l’ambiente trasformando i tifosi in una sorta di valore non aggiunto ma necessario, si è messo a criticare i suoi giocatori chiave in limine alle gare fondamentali ed ha accentuato in maniera quasi macchiettistica quella caratteristica che Juca Kfouri, uno dei più autorevoli giornalisti sportivi brasiliani, gli ha sempre rimproverato, cioè il «suo lato più sgradevole, quello di colonizzatore». Nel luglio 2024, dopo una brutta prestazione dei suoi, ha detto che sembravano «una squadra di indios». Una cosa apertamente razzista, insomma.

Per la finale Ferreira si è affidato a un 3-5-2 che si trasformava spesso in 5-3-2, con i laterali Piquerez e Khellven spesso costretti a ripiegare di fronte agli affondi dei diretti avversari Varela e Lino, affidando le chiavi dell’attacco al redivivo Vitor Roque (che dopo la brutta esperienza al Barça è tornato per brillare soprattutto in Libertadores, dove è stato autore di 4 gol e 5 assist) e al "Flaco" López, nueve argentino molto poco sui generis, attaccante di raccordo che è stato però risucchiato tra i centrali del Flamengo senza riuscire praticamente mai a mettere in atto le sue funzioni classiche, cioè quelle di tessitura della manovra, e di innesco nella profondità a Vitor Roque.

Se c’è qualcosa che al Palmeiras non è riuscito, nella finale col Flamengo, è stato proprio creare i presupposti per spezzare le linee dei rubronegro: più che di demeriti del "Verdão" in questo caso è doveroso parlare di meriti del "Mengão", che è sceso in campo con il mood che aveva Fitzcarraldo quando si è messo in testa di costruire un teatro dell’opera nel bel mezzo della foresta Amazzonica: un’idea fissa da perseguire coerenti a se stessi, se del caso fino alla follia.

Non è stata una partita bella, questo si può dire: fin dall’inizio, però, è stato chiaro come a dettare i ritmi sarebbe stato il Flamengo attraverso un paziente architettamento della manovra, il controllo degli strappi di Allan – l’unico, fino all’ingresso di Felipe Anderson al 70’, in grado di imprimere un cambio di ritmo al Palmeiras – una costruzione del pericolo montante in maniera costante, come il pathos in un film di Hitchcock.

La difesa del Palmeiras, guidata da Gustavo Gómez, ha retto bene la pressione del "Mengão". In fondo la squadra di Abel Ferreira è molto solida: nel Brasileirao è la squadra che non solo ha subito meno gol, ma che concede anche meno tiri per partita. In aggiunta va detto che il Flamengo, proprio in limine alla finale, ha perso per infortunio la possibilità di schierare il suo attaccante più pericoloso, cioè Pedro, autore di 14 gol in stagione, e non si è potuto neppure affidare alla sua prima riserva, l’ecuadoriano Gonzalo Plata che in totale linea col personaggio si era fatto espellere al Cilindro nella semifinale di ritorno con il Racing pregiudicando la sua presenza a Lima. Al centro dell’attacco Felipe Luis ha quindi dovuto posizionare come falso nueve Bruno Henrique, trentaquattrenne reduce dalle finali del 2019 e del 2021, che però è più un esterno offensivo, un’ala, un trequartista esterno, insomma non certo un punto di riferimento centrale. Tutto il peso offensivo, quindi, era demandato a Lino e a De Arrascaeta.

L’uruguaiano quest’anno è particolarmente on fire, e lo ha fatto vedere subito, nella finale, calciando dopo cinque minuti un calcio d’angolo che ha rischiato di trasformarsi in gol olimpico.

De Arrascaeta, da laterale nell’Uruguay di Tabárez si è trasformato, nel Flamengo di Felipe Luis, in un trequartista di pura tecnica capace di andare in doppia cifra quest’anno tanto nei gol (19, di cui 2 in Libertadores) quanto negli assist (11). Si è dischiuso, insomma, il bocciolo di un giocatore inespresso, disvelando tutta la sua diezitude. Quando ha preso in mano il gioco del "Mengão", nei primi dieci minuti della ripresa, è parso a tratti incontenibile: ha saltato uomini, si è infilato tra le linee avversarie, svariando per tutta la trequarti offensiva, ha puntato l’uomo senza timori e soprattutto ha innescato le sortite di Samu Lino – nella prima mezz’ora l’uomo decisamente più pericoloso del Flamengo.

Sarebbe ingenuo affermare che a cementare il predominio del Flamengo sia stata l’esperienza — termine più che mai effimero e vago — ma la maturità della spina dorsale del "Mengão" ha sicuramente influito, non foss’altro che nell’interpretazione della gara. Jorginho, giunto al culmine della sua cerebralità, ha dettato i tempi di ogni manovra, rotto le linee, disegnato verticalità e messo ordine ai primi prodromi di caos. Lo stesso Pulgar, con pulizia quadrata, ha contenuto il centrocampo avversario — ma ha anche rischiato, al trentesimo, di lasciare i suoi in dieci per un brutto intervento sullo stinco di Bruno Fuchs.

In questa suggestiva rievocazione della Serie A degli anni Dieci, nonostante tutto, nessuno avrebbe potuto immaginare che l’uomo decisivo potesse essere Danilo.

Nella difesa a quattro di Felipe Luis, l’ex di Manchester City e Juventus non partiva neppure, nelle gerarchie, da titolare. Il posto al fianco di Leo Pereira, infatti, è normalmente appannaggio di Léo Ortiz, messo fuori gioco da uno stiramento dei legamenti dal quale non è riuscito a recuperare in tempo. Per Danilo, oltre alla titolarità, si è spalancata l’opportunità di raggiungere l’ennesimo trionfo in carriera prima di un ritiro ormai vicino, peraltro già annunciato, subito dopo il Mondiale dell’anno prossimo.

Un segno del destino?

A proposito di segni del destino: l’urubù è uno degli avvoltoi che solcano i cieli del Sud America. È anche, contingentemente, il simbolo del Flamengo: un uccello che attraversa trasversalmente il continente, avventandosi su prede sfinite, funziona anche metaforicamente. Poche ore prima della finale, due urubù sono stati avvistati sui cieli di Lima, e qualcuno ci ha visto un presagio: quel che si era già verificato nel 2019, insomma, poteva tornare a succedere.

In volo, come un urubù che cala in picchiata, Danilo si è materializzato al 65’ nell’area del Palmeiras. A fari spenti, partendo dal dischetto, completamente libero da marcatura, ha avuto tutto il tempo per alzarsi in terzo tempo e schiacciare il pallone di testa contro il palo, prima di vedere la rete gonfiarsi.

Quattordici anni fa, nella finale di ritorno di Libertadores vinta contro il Peñarol, aveva segnato più o meno alla stessa altezza della gara, ancora una volta un gol che si sarebbe rivelato decisivo (però quella volta con un mancino a giro, che aveva baciato lo stesso identico palo).

Pochi minuti dopo essere diventato l’unico giocatore capace di vincere 2 Libertadores e 2 Champions League, Danilo ha rischiato di rovinare tutto: frastornato si è fatto rubare palla da Vitor Roque, ma il "Flaco" López si è allungato troppo il pallone prima del tiro, ed è stato murato. All’88’, infine, si è confermato definitivamente l’eroe della serata: con Vitor Roque solo di fronte a Rossi si è immolato deviando in maniera decisiva la conclusione a colpo sicuro.

Quello che è seguito, cinque minuti più tardi, è stato il delirio del trionfo.

Il Flamengo ha conquistato la sua quarta Libertadores ridefinendo il senso stesso della Coppa, che viaggia ora verso la bacheca dell’unico Paese che libertadores veri, in fondo, nella sua storia, non ne ha avuti. Ma ad uscirne ridefinito è anche il senso del gioco in Brasile, oltre che dei pesi specifici e delle gerarchie del continente.

Con la vittoria del trofeo da parte di una squadra dell’unico Paese che deve tradurne il nome si è fatto ancor più chiaro che il divario tra le migliori squadre brasiliane e il resto del Sudamerica è ormai quasi insanabile. E che per vincere, peraltro, in Brasile, c’è bisogno di un approccio europeo, come quello di Felipe Luis.

Per i tifosi della "Amarelha", e per Carlo Ancelotti, forse, non è poi una così cattiva notizia.

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