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(di)
Daniele Manusia
Contro l'ossessione per le marcature
26 lug 2023
26 lug 2023
Confessioni di un difensore pentito.
(di)
Daniele Manusia
(foto)
IMAGO / aal.photo
(foto) IMAGO / aal.photo
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Da ragazzo amavo distruggere i giochi altrui. Ma anche i miei. Castelli di sabbia, costruzioni, spostavo o facevo cadere i pezzi dalle scacchiere. Persino nei videogiochi ero contrario a qualsiasi linearità, non ho finito Prince of Persia, il primo videogioco a cui abbia giocato (mio padre portava tutte le sere il computer che aveva in ufficio per farmici giocare) non ho finito Super Mariosul Game Boy. Qualcosa dentro di me si rifiutava. E aggiungerei: si rifiutava di stare al gioco. Non ero capace a fare i Lego e se mio padre passava il pomeriggio a fare un elicottero (che avevano regalato a me, che faceva al posto mio anche se formalmente insieme a me) non appena andava in bagno o si distraeva troppo a lungo per guardare le istruzioni io cominciavo a smontarlo. Chissà fino a dove sarei potuto spingermi se non avessi trovato il posto ideale dove sfogare queste mie pulsioni, questo mio talento: ovvero, chiaramente, il campo da calcio. Non sapevo dribblare, ma sapevo interrompere i dribbling degli altri. Non sapevo prendere la palla di testa per indirizzarla dovevo volevo, ma sapevo prenderla prima che arrivasse sulla testa del mio avversario. Oppure sapevo come spingerlo senza farmi notare, cambiargli l’inclinazione del collo spingendo sulla parte bassa della schiena con l’anca. Avevo imparato subito, grazie al classico maestro italiano che si esprimeva solo con sguardi di traverso e frasi fatte più o meno pertinenti, che la palla o l’avversario potevano anche passare, ma solo l’uno o l’altra, l’importante era che non passassero entrambi. Io cercavo la palla, ci mancherebbe, ma se non la trovavo… Così sono diventato un maestro della marcatura intorno ai sedici, diciassette anni. Non c’era cosa in cui, giocando a calcio, provassi più gusto. Ogni tanto segnavo di testa, ogni tanto un mio lancio lungo veniva raccolto dall’attaccante che andava in porta, ma il piacere sadico che provavo nel mettere la gamba tra quelle dell’avversario, o nel passargli di lato e mettergliela davanti, giusto per deviare la palla in fallo laterale, o verso un mio compagno, era impareggiabile. Se proprio l’avversario dormiva, riuscivo persino a stopparla e a fare qualche metro in conduzione. Ero un difensore gasperiniano ante-litteram, anche perché il mio allenatore dell’epoca, con tre difensori buoni a disposizione e non altrettanti trequartisti o esterni, ci faceva giocare col 3-5-2 (ricordo che non erano molte le squadre con quel modulo, alla fine degli anni ‘90, nelle giovanili romane). La mia visione del calcio era così distorta che non capivo perché gli attaccanti che marcavo diventavano aggressivi e ci rimanevo male se a fine partita non mi salutavano. Non mi sembrava di fare qualcosa di sbagliato o scorretto, faceva parte del gioco, no? Oppure era ilcontrario stesso del gioco, di quello che rendeva il calcio un’esperienza piacevole e uno spettacolo interessante? Il punto, a pensarci bene, adesso, per me non era rubare palla o sventare un pericolo, ma letteralmente interrompere il flusso dell’azione. Costringere tutti gli altri a fermarsi, a mettere in discussione il senso di quello che stavano facendo che per me non aveva nessun valore. Non rispettavo neanche i miei compagni più creativi e talentuosi, che maltrattavo in allenamento (ci provavo, non sempre ci riuscivo) a costo di litigarci. Non provavo nessun gusto quando vedevo una bella giocata, pensavo solo a come avrei potuto rovinarla se fossi stato al posto del difensore. Se questo è calcioSono passati cinque minuti dall’inizio di Sassuolo-Monza, partita di fine stagione con pochissimo in gioco per entrambe le squadre. Pinamonti non ha ancora toccato una palla. Il primo passaggio a lui indirizzato arriva da fallo laterale, Pinamonti va incontro la palla e da dietro viene sommerso da Pablo Mari, che lo avvolge come carta argentata su un mezzo avocado avanzato e mettendogli una gamba sotto l’ascella riesce ad allontanare la palla. Io sono seduto in tribuna e ho una specie di illuminazione.

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È calcio quello che ha fatto Pablo Mari? Non ne sono sicuro. Trenta secondi dopo, su una palla simile proveniente dalla difesa neroverde, Pablo Mari tampona Pinamonti come quei video in cui automobili senza passeggeri vengono lanciate contro i muri a diverse velocità per vedere i danni sempre maggiori causati, solo che stavolta è il muro ad andare addosso all’automobile. Pinamonti finisce a terra sinceramente dolorante e l’arbitro fischia fallo. Una punizione innocua a centrocampo, dalla tribuna ho l’impressione che Pablo Mari stia sorridendo mentre guarda Pinamonti contorcersi. Tre minuti dopo, stessa cosa. Palla lunga dalla difesa, la maglia rossa di Pablo Mari copre e nasconde Pinamonti al suo interno, lo digerisce, mentre il difensore si limita a toccare la palla con la punta del piede. Per l’arbitro non basta e fischia di nuovo fallo. Anche perché Pinamonti per evitare che Pablo Marì lo anticipasse avrebbe girarsi, ignorare la palla e lottarci. L'ossessione per le marcature, e in particolare le preventive, che asfissiano l’attaccante anche quando la palla è lontana, con il ricorso al fallo sistematico come piccola furbizia semilegale a disposizione di tutti, porta un tipo di calcio, che nella sua interpretazione più estrema, diventa incredibilmente simile al wrestling. Nel frattempo, dalla parte opposta del campo, Petagna prova con difficoltà a stoppare un pallone, lui che è fatto di ferro e che di suo deve fare attenzione per non distruggere il pallone provando a controllarlo, e da dietro arriva Ruan Tressoldi che con un’astuta botta d’anca gli fa sbagliare il tocco. Petagna è uno degli uomini più grossi che abbia visto su un campo da calcio, sembra un miracolo il semplice fatto che riesca a correre e né Tressoldi né Erlic (nome da mostro da mitologia norrena per un difensore effettivamente mostruoso) riescono a inglobarlo nelle loro ragnatela difensiva; nonostante ciò Petagna non può mai girarsi, è costretto a giocare da fermo tenendoli dietro la sua schiena possente, dedicando per forza di cose scarse attenzioni alla palla, cercando un compagno per liberarsene il prima possibile. Perché o lotti, o giochi con la palla. Contro uno stile difensivo così aggressivo puoi fare due cose: provare a giocare e venire quindi mangiato dai difensori, oppure trasformare la partita in un incontro di greco-romana e ridurre le tue ambizioni puramente calcistiche. Ci piace? Ci sono soluzioni? Alla base di questo discorso, come alla base di ogni discorso sul calcio, c’è la premessa secondo cui non esiste un modo certificato con cui vincere, né tanto meno un modo di vincere più o meno giusto. Anche sul concetto di bello nel calcio è difficile mettersi d’accordo. Penso però che su questo possiamo essere tutti d’accordo: l'ossessione per le marcature fa schifo. Sono utili, anche le preventive, ma fanno schifo.Sono un modo semplice di difendere senza richiedere intelligenza, senso della posizione o tecnica ai difensori. Sono un modo per far difendere anche i difensori mediocri. Per trasformare l’arte della difesa in mera burocrazia.Fateci caso. Ormai la maggior parte dei difensori centrali (a tre o a due, è uguale) quando non stanno in area di rigore si limitano a una sola interpretazione del ruolo: andare in pressione forte sugli attaccanti spalle alla porta. Senza neanche provare a prendere palla, facendo sistematicamente fallo. Per difendere in Serie A basta 1) andare in palestra e 2) imparare a tamponare gli attaccanti. Un difensore mediocre di questo tipo può annullare per buona parte della partita anche un attaccante più talentuoso o creativo, forse anche per questo il nostro campionato si sta riempiendo di attaccanti che sembrano il Batman di Ben Affleck.Non so da dove venga, forse è un'idea di calcio che abbiamo sempre avuto dentro, ma a me pare, storicamente, un’aberrazione persino dello stile gasperiniano che trasformava le partite in sedute dal dentista, solo che quello puntava molto sull’anticipo mentre quest’ultima evoluzione, se così vogliamo chiamarla, ignora quasi l’esistenza della palla. Odia la palla. Se i difensori mediocri - come ero io: a questo punto avrete capito che mi sono pentito del mio passato - potessero giocare con dei tacchetti appuntiti e bucare il pallone ad ogni intervento, finché i palloni finiscono e l’arbitro deve sospendere la partita, sarebbero finalmente felici.È una cosa che peggiora lo spettacolo che tira in ballo anche l’interpretazione del regolamento. Anche perché non si può chiedere agli allenatori di correre volontariamente più rischi, ai difensori di evitare il contatto fisico. Il regolamento può servire per spingere verso un maggior rispetto dello lo spirito del gioco? Si può distinguere tra i falli “onesti”, magari anche duri, e quelli fatti senza nessuna possibilità di prendere il pallone, e magari ammonire questa seconda tipologia?Perché è meglio un difensore che prova a salvare una situazione pericolosa in extremis, e commette fallo magari anche duro, di uno che in una situazione banale interviene solo per interrompere il gioco, no? Cinque, dieci, quindici, cento volte a partita. Saremmo disposti ad accettare un’interpretazione così soggettiva da parte dell’arbitro (in un’epoca in cui ci si illude di poter arrivare all’oggettività) pur di evitare che il calcio diventi una versione peggiore del football americano, con interruzioni continue e falli che diventano gesti tecnici? Con attaccanti che sembrano giocare dentro uno sciame d'api che li tortura ovunque vadano, legati da corde invisibili a pali della flagellazione che prendono il nome di Tressoldi o Pablo Marì?Non lo so. Io ho fatto questi pensieri durante una singola partita in cui la sola cosa che desideravo era vedere gente talentuosa giocare a calcio e mi pareva impossibile. Ma è così in moltissime partite, anche ad alto livello. Se nella famosa puntata dei Simpson in cui si faceva la parodia di una partita di calcio il pallone si muoveva lentamente tra giocatori più o meno fermi, alcune partite di Serie A oggi arrivano a livelli di assurdo simili, con continui falli a centrocampo che interrompono, rallentano, sporcano l’azione. E perché questa versione del gioco del calcio deve svilupparsi proprio in Italia, tra tutti i campionati a disposizione?Forse è il calcio che ci piace, per carità. Un calcio di difensori buttafuori che selezionano gli attaccanti all’ingresso; un calcio in cui non solo le partite possono finire tutte 0-0 ma in cui la palla non si avvicina neanche all’area di rigore. Che sogno.

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